Se guardiamo con attenzione il panorama della contemporaneità ci si accorge che è relativamente facile assumere una fisionomia riconoscibile attraverso la critica d’arte. Ma questo non vuol dire che questa critica abbia successo. Negli ultimi anni la fisionomia critica è andata sovrapponendosi al sistema curatoriale per cui si sottolinea spesso che il successo della critica avviene nel momento in cui gli artisti di cui questa si occupa arrivano a manifestare il proprio ruolo in maniera incisiva. Una critica che lavori esclusivamente sui significati non ha al momento grandi prospettive apparenti, probabilmente perché in un sistema di libero mercato uno dei pochi parametri di valutazione del suo successo consiste realmente nella constatazione d’esistenza dell’arte di cui discute.

La domanda che ci si deve porre è semmai se possa esistere una critica senza parole, instaurata in un sistema di segni condivisibile ed elaborata attraverso l’azione curatoriale. Bisogna quanto meno discernere sul significato che si fa del ruolo curatoriale. Da una parte la curatorialità d’azione, dall’altra la cura critica. La differenza non è di poco conto. Nel primo caso stiamo definendo un ruolo che può essere facilmente svolto attraverso una serie di azioni preordinate; realizzare un programma, coordinare degli inviti, trovare sponsor e finanziamenti, produrre una documentazione e relativa comunicazione. Si tratta di compiti per lo più tecnici, di una tecnica senza dubbio molto sofisticata, ma relativamente accessibile. Non occorre una consapevolezza storica per realizzare un compito del genere. Si tratta inoltre di un lavoro che può essere svolto con facilità anche da chi viva l’esperienza dell’arte senza stratificazioni concettuali, ma anzi li rifugga come corollario accessorio e superfluo. Non si tratta qui di coordinare una serie di cognizioni tecniche ma di saperle usare per la realizzazione di un prodotto culturale. Nel secondo caso abbiamo invece un’impostazione fortemente intellettualizzata nella consapevolezza di un sistema di segni che è soprattutto un insieme di fatti storici sedimentati nella cultura o che si sedimenteranno nella cultura.

La consapevolezza della storia è ciò che anima la cura critica nel manifesto bisogno di ordinare una serie di dati oggettuali che nel disegno astratto della cura possiedono forti riferimenti critici, di una critica che vede la storia, la frequenta e ne conosce la struttura.

La differenza sostanziale fra queste due attitudini che si manifestano all’interno del sistema dell’arte contemporanea è che nel primo caso non ci saranno appendici critiche, mentre nel secondo caso sì. Siamo quindi alla radice critica dell’ipotesi curatoriale. Da una parte un sistema tecnico, dall’altro un modello teorico. Tuttavia sarebbe errato sostenere che un complicato apparato critico dia maggiore qualità all’operazione curatoriale, ed è spesso vero il contrario, ovvero che la cura si manifesti precedentemente alla critica e che questa si identifichi solamente in un secondo momento. La qualità del discorso curatoriale non è sostanzialmente dipendente dalla qualità della testualità critica.

Chi si interessi di metodologie curatoriali non può fare a meno di notare che attualmente il dibattito critico si è notevolmente spostato verso il sistema della New Media Art. A me ha fatto un certo effetto constatare che mentre nel mondo dell’arte proliferavano, e continuano a farlo, le grandi manifestazioni d’arte, nel dibattito contemporaneo della cura critica si discuteva se queste manifestazioni potessero ancora essere chiamate d’arte, naturalmente una domanda che lascia all’oscuro quanti vi si recano e le frequentano. Una mostra d’arte deve necessariamente significare qualcosa anche con un criterio critico d’analisi, mentre le grandi rassegne sembrano oramai orientate verso la manifestazione di una grandeur istituzionale diplomatica che ha ben poco da spartire con la ricerca. A questo punto ci si può chiedere se il successo della critica si identifichi con la mastodontica ricerca dei grandi numeri e del plauso universale. La risposta a mio giudizio è che no, non sarà certamente in questo sfoggio di muscoli che l’arte dimostra qualcosa e men che mai la critica, sia essa camuffata da cura critica o tecnica, come nel caso dell’azione manageriale da organizzatore di eventi. Per capire sino in fondo cosa oggi può manifestare il successo della critica, in quanto pratica alta di un impegno di conoscenza bisogna ragionare in termini storico-critici.

La misura della storia, in quanto tale non può essere ravvicinata e rapportata con la pochezza della vita umana. Parliamo quindi di storia nel suo manifestarsi ampio, rimanendo comunque nelle relative vicinanze per meglio comprendere. Immaginiamo di voler rappresentare l’arte dell’epoca Romantica e necessariamente rapportandoci con la storia dell’arte di quel tempo troveremmo vari esempi lampanti. Si tratta di opere sedimentate nella storia e di cui nessuno oramai discute il valore. Un David, ad esempio, con la sua spuria rivelazione della storia, un romantico d’elite come Constable, manifestano l’ansia politica e comportamentale di un’epoca. Si tratta di arte ma si tratta soprattutto di storia dell’arte. Nessuno discute sul valore di queste opere perché in termini generici fuori dalla portata della critica, fuori dal sistema dell’umano dissentire.

Se volessimo però riconoscere anche l’arte che pur essendo nata in periodo romantico di questo non possieda che alcuni istinti, lievi tracce storiche, diremmo che sostanzialmente si tratta di opere romantiche realizzate da un genio minore. Il riferimento con la storia in altri termini ci aiuta a comprendere cosa sia l’arte e cosa significhi essere dentro le fogge contemporanee o nel suo relativo dissiparsi. Se dovessimo trovare un attributo per descrivere i nostri tempi credo che difficilmente potremmo parlare di altro della tecnologia. I nostri sono tempi di un fuggevole presente all’interno della tecnologia. Noi non sappiamo se questo sarà un effimero balzo in avanti presto richiuso nelle maglie di una storia del ferro e del fango, ma siamo consapevoli che il presente così come lo viviamo è un presente tecnologico e di una tecnologia che si rinnova in modo molto più veloce della stessa capacità dell’uomo di saperla cogliere.

Le differenze generazionali e sociali si valutano in base al coefficente tecnologico di riferimento e sulla capacità di cogliere il movimento di questo rimandone all’interno. Oggi si diventa vecchi quando si lascia che la tecnologia ci superi, quando non si è più in grado di valutare la sua usufruibilità, quando non siamo più in grado di coglierne l’idea strumentale. Venti anni fa era accettabile scrivere con una macchina meccanica, oggi è paradossale non tanto il suo utilizzo ma lo spreco che questo comporta in termini energetici. L’idea che uno scritto non possa essere duplicato senza nessuno sforzo ci riesce difficile da capire. Tuttavia nessuno mette in dubbio chi sia l’autore, la mente pensante di uno scritto, soltanto le sue capacità di essere tale comprendono anche l’uso che si fa della tecnologia, la sua capacità di spedire e far pubblicare quanto si scrive, non ultimo l’idea che i suoi scritti possa essere copiati e riprodotti senza che se ne dia alcuna informazione. Soltanto in rarissimi casi lo scrittore non è anche il digitalizzatore del testo. Lo stesso accade per il tipo di media che si usa. Da qualche tempo risulta chiaro che pubblicare gli scritti in rete ha un valore maggiore e una migliore diffusione critica che non su supporto cartaceo.

Tutto ciò significa che i nostri tempi tecnologici sono necessariamente anni di arte tecnologica e sarà questa e non altro a manifestare in futuro l’idea del nostro contemporaneo. In termini storici come abbiamo visto ciò significa che l’arte del nostro presente è un’arte tecnologica e che di questa tecnologia nella sua ricaduta qualsiasi opera d’arte ne avrà il segno, anche il più desolante. Si dirà che questo presente se foriero di una ricaduta nell’epoca della materia bruta del ferro avrà ben altre prospettive ma difficilmente potremo riconoscere un’arte che meglio rappresenti il nostro presente attuale senza alcun riferimento all’alta tecnologia, alle installazioni multimediali che facciano uso delle reti, o anche ad opere di catalogazione ed analisi del territorio e delle relazioni che siano sostenute da un alto coefficiente tecnologico.

La critica sa perfettamente che l’altra faccia della tecnologia è la sua effimerata, che nulla o poco di quanto oggi si realizza potrà avere una durata nel tempo, ma allo stesso modo conosce perfettamente la storia recente, l’alba dell’era elettronica. Inert Gas Series di Robert Barry è effimero allo stesso modo eppure come opera risulta percettibile storicamente. La critica di sostegno all’arte contemporanea, o la critica testimoniale che ne risulta attraverso documenti e intervista spesso non coglie queste problematiche perché realmente assente. Ne risulta un campo distorto, in cui il successo di questa critica dell’assenza occupa con il suo pedante incedere antiquato, con la sua mastodontica presenza, il sistema dell’arte istituzionale delle grandi rassegne, accompagna la storia con il suo abito da maggiordomo d’alta rappresentanza.

Ma la critica quando sa e ragiona sulle cose che stanno accadendo vede attraverso la rete, con questa si indicizza, linkandosi, discute sull’arte e sulla sua fruibilità e non ambisce nemmeno di ricadere lì dove la critica ha forgiato la sua assenza. What is art adesso non lo si chiede più attraverso la copertina di una rivista (cfr. Documents n. 1 1990) ma lo si discute nelle list ad alta frequentazione intellettuale. Esserci e condividere o sparire per sempre può diventare presto il gioco crudele di questi anni rumorosamente tecnologici.