Due eventi, due locations completamente diverse, un’installazione luminosa e dieci opere lenticolari. Leit motiv: lo spazio e la luce che si svelano mediante un linguaggio binario fatto di dentro e fuori, di implosione ed esplosione, di fissità e movimento.

Sono le due mostre inaugurate da Chiara Dynys a Roma, per la cura di Maurizio Calvesi, Italo Tomassoni e Gianluca Marziani. All’Aranciera di Villa Borghese del Museo Carlo Bilotti l’installazione dal titolo In Alto; Passages si trova invece negli spazi della galleria De Crescenzo & Viesti.
A Villa Borghese l’artista si confronta con l’antico (quale città meglio di Roma può darle questa possibilità) adottando luci anomale che stravolgono la percezione della metropoli. Villa Borghese e le sue splendide vedute diurne e notturne. Non si può non pensare a quella Villa Borghese tante volte ritratta da Giacomo Balla, una rappresentazione panteistica della natura dai colori caldi e luminosi. Quella sensazione di brusio vitale fatto di luce l’avvertiamo con la stessa intensità nell’installazione di Chiara Dynys.

La mostra si sviluppa in quattro momenti, quattro punti cardinali luminosi, quattro archetipi che mettono in rapporto la natura con l’architettura, l’antico ed il contemporaneo. Le aureole luminose che circondano alcuni alberi attorno al Museo, sono il momento di maggior impatto scenografico per la fusione che viene a crearsi tra arte e natura; il bersaglio fatto di plexiglass e neon è un gioco di specchi e luci che induce ad interpretarlo come una sorta di magnete ottico immobile; le tre frecce posizionate sul balcone (il numero 3 ricorre simbolicamente in tutta l’installazione) sono il momento di massima tensione visiva in quanto conducono lo spettatore a guardare oltre, suggerendo tre punti cardinali che “volano” verso il cielo. Infine, tre grandi diamanti spiccano dal suolo, riconducendo quindi il pubblico verso la sfera terrena dopo l’esperienza trascendentale. Una visione a 360°, in cui lo spettatore è totalmente coinvolto all’interno di uno spazio naturale/artificiale che permette di accedere ad altre dimensioni, grazie ai giochi di luce che modificano realtà e percezione.

Nella galleria De Crescenzo & Viesti, come conclusione del percorso espositivo cominciato all’aperto, possiamo invece ammirare dieci lenticolari ovali. Sono “eventi” che si rivelano al pubblico in un’azione dinamica, laddove è proprio lo spettatore a doversi spostare fisicamente per osservarne il movimento. Dieci porte d’accesso che ci conducono verso una realtà parallela. Non a caso una delle opere rappresenta proprio una porta che si apre e si chiude (Porta con sfondo, 2008).

Giorgia Calò: Prima di cominciare a parlarmi della mostra romana vorrei farti qualche domanda sul tuo lavoro, magari partendo da un luogo e una data: Milano degli anni Ottanta, quando hai cominciato la tua carriera dedicandoti inizialmente alla pittura. Parlami di quel periodo, in cui iniziano ad aprire numerose gallerie, c’è un crescente interesse dei collezionisti che acquistano opere e una forte presenza di giovani critici che seguono da vicino gli artisti.
Chiara Dynys: Nella Milano fine anni Ottanta si respirava un clima effervescente. La galleria Fac Simile, in cui ho esposto sia nell’87 che nell’88, era uno spazio postindustriale. In quel periodo molti artisti sono passati da lì, nella piena idea della centralità di Milano come città favorevole per l’arte contemporanea. Si percepiva Milano come punto focale, poi, con l’andare degli anni, questa aspettativa di internazionalità è stata un po’ delusa. Ma quello era anche un momento in cui c’era meno competitività perché tutti sentivano di aver il loro spazio.

La mia prima mostra personale risale al 1987, alla galleria Fac Simile di Milano (Tableaux d’une exposition, n.d.r.). In quella occasione ho esposto i miei primi quadri monocromi in cui già c’era l’idea di attraversamento. Da una prima visione l’opera appariva un monocromo; guardandola attentamente, invece, lo spettatore aveva la percezione di trasparenza ed apertura verso il centro, come fosse un passaggio nella tela che lentamente si presentava allo sguardo. I quadri sono stati realizzati con pigmenti naturali e resine. Ho lavorato molto anche sulla tela stessa, alcune di queste infatti erano sagomate.

G.C.: Alla fine degli anni Ottanta si è formalizzata in Italia, e soprattutto a Milano, una nuova sensibilità artistica per cui si è sentita la necessità di uscire dal bidimensionale per occupare, con nuovi materiali, la terza dimensione. Anche tu hai risentito di questa nuova tendenza che cercava di annullare il potere normativo delle immagini?
C.D.: Come ti dicevo, molte delle mie tele realizzate in quel periodo erano sagomate, c’era quindi già l’idea di dare una forma tridimensionale ad una struttura bidimensionale, il quadro attaccato alla parete. Parte da quel momento la mia sperimentazione sulla costruzione di ambienti. Anche i monocromi, sagomati ed estroflessi, formavano nell’insieme un ambiente.

Per l’evento a Monaco nel 1989 Italien … Künstlerwerkstätten avevo scelto uno spazio rettangolare, una stanza stretta e lunga dove avevo aperto uno dei muri d’accesso con una forma trapezoidale. Il punto focale del mio lavoro è proprio la rappresentazione del passaggio, dell’attraversamento sia virtuale, mediante le parole e la scrittura, sia percettivo, usando la forma del ribaltamento attraverso la percezione di chi guarda.

G.C.: Il tuo lavoro durante gli anni è cambiato. Come ti trovi ad operare nella Milano di oggi?
C.D.: Il mio modo di operare attualmente è internazionale, lavoro un pò dappertutto. A Milano ci sto poco; sicuramente è una città favorevole, anche se continua ad avere delle difficoltà rispetto alle altre capitali europee. Forse perché ci sono meno strutture rispetto a quelle che offre Berlino o Londra, ad esempio. Rispetto alle aspettative degli anni Ottanta Milano si è un po’ fermata, ma sicuramente rimane un luogo in crescita.

G.C.: Renato Barilli nel suo saggio Prima e dopo il 2000 riconduce a modello del tuo operato l’arte di Donald Judd. I suoi lavori di carattere minimal sono freddi, fondati sull’essenzialità della geometria. Ma a differenza delle tue opere, spiega Barilli, Judd usa materiali diversi: ferro zincato, alluminio, lamiere. Ti riconosci nella sua esperienza artistica?
C.D.: Diciamo che il mio lavoro è antitetico a quello del Minimalismo americano. Loro hanno usato materiali assolutamente non ricercati, al contrario io invece uso, proprio perché funzionali al mio linguaggio, materiali estremamente ricercati e sofisticati, anche quando lavoro con la luce.

G.C.: La ripetizione è un elemento essenziale del tuo lavoro; vediamo spesso corpi aggettanti dalle pareti fatte di sostanze vitree o stoffe, animate da motivi preziosi. Da dove parte la tua ricerca artistica?
C.D.: Oltre la forma, il lavoro sull’ambiente e sulla percezione, un altro tassello fondamentale della mia ricerca è il suono. In molte installazioni ho costruito insieme all’idea della luce anche l’ascolto.

G.C.: L’uso che fai della luce, come spiega Italo Tomassoni, è lontana dalle insegne pop e dalle ricerche concettuali. È piuttosto una luce che diventa scrittura, parola, assumendo un valore comunicativo autoreferenziale. Penso a Born to be confused (2004). Questo vale anche per le installazioni luminose site specific e/o di public art? Come ad esempio Noi e loro (2007).
C.D.: In quel caso ho usato la luce con un sistema volutamente poco scenografico per costruire delle parole che erano i nomi di artisti storici insieme ad un loro attributo di conoscenza collettiva, ad esempio Fontana e il suo taglio piuttosto che Boccioni e la madre. Anche quello è un passaggio, questa volta però tra Noi (presente) e Loro (la storia dell’arte, il passato). Ci perviene così un pezzo di vita emblematico dell’artista che ne ha costruito il passaggio.

G.C.: Un’ultima domanda sulle mostre in corso a Roma, In Alto e Passages. Per questa occasione hai realizzato due progetti dialoganti tra loro attorno al tema dell’energia luminosa, concentrandoti su un elemento meta-fisico per eccellenza: la luce intesa come aura ultraterrena. Ce ne vuoi parlare?
C.D.: Sono due situazioni: nella mostra In Alto c’è questa idea di cambiare con dei segnali visivi un paesaggio che è molto importante nella memoria di chi attraversa quel luogo. I romani sono abituati a passare di lì senza vedere realmente ciò che li circonda; costruendo questi segnali ho modificato il paesaggio in modo che chi attraversa è portato a guardare in alto mediante elementi di “disturbo” visivo, proprio perché in quel modo si è costretti a vedere.

Per quanto riguarda Passages, anche lì ho costruito una situazione percettiva realizzando delle mini fiction in cui non si arriva mai a vedere il risultato finale di un attraversamento, di un’azione che si sta per compiere ma non si conclude. Noi possiamo solo immaginarne la conclusione, ma non possiamo costruirla concretamente nel presente. Ancora una volta quindi un attraversamento di uno spazio in un momento virtuale.

 

 

Dall’alto:

Veduta dell’installazione luminosa In Alto, 2008. Museo Carlo Bilotti, Villa Borghese, Roma

Veduta della mostra Passages, 2008, Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma. Courtesy Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma

Veduta della mostra Passages, 2008, Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma. Courtesy Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma

Porta con sfondo, 2008, lenticolare e opale, cm 114 x 80 x 16. Courtesy Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma

Porta con sfondo, 2008, lenticolare e opale, cm 114 x 80 x 16. Courtesy Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma

Born to be confused, 2004

Noi e loro, installazione luminosa, Palazzo Reale, Milano, 2007/2008

In Alto, 2008. Frecce di led e neon, altezza m 3 circa

Sentiero di Stelle, 2007. Diamanti in acciaio a specchio con leid aivertici, diametro cm 100×110 circa cad. (collezione ATEL energia)

Shuttle, 2008, lenticolare e opale, cm 114 x 80 x 16. Courtesy Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma

Shuttle, 2008, lenticolare e opale, cm 114 x 80 x 16. Courtesy Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma