Biennale sui topi e sugli uomini quest’ultima edizione berlinese che ha l’incipit di spostare in un luogo del quotidiano l’attenzione sull’arte. Non che questo dislocare altrove, in spazi desueti, nella vita, non conti dei precedenti nella storia dell’arte più recente, ma nuovo è il pensare ciò spazio di rassegna, spazio di biennale. Un’intera strada con annessi alcuni sconfinamenti limitrofi è lo scenario di questa quarta edizione che ambisce a riportare l’arte e il suo dibattito nel chiuso, a girare la chiave dei propri pensieri su ciò che i curatori ammettono avrebbe fatto loro piacere vedere. Limitare e circoscrivere anziché aprire, conoscersi, dilatarsi. Così nello spostamento dello spazio esibitivo si rinuncia in primo luogo a propositi di onniscienza. Il qui e ora che è anche l’annoso problema dell’immediato vicino, di ciò che ci è accanto, di ciò che inevitabilmente colludiamo nel nostro percorso, di quello su cui inciampiamo, di quello che ci piace avvicinare perché ci corrisponde e su questo ci si vuole fermare, punto. Lontano da pretese onnicomprensive, si torna si potrebbe dire al privato, al loro privato: quello esibito dei tre curatori che propongono in quest’evento il brivido del ritorno. Un ritorno al passato, ai suoi fantasmi e agli incubi presenti. All’impossibilità di fermare la nostra vacillante coscienza di fronte alla perdita di progettualità. Un bello schiaffo per chi ancora crede che ciò sia possibile, ma la prospettiva può essere rovesciata e apparirci meno politicamente scorretta se solo ci sottraiamo all’obbligo della responsabilità e decidiamo di assecondare un’ottica più conchiusa – che per inciso comunque difficilmente abbandoneremmo per intero – per partecipare di una visione parziale forse anche un pò autoreferenziale ma sicuramente più monocorde di quanto gli stessi curatori hanno dichiarato di voler definire. Quella molteplicità vocazionale e potenziale viene nei fatti affievolita dalle scelte operate sicchè l’elemento lourde della nostra esistenza, le deiezioni si fanno protagoniste del presente e della memoria del passato. Auguststrasse, la via lungo la quale si snoda il percorso espositivo, non è infatti una via qualsiasi. È un luogo nella parte est di Berlino dalla fisionomia assolutamente caratterizzata. I numerosi cantieri che ne impolverano il lustro si alternano ad edifici storici archetipali quasi aumentandone esponenzialmente il fascino.Tutta una certa Berlino è là. Non è fondamentale lo si sappia ma resta utile ricordare che Günter Jordan nel 1979 vi ha girato Berlin Auguststrasse.

Provando ad assecondare questo teorema ogni parte di questo evento ci appare consequenziale e di cornice. Lo stesso titolo On Mice and Men dichiara la scelta di considerare questo evento non come la configurazione di una teoria ma lo snodarsi di un racconto, di una poesia. Difficile, d’altra parte, immaginarsi un’esibizione – rassegna attenta e generosa nel registrare e testimoniare; visto che tra i tre curatori è stato chiamato un artista, anzi l’artista italiano più noto al momento: Maurizio Cattelan. Accanto a lui a condividere la cura: Massimiliano Gioni e Ali Subotnik. E nonostante l’insistenza con la quale i tre cercano di sviare da un’idea preconcetta e riferibile proprio al luogo “il paesaggio è nella nostra mente” o ancora “avrebbe potuto essere ovunque” il luogo prescelto è lì a testimoniare che i luoghi fanno la differenza, che se invece dei muri scrostati della Jewish School of Girls e le strade dissestate ci fosse stato un marciapiede appena rifatto senza fili a vista e polvere sulle scarpe avremmo innanzitutto vissuto tutti certamente un’altra storia.

C’è poi tra le pubblicazioni un libro, per così dire “abusivo”, quantomeno non patrocinato dalla Biennale, un volumone intitolato Check Point Charlie. Sì proprio il nome del più famoso posto di blocco e di passaggio dal muro, oggi segnalato da un monumento in light box che indica l’ex confine tra i due blocchi: quello dell’est e quello dell’ovest. Ora, il simbolo stesso del passaggio presta il nome ad un libro che raccoglie tutta la documentazione fornita dagli artisti e pervenuta ai tre curatori con la finalità di essere selezionati tra i partecipanti alla biennale. Senza la previa autorizzazione degli stessi, l’intero corpo è stato fotocopiato a comporre il librone. Così che ne deriva una summa del materiale di autopromozione di ogni singolo artista ma anche un archivio dal tono un pò poliziesco sul chi e in che modo avrebbe voluto prendere parte alla manifestazione. Non il catalogo algido e asettico che forse era nelle intenzioni dei curatori, ma inevitabilmente il suo“salon des refusées” composto in un libro.

Ma tornando alla storia narrata; qual è questa storia? È bene sottolineare subito che non si tratta di un percorso lineare privo di sorprese ma certo c’è un clima comune che si respira; un ambito di confine tra il possibile e l’impossibile tenuti insieme dal timore che le nostre remore cadano per sempre e che il nostro immaginario più estremo si trasformi in incubo. C’è spazio in questa sinfonia dell’assurdo per pochi elementi ludici che sono quelli che un pò ci rischiarano il cammino: i modellini di Oliver Croy e Oliver Elser, il container di Van Leshout, la mostra Happenness alla Gagosian Gallery e il treno di Robert Ku s mirowski.

Per il resto oscilliamo tra alcuni video di forte impatto visivo e sonoro, come Summer Lighthing di Viktor Alimpiev e installazioni minacciose come Big Bang Room di Paul McCarthy. E soprattutto tra marionette prive di animazione che ci inquietano al solo passarvi accanto, e altre che, dotate di movimenti meccanici, esplorano identità e confusione come Otto di Markus Shinwald o il ragazzo di Tadeusz Kantor o ancora la erversione nell’animazione delle figurine di Nathalie Djuberg. Ora proprio tutte queste figure un pò assomigliano all’alter ego di Cattelan – il suo “pupazzo – io” che gioca e sgomenta ironicamente sul tragico quotidiano – anche se al cospetto è indiscutibile la sua differenza rispetto a questa schiera d’indefinita e insostenibile sofferenza e disperazione inferta all’umano. Ha infatti il deterrente dell’ironia e la confezione dell’high tech. Queste figure sono sospinte viceversa in un limbo troppo promiscuamente animale ed è in questo loro “scambio”, foss’anche simbolico, che è lecito ricondurre tutto nella licenza poetica di un sogno trasposto in forma di biennale.

Poco più in là, uscendo da Augststrasse, verso lo Sprea, c’è la sede storica del Berliner Ensemble, vien da pensare a Bertold Brecht, al suo teatro epico, al suo essere nella tragica realtà … ma questa, pur sempre tragedia, è veramente tutta un’altra storia.

Dall’alto:

Veduta di Augststrasse dall’alto 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Bouchet, Veduta Installazione Courtesy Uwe Walter; 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Oliver Croy mit / with Oliver Elser Veduta Installazione Courtesy Uwe Walter; 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Michael Beutler Veduta dell’installazione Courtesy Uwe Walter 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Thomas Schütte, Veduta Installazione Courtesy Uwe Walter; 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Robert Kusmirowski, Wagon, 2006 Foto Jacopo Scudero 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Markus Schinwald Veduta Installazione Foto Jacopo Scudero 4th berlin biennial for contemporary art, 2006

Erik van Lieshout Veduta Installazione 4th berlin biennial for contemporary art, 2006