Intorno al ’70. Tracce, frammenti, sedimenti, echi: l’antico per Giulio Paolini
Elisabetta Cristallini
Convegno L’antico nel contemporaneo: l’artista, il poeta, lo scrittore. Gli artisti raccontano il proprio rapporto con il passato sui temi della mostra “Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa”, a cura di Simonetta Lux con il supporto di L.H.O.O.K. , Mercati di Traiano, Roma, 14 giugno 2018. Focus: riproporre oggi una riflessione sull’importanza della memoria del passato. Interventi di: Lucrezia Ungaro, Simonetta Lux, Luminița Țăranu, Giuseppe Salvatori, Claudio Damiani, Antonella Greco, Gabriele Pedullà, Marco Lodoli, Felice Levini, Elisabetta Cristallini.
A margine del convegno, ancora qualche riflessione su Giulio Paolini e l’idea di antico nella sua opera. Annoverato tra gli artisti poveri, ma in verità artista concettuale, Paolini ha condotto un’analisi dell’arte come sistema autoreferenziale, prima analizzando gli elementi primi della pittura (telai, tele, segni ecc.) poi inserendo l’immagine, intesa come imago atemporale che giustifica “l’esistenza stessa del quadro”, anche attraverso citazioni, prelievi, calchi. Era il 1967 quando con Giovane che guarda Lorenzo Lotto (fotografia su tela emulsionata) Paolini utilizzava l’immagine di un quadro antico (Ritratto di giovane di Lorenzo Lotto, 1505) per scardinare le categorie tradizionali di spazio e tempo e attraverso un ribaltamento ottico collocarci lì dove alcuni secoli fa era il giovane autore, sollecitando un rapporto intimo, esistenziale. Un’opera che oltrepassa la superficie del quadro/ fotografia (che per suo statuto immortala un istante) per diventare un dispositivo che consente di uscire dal tempo e di annullare le distanze, innescando un cortocircuito ci permette di diventare osservatori/autori di quel quadro e allo stesso tempo di indagare all’interno della storia dell’arte e della sua definizione, con mezzi rigorosamente extrartistici. L’uso della fotografia come strumento che permette di uscire dal tempo, di annullare la distanza offrendo l’illusione di un eterno presente, consente a Paolini di lavorare sulle riproduzioni di altre opere di artisti del passato. La citazione mirata diventa un tema centrale nei lavori successivi: nel 1968 L’Autoritratto esposto da Plinio de Martiis al Teatro delle mostre (Galleria La Tartaruga, Roma), è un collage fotografico con al centro l’autoritratto dell’artista identificatosi in Henri Rousseau le douanier, circondato da critici, artisti contemporanei, amici colti nell’atto eterno di guardare verso di noi, verso l’ambiente espositivo, con uno sguardo che ci oltrepassa, va verso un altrove. L’opera non solo guarda noi che a nostra volta la stiamo osservando, ma guarda verso qualcosa di più lontano, che è alle nostre spalle, qualcosa di indicibile.
La dimensione teatrale è centrale in tutti i lavori di Paolini perché lo spazio interno o circostante è assunto come elemento essenziale della rappresentazione. Così nel 1969 quando approda al teatro con Bruto II (di Vittorio Alfieri, regia di Gualtiero Rizzi, Teatro Stabile Torino), Paolini allontana gli spettatori dagli attori che “sono disposti in simmetria come statue in un tempio”. Mette la storia in cornice e ne fa un quadro per ribadire la distanza tra arte e vita. Di fatto è la messa in scena del termine della soglia, come limite/varco simbolico-esistenziale per accedere all’assoluto. Ciò che rappresenta è altro, chiuso in un luogo distante dal resto come indica anche il bianco accecante. Ancora l’anno seguente in Atene anno zero (di Francesco Della Corte, regia Renzo Giovampietro, Teatro Stabile di Torino), sebbene la narrazione si riferisca all’Atene del V-IV sec. a.C. , Paolini per non descrivere e non indicare il momento e il luogo dell’azione sceglie “altro” per definire il suo spazio scenico: come in Bruto II tutto è rigorosamente bianco e sul palcoscenico sono disseminati solidi geometrici. Qui la grecità non è né dichiarata né descritta (la sfera giunge a Atene anno zero attraverso il suo amato De Chirico: da Canto d’amore, da cui elimina guanto e testa dell’Apollo del Belvedere per mantenere la sfera). Per Paolini infatti la classicità, l’antico non indicano mai un periodo definito e lontano, ma rientrano nella concezione dell’archetipo, dell’assoluto. Classicità e antico non hanno né tempo né luogo, semplicemente sono. “Da sempre prediligo un tempo circolare, sempre più lento fino a sembrare immobile”. La classicità è un mondo senza tempo. Con Early Dynastic del 1971(titolo che rimanda ad un periodo dell’arte dell’antico Egitto) l’opera si fa ambiente/tempio e Paolini giunge ad una visione speculare di arte e architettura, superficie e volume. Le quattro semicolonne sovrapposte (in legno smaltato bianco), l’una il doppio dell’altra, collocate equidistanti sulle diagonali dello spazio, hanno le loro sagome graficamente riflesse sui muri perimetrali e rimandano (come indicano anche la semplificazione del segno e il colore bianco) al neoclassico che per Paolini “ha significato l’assenza di uno stile nuovo, ha riassunto un modo passato, abdicando alla forma nuova”. Il neoclassico è la prima percezione dell’assenza. “Ho scelto la forma classica della colonna in quanto forma elementare dell’architettura, nonché modo più semplice per concretizzare un elemento spaziale … è un’indicazione simbolica di ripetizione infinita”. Ancora un’allusione alla circolarità del tempo propria delle civiltà antiche e dimensione preferita da Paolini.
Nel suo primo testo Idem (1975) alla voce ANTICO l’artista spiega: “Se il classico è la distanza (intesa come differenza di valori), l’antico è la lontananza (l’essere lontano da qualcosa). L’antico, l’archeologico, la rovina, sono una lontananza che non può essere avvicinata. Sono quel tipo di fascinazione che emana da qualcosa di intangibile che appartiene alla nostra memoria. Si cita l’antico, e si allestisce la scena, cercando di darle delle proporzioni, quello che si dice essere la praticabilità dello spazio della rappresentazione, per avvicinare la classicità. L’antico è una citazione, e dunque un elemento ricco di fascino, ma non risolve la scommessa della riuscita… Perché l’antico è un frammento, mentre l’armonia e la classicità sono una dimensione”.
Paolini continua negli anni seguenti a lavorare con e sul frammento, sulla citazione e sullo sdoppiamento, impiegati come espedienti per suggerire un’incolmabile distanza rispetto al modello compiuto e per fare dell’opera un teatro dell’evocazione. Nel ’74 Renato Barilli lo inseriva nella sua mostra La ripetizione differente (Studio Marconi, Milano), titolo tratto da un saggio di Gilles Deleuze (Ripetizione e differenza, 1968) che in sostanza segnava quello che si sarebbe detto il postmoderno. Secondo Barilli si trattava di cogliere un fenomeno naturale e inevitabile: un’inversione di segno, una manovra al rientro che scatta quando lo sguardo è troppo proteso verso il futuro, e dunque si ritorna a guardare al passato e alla storia dell’arte. Era l’operazione magistrale svolta dal grande padre del concettuale, De Chirico, nell’intero corso della sua carriera e che proprio in quegli anni si stava recuperando con alcune grandi esposizioni (Palazzo Reale e Palazzo dei Diamanti, 1970). Barilli, nel catalogo che accompagnava quella mostra, rintracciava uno sguardo retrospettivo anche in alcuni artisti dell’arte povera come appunto Giulio Paolini (oltre che Kounellis e Fabro), Ma nel suo caso l’operazione è altra e data a partire dal decennio precedente, il suo “ritorno a” è un artificio: con un’apparente neutralità e un complesso gioco di rimandi, l’opera di Paolini pone infatti interrogativi che hanno a che fare con l’ontologia, la teoria dell’essere, lo statuto dell’opera d’arte, l’assoluto, la dimensione del tempo e dello spazio.