1 «Una volta, tanto tempo fa, l’anziano di un monastero infisse un albero secco in cima a una montagna e ordinò a un suo discepolo di innaffiare ogni giorno quell’albero finché non fosse tornato a fiorire. Per molti anni, ogni mattina, il giovane riempì un secchio d’acqua e si mise in cammino. Per raggiungere la cima del monte ci metteva tutta la giornata, dall’alba al tramonto. Ogni giorno arrivava alla cima con un secchio d’acqua, innaffiava il ceppo e ritornava al monastero a notte fatta. Andò avanti così per tre lunghi anni, finché un bel mattino arrivato sulla cima vide che il suo albero era tutto coperto di fiori!»

2 François Jullien, Trattato dell’efficacia , Einaudi, Torino, 1998

Patrizia Mania: Se c’è un aspetto ricorrente nei tuoi lavori, questo mi pare debba riconoscersi nell’estrema discrezionalità con la quale si palesa. Quasi un immaginare mondi a fior di labbra, senza mai voler invadere l’altrui spazio come a cercare un’attenzione più pacata e non aggrovigliata nelle spire dell’eccesso…                                                                                                                                                         Silvia Stucky: Hai usato due parole chiave, attenzione e eccesso. Come inserire un’opera in un luogo che non è la parete bianca, neutrale di una galleria, ma uno spazio con una sua particolare identità? Come far sì che l’opera sia presente, resti visibile rispetto al contesto? La mia “tattica” è guardare il luogo con attenzione, capirlo, cercare di entrarvi dentro come l’acqua entra in un recipiente e ne prende la forma. Questo è il modo in cui cerco di far diventare il mio lavoro parte del luogo. Quanto all’eccesso, credo si possa essere molto più forti sussurrando, piuttosto che gridando. (Anche le grida di reale dolore, che oggi arrivano da tante parti del mondo, vengono di rado ascoltate: se non c’è un interesse economico o politico, coloro che gridano non verranno aiutati, nessuno li salverà dalla guerra, dalla fame o dalla sete…) Per me l’eccesso attiene all’ambito della morte. Attenzione invece è aver cura dell’altro, della natura, avere rispetto, consapevolezza di quello che accade.

P.M.: I pattern decorativi dei tuoi lavori sono per lo più desunti da repertori decorativi d’origine orientalista: prima il Giappone, poi la Cina, l’Iran, la Turchia… un viaggio nella memoria dell’arte lontana, riassunta ma anche accolta come affine, come ingrediente che già presente nella nostra cultura visiva ti riservi il piacere di far affiorare…                                                                                                  S.S.: Ho iniziato nel 2002 o 2003 a cercare motivi decorativi. Non avevo un’idea precisa, ma cercavo e guardavo con attenzione qualsiasi decorazione, ceramica, stoffe, lacche. Ho iniziato con il Giappone. Nel 2004 sono stata in Iran, ho visto le moschee di Isfahan. Ha scritto Kader Abdolah, “Isfahan, la città chiamata la metà del mondo. Isfahan, la città dove sorgono le moschee più antiche della Persia. Secoli fa i costruttori di templi le hanno decorate con gli azzurri più belli facendo apparire sui muri un tale incanto di migliaia di disegni misteriosi che non sai più chi sei e dove ti trovi.” Più di recente ho visitato le sale dell’arte islamica al British Museum, dove ho osservato e fotografato decine di oggetti. Guardando e riguardando si comprende che i motivi decorativi hanno viaggiato attraverso i secoli, passando da una cultura all’altra. Ad esempio, il motivo delle nuvole cinesi lo trovi in Giappone, in Persia, in Turchia, e in Italia nel Trecento e Quattrocento. Questo m’interessa: culture diverse, in momenti diversi, si trasmettono gli stessi elementi. Su questa base si potrebbe tessere una rete di dialogo, oggi che la propaganda guerrafondaia interessata insiste tanto sulla pericolosità del diverso in quanto assolutamente estraneo, incomprensibile.

P.M.: Le Jardin Intérieur è il titolo di una tua recente mostra, tenutasi a Roma a TraLeVolte, nella quale mi è sembrato tu volessi coniugare l’amore per il culto dei giardini, così forte nella tradizione giapponese e persiana, con anche ovviamente il tuo giardino, coltivato con passione e esercizio quasi metafora di un procedere nella dimensione artistica che richiede dedizione ma fermezza, talento e costanza…                                                                                                                             S.S.: Per quel che riguarda i giardini veri, ho passeggiato in quelli giapponesi, e ho letto diversi libri sul giardino giapponese e cinese. Ora mi accingo a leggere un bellissimo libro sui giardini islamici, in particolare persiani. Quanto al mio “giardino interiore”, mi ha dato –come tu dici– la fermezza, la dedizione, la costanza e la pazienza necessarie a realizzare il lavoro principale della mostra, un dipinto a gouache su carta alto quasi 5 metri e largo 90 cm. Come sai, la gouache è come l’acquerello: l’errore, l’insicurezza della mano si vedono. Avere la calma e l’attenzione, tutti i giorni, per poter dipingere, non è stato facile… Qualche incidente si vede. Ma, come l’albero secco del racconto dei padri del deserto (1), alla fine è fiorito. Questo mio lavoro diventava una “pratica”, nel senso indicato da Gian Giorgio Pasqualotto: “La pratica dell’attenzione ad una cosa semplice o a un movimento elementare abitua corpo e mente ad un particolare atteggiamento nei confronti di tutti gli esseri viventi che esclude ogni forma di asservimento o di utilizzazione più o meno violenta.” È una pratica in cui il gesto “creativo” viene sostituito da un gesto che segue –sia pure con un apporto personale– un modello. Una pratica il cui scopo è la pratica stessa.

P.M.: L’acqua è un elemento reiterato nei tuoi lavori. In modalità diverse –video, foto, gouache– lo scorrere dell’acqua ha a che vedere con la condizione della fluidità, della forma non-forma, e della trasparenza….                                             S.S.: Condizione della fluidità è aderire al reale senza voler imporre uno schema predeterminato. Maggiore l’aderenza, maggiore l’efficacia (2), è possibile? Mobile-immobile, mutabile-immutabile…

P.M.: La gamma cromatica prescelta si muove nelle varie tonalità dell’azzurro… mi sembra di poterne ascrivere l’origine a quello stesso sentimento di appartenenza all’elemento fluido di natura, l’acqua al quale continuamente rinvii… I diversi mezzi che impieghi e pieghi alle necessità del tuo lavoro – dalla pittura al video, dalla performance all’installazione ambientale– riflettono l’orizzonte ampio dell’esperienza che cerchi e pratichi e danno la direzione anche di una sorta di modello di disciplina, talché, nonostante i distinguo, ogni tuo lavoro risulta alla fine perfettamente riconducibile all’interno della tua poetica…     S.S.: La gamma cromatica dai blu agli azzurri ha origine dall’acqua.

Dall’acqua nasce la pittura, come materia fluida di colore.

Dall’acqua nasce l’attenzione per i diversi mezzi – pittura, video, fotografia, installazione ambientale, performance.

Dall’acqua nasce –come dici– la poetica.

Dall’acqua nasce l’osservazione che fa “fiorire” ogni opera.

Dall’acqua nasce la pratica, come attenzione per l’altro, per il mondo.

Dall’acqua nasce la comprensione.

Dall’alto:

Silvia Stucky, Le jardin intérieur, 2007, gouache su carta 40 x 40 cm ciascuno

Silvia Stucky, Le jardin intérieur, 2007, video, 5’56’, musica Hamid Khabbazi, ripresa e montaggio Silvia Stucky, post-produzione Danilo Tedone

Silvia Stucky, Acque , 2005, gouache su carta di riso, libro 33,5 x 12,3 cm

Silvia Stucky, Le jardin intérieur, 2007, gouache su carta, 477 x 90 cm

Silvia Stucky, Le jardin intérieur, 2007, stampe digitali, 120 x 80 cm.