una società per la distribuzione della
realtà sensibile a domicilio”
Paul Valery
Se si copre una bella persona di gioielli e di bei vestiti e la si mette in una bella casa con dei bei mobili e dei bei quadri, non sarà più bella, sarà sempre la stessa, ma penserà di essere più bella. Se prendi però una persona e le metti addosso degli stracci, diventerà brutta” (Andy Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Costa & Nolan, Genova 1983, p. 59).
La superficialità ha ammantato ogni cosa, l’impostura aspira a divenire verità. Warhol si serve di un pensiero e di una pratica artistica aperta alla divergenza della realtà con le proprie immagini di consumo, di un fare affermativo che accoglie il banale quotidiano nelle sue molteplici forme. “Basta che l’errore riesca a farsi scambiare per verità, perché la mente non possa mai avere la garanzia che la verità che lo dissolve non sia invece un altro errore, come l’ha ingannato il primo errore” (Roger Caillois, L’incertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 83-84).
Con fanciullesca ingenuità Andy Warhol si appropria dei modi della cultura di massa. Il bambino Andy Warhol con infantile stupore si sbalordisce del perché “se voi dite ai grandi: “Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto”, loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: “Ho visto una casa da Centomila Lire”, e allora esclamano: “Com’è bella”” (Antoine De Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 2001, p. 23).
Il giovane pubblicitario di Pittsburgh, divenuto artista nella New York degli anni ’60, prova a chiedersi come risolvere il problema della sostanziale inadattabilità dell’uomo al mondo contemporaneo. Si risponde che l’unica soluzione è quella di spostare la domanda, problematizzandola proprio non chiedendosi alcunché e facendo propria la quotidiana banalità. Si lascia sopraffare dalla passività assoluta del consumatore, contempla fino a perdervisi lo splendore disarticolato dei suoi tempi.
Il suo delirante produrre senza soluzione di continuità è l’altra faccia della sua impassibile catatonia da cittadino-consumatore.
“Credo di avere una concezione molto approssimativa del ‘lavoro’, perché è mia convinzione che vivere sia già di per sé un grosso lavoro, che non sempre si ha voglia di fare” (Andy Warhol, La filosofia di Andy Warhol, op. cit., p. 82).
Nell’attuale realtà lo sguardo è glorificato e ingiuriato, quando si vede tutto non vale più nulla. Tutto è agevolmente fotografabile, filmabile, scansionabile ecc., tutto in sostanza è assimilabile all’assolutamente identico “tempo, del futuro e del passato, della vigilia e dell’indomani, del più e del meno, del troppo e del non abbastanza, dell’attivo e del passivo, della causa e dell’effetto” (Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1997, p. 10).
L’occhio è nelle cose. In un supermarket potremmo sentirci spiati non solo dalle telecamere che scrutano, lì come altrove nella città, ogni nostro passo, ma dall’indiscrezione degli oggetti di consumo che ci affrontano, indisponenti tra gli scaffali, in una sorta di sparatoria da finale di un film western.
La teoria della relatività ci ha insegnato che la materia è fatta di luce, l’attuale modernità che ogni cosa, essendo luce, è proiettata su uno schermo e pagata a peso d’immagine.
Potremmo a questo punto domandarci: quale effetto hanno le immagini su di noi che siamo diventati null’altro che immagine?
Warhol fa proprio un pensiero ed una prassi artistica senza contraddizione, senza dialettica, senza negazione.
Apre la porta alla molteplicità infinita e scialba del mondo attuale, presta attenzione allo spettegolare della merce, fa della sua arte un’arte adatta a quel condominio-mondo che abitiamo con ignara urbanità.
“Il condominio ha acqua corrente fredda e calda, qualche sottaceto Heinz buttato lì, praline alle ciliegie, e quando si accende l’interruttore della coppa di gelato Woolworth con cioccolata caramello e panna, allora so di possedere realmente qualcosa” (Andy Warhol, La filosofia di Andy Warhol, op. cit., p. 113).
Tutto l’ingegno di Warhol è volto a distruggere la chiarezza con la chiarezza, nulla di ciò che ripresenta nelle sue opere è incomprensibile, semmai è affatto insignificante.
Il ribadire al nostro sguardo, tramite le sue opere, le immagini del mondo che quotidianamente ci incalzano non è supportato da discolpe circa l’inutilità di questo gesto.
Paradossalmente l’inconsistenza di tale atto è rivelata dalla stessa precisione con cui è compiuto.
“In questo mondo catacombico l’unica cosa che conti è l’ortografia, la punteggiatura. Non importa quale sia la natura della calamità, importa solo se è scritta giusta. Ogni cosa sta allo stesso livello, sia essa l’ultima moda degli abiti da sera, una nuova corazzata, una pestilenza, un alto esplosivo, una scoperta astronomica, un tracollo in borsa, un disastro ferroviario, un rialzo in borsa, una grossa vincita, una condanna a morte, un’aggressione, un omicidio e così via” (Henry Miller, Tropico del cancro, Mondatori, Milano 1991, p. 158).
Gli oggetti ripresentati sulle sue tele si trovano tutt’a un tratto dotati di vita propria, non debbono legittimarsi dichiarando il loro legame d’affezione con noi.
Quest’immenso panorama inattivo ha inghiottito tutto il resto, noi inclusi. Non senza motivo potremo sentirci alieni, diversi, fuori posto fra le merci placide e splendenti sugli scaffali d’un qualsiasi supermarket. L’attuale congiunzione di quello che la modernità aveva disgiunto, il bello e il funzionale, ci respinge in un arcaismo feticista in posizione di idolatri d’una rappresentazione scissa dal rappresentato.
Warhol è consapevole di questo e non intromette la propria individualità nel sacralizzato percorso dell’immagine, si limita a trarre immagini standardizzate dalle immagini di consumo, non pretende di estrarre l’alterità dove essa è assente.
La deferenza può trasformarsi in adorazione. La catalogazione in un corpus artistico-meccanico del mondo e delle sue immagini è da Warhol portata avanti con l’ossequiente diligenza di chi è convinto che nell’attuale mondo di equivalenze assolute e trionfanti questa sia ineluttabilmente e inesorabilmente l’unica cosa lui concessa.
Tanto una cosa vale l’altra, e l’artista vale alquanto poco.
Warhol si tramuta in pedissequo trascrittore della realtà mediatizzata, registratore di un mondo che annulla ogni polarità.
L’artista Andy Warhol si sente superato dalla illimitata rotazione di immagini intorno a lui come a ogni altro.
La soluzione da lui proposta è quella di uscire da questo centro-prigione dell’eterna circolarità dell’immagine, per ruotare con le immagini a folle velocità, sperando in uno slancio da questo reiterato girare verso un altrove che da qui è complicato persino immaginare.