La mostra di Mariagrazia Pontorno allestita presso il MLAC ha suscitato notevoli consensi, particolarmente in un ambito artistico dal carattere giovane, controverso, ed in cui sussistono differenti e mutevoli punti di vista e svariate interpretazioni della tecnologia. Il punto di vista di Mariagrazia Pontorno è sembrato particolarmente interessante proprio in relazione all’uso di questa tecnologia e alla possibilità di usarne alti coefficenti con alcune evidenti specificità.

Domenico Scudero: Nel tuo lavoro così come lo hai presentato il substrato tecnologico è visto come un solido sistema di riferimento. Tuttavia a ben guardare l’opera che ne risulta è sostanzialmente un quadro, un affresco, un dipinto. Si tratta in qualche misura di opere che elaborano una tradizione consolidata.
Mariagrazia Pontorno: L’utilizzo di tecnologie sofisticate che assumono il formato del quadro di genere o suggeriscono l’affresco costituisce per me un modo di interrogare il passato. Non si tratta di citare, ma di mantenere in vita la tradizione e dialogare con essa, nel tentativo di una ricerca di rapporti e probabili risultati. Il Triclinio di Livia, gli Horti Conclusi, i demoni warburghiani, i panorama, coesistono nel grande atlante del pensiero occidentale. In questo caso, naturalmente, è soprattutto la storia dell’arte a costituire l’interlocutore dell’io contemporaneo.

D.S.: La seconda cosa che mi ha colpito è la relazione fra nuove tecnologie e fisicità del lavoro, per cui, ad esempio, osservando i piccoli schermi in cui la scena si ripete in loop, questi schermi diventano parte integrante dell’opera e non sono dei semplici supporti intercambiabili.
M.P.: Alla realizzazione del Giardino è sottesa l’idea che la tecnologia non debba servire da semplice supporto, rappresentando piuttosto una precisa scelta estetico-formale. L’opera in mostra è costituita assieme al video anche dal monitor che lo trasmette in loop. Nulla di diverso dalla preferenza nella pittura o scultura tradizionali di un formato o di un materiale rispetto ad un altro. Anche nelle nuove tecnologie funziona così; e la scelta del mezzo determina il linguaggio. La tecnologia è l’opera, sia essa esibita (vedi Nam June Paik), o invisibile e discreta come le interfacce naturali di Studio Azzurro. In questo senso, anche Il giardino di Maresa è il risultato di almeno una scelta che da tecnica diventa estetica: aver utilizzato una memoria volatile in cui è registrato il video nascondendola all’interno del monitor e non avere collegato ad esso nessun lettore dvd, implica l’assenza dell’identità RETTANGOLO LUMINOSO=MONITOR (O TV) e suggerisce quella RETTANGOLO LUMINOSO CHE VISUALIZZA IMMAGINI=QUADRO IN MOVIMENTO. In quanto al discorso del loop, esso mi interessa particolarmente, perché i miei lavori non aspirano ad avere nulla di narrativo; e la ripetitività propria del loop è anti-narrazione, congelamento temporale. È un segmento di presente che illude di serbare sviluppi inesistenti, è una sequenza ciclica, un impulso/baratro-pantano.

D.S.: La realizzazione dei quadri tecnologici che proponi non è certamente alla portata di chiunque, sebbene attraverso la modularità di alcuni prodotti è relativamente semplice costruire queste tele-elettroniche. Qui naturalmente il problema non è tanto l’idea della tecnica che garantisce il supporto quanto la possibilità che l’artista ricostruisca in maniera inventiva una tecnologia già in uso.
M.P.: L’idea di rivisitare tecnologie che sono ormai di uso comune è, come ho già accennato, un modo per sottolineare il fortissimo valore estetico intrinseco della tecnologia, ingiustamente obliterato da un utilizzo di massa irresponsabile. Ad esempio, i monitor da me scelti sono degli open frame fuori misura e per questo difficilmente reperibili al dettaglio: essi sono usati per la realizzazione di navigatori satellitari integrati nelle automobili o per i photo frame; in entrambi i casi sono rivestiti da involucri di plastica e marchi. Li ho voluti presentare open frame, privi di cornice, per rimarcare la primitiva veste industriale e bellezza non ancora alterata dal design di consumo. In questo modo, e ribadendo quanto detto più sopra, la restituzione intellettuale (il rapporto, lo sguardo all’indietro) è un concetto espresso sia dal video che dal mezzo.

D.S.: La scena che hai proposto per l’installazione è una figurazione in 3D dai colori hyper-saturi che ricordano alcune immagini digitali ulteriormente elaborate. La realizzazione di questi quadri in movimento non è tuttavia derivato da un’immagine reale.
M.P.: Solo il 3D può giustificare e sostenere il senso di questi lavori. Sembra di trovarsi di fronte a piante che si muovono al vento, e in effetti lo sono; ma sono piante finte mosse da un vento finto su uno sfondo che riproduce una finta natura. E tutto questo accade in quanto finzione, trattandosi di immagini di sintesi. Nulla di ciò che qui appare reale proviene dal mondo vero, tangibile, analogico. Le immagini sono puri vettori sintetizzati all’interno dell’elaboratore. Si crea così un cortocircuito dello sguardo: ciò che appare fotografia del vero non lo è. In tal senso l’uso del 3D è più vicino alla pittura e alla scultura di quanto non lo sia all’immagine fotografica e alla ripresa video. La tecnica 3D appartiene infatti al dominio del togliere e aggiungere materia: ogni elemento viene plasmato e modellato usando poligoni geometrici e rivestito con textures. Ciò che cambia è la consistenza della materia utilizzata: non il marmo, il legno o la tempera, ma il lume inconsistente e impalpabile dei pixel. Inoltre il 3D permette, almeno in fase di elaborazione, di superare lo scoglio della bidimensionalità. Perché ogni elemento modellato può, attraverso obiettivi e zoom digitali (dunque ancora virtuali, ancora finti), essere esplorato da ogni punto di vista. Garantendo così l’utopia dello sguardo totale. Una volta renderizzata (elaborata), l’immagine riacquista la sua valenza bidimensionale e univoca, ma porta dentro di sé una stratificata carica concettuale. Proprio questo elemento invisibile investe l’opera 3D di contenuti sottesi, ambiguità, complesse speranze di decodificazione. Ho scelto di lavorare con il 3D per tutte queste ragioni, considerandolo sempre un mezzo non da effetti speciali ma dalle infinite occasioni esegetiche.

D.S.: Così come accadeva di vedere in alcune installazioni di parecchi anni fa, e mi riferisco ad esempio alle grandi immagini di Jeff Wall o alle alterazioni di Alfredo Jaar, nel lavoro al MLAC hai montato due diversi loop a parete su video proiezione e tre piccoli frammenti di questi nei quadri elettronici. Il meccanismo è relativamente semplice, accentua in qualche modo la tridimensionalità della scena e la sua inesorabile estaticità fisica. La differenza fra quanto visto precedentemente e il lavoro che hai prodotto consiste allora nella sua evidente astrazione, poiché qui nessuna delle immagini risulta essere reale.
M.P.: L’irrealtà, o meglio la realtà apparente, è uno degli obiettivi della mia ricerca. A muovere le foglie e le piante non è il vento. Non c’è nulla di vero, perché prima di tutto è un’operazione mentale. L’uso del 3D è volutamente privo di effetti tesi alla spettacolarizzazione dell’immagine, o all’iperrealismo. L’utilizzo controllato di questa tecnica permette di situare l’opera nella linea di confine tra realtà e finzione; innescando anche dei paradossi visivi: il tema, quello del giardino, del paesaggio, del dettaglio è un classico dell’immaginario artistico. Ma la forma e le tecniche si insinuano provocando un rumore visivo: si percepisce che qualcosa non va. Il movimento delle piante al vento a tratti perde la propria fluidità; ciò che nel complesso appare una visione familiare perché legata all’esperienza quotidiana, osservata attentamente svela le sue contraddizioni, il suo lato perturbante. A quel punto la certezza dell’immagine intesa come icona crolla.

D.S.: Alcuni visitatori mi hanno detto che la mostra è molto silenziosa, un silenzio inconsueto. Mi hanno anche chiesto come mai non hai voluto corredare queste immagini con un sonoro, così da creare un’ambientazione complessa.
M.P.: Il suono avrebbe depotenziato l’installazione, piuttosto che arricchirla, poiché penso che il tappeto sonoro del Giardino di Maresa sia la vita che lo circonda: i rumori dell’ambiente, di chi visita la mostra, o provenienti dalla strada. Perciò anche la fruizione risulta quella classica del quadro e non quella multimediale del cinema o del videoclip. Ho preferito fornire un’interazione di tipo soggettivo, evitando contributi audio che potessero in qualche modo guidare e accompagnare lo sguardo del visitatore. In un momento di piena di immagini, suoni, contenuti, pare bello scegliere il silenzio.