L’estate del Grand tour 2007. La gigantografica scenografia dell’arte contemporanea chiude la sua stagione di successi producendo dati. La Biennale, Documenta, Sculptur Project, Art Basel, Praga e Istanbul propagano le statistiche e sciorinano i propri numeri. Una massa di visitatori ha magnificato come mai questo spettacolare esorcismo votato alla cancellazione del nulla su cui è costruito.

Non si tratta di un giudizio sull’opera esposta ma la maledizione della critica che sull’opera può essere fatta. La maggioranza dei giudizi sulle grandi rassegne collima su alcuni punti, ovvero che l’azione curatoriale in simili prospettive ingigantite può anche essere svolta nel modo migliore ma i risultati sono appiattiti da alcune inaudibili verità. Ma è una voce che rintrona nelle orecchie di chi la emette. Ci sono solo sordi in giro e corrono spediti verso l’autodistruzione come gli zombies di Romero.

La prima osservazione riguarda l’aspetto straripante del mercato. In questi mesi, quasi come nei primi anni ’80 ma con maggiore intensità, alcune linee di mercato, in particolare americane e britanniche, hanno dimostrato una vitalità incredibile. Nei giorni dell’inaugurazione di Venezia si parlava con inchinata ammirazione dell’ultimo lavoro di Damien Hirst, valutato e poi venduto già prima d’essere esposto per una somma fuori controllo, fuori da ogni umana percezione. Il plauso di tanti per simili incongruenze non deve farci perdere il lume della ragione. Si trattava di un lavoro, per così dire, prezioso già nel suo materiale, diamanti e altri frammenti di rara brillantezza. La luccicante atmosfera del grand tour ed il suo strascico di leggende ha prodotto la falsa sensazione che esista quindi una domanda concreta per l’opera d’arte, supponendo che esista anche una gran bella differenza fra opera e oggetto comune. L’opera, si sostiene, assume una sua specifica identità nell’immediato della storia espositiva per via della sua valutazione, non viceversa. Siamo talmente avvinti da questo sciocco meccanismo che non riusciamo più a capire da cosa e dove nascano simili machiavelliche argomentazioni. Può risultare comodo consultare un libro edito da Taschen nel 2006 e firmato da Adam Lindemann (Collecting Contemporary) in cui risulta palese attraverso le interviste e le testimonianze raccolte che cosa sia oggi il sistema di collezionismo e di mercato attraverso cui deriviamo le quotazioni, e il conseguente valore dell’arte. In altro modo potremmo dire che un sistema palesemente fittizio, gratuitamente derivato da una decisione di fissazione economica, decide la qualità di un artista, sottraendolo alla fluttuazione della richiesta. La funzione del collezionismo in altri termini non si decide su linee guida fondate sulla storia e sulla critica, ma sul capriccio di un potere d’acquisto su uno specifico oggetto su cui si decide di fissare una data somma di denaro. Piuttosto che rispondere ad un reale libero mercato il sistema dell’arte produce così una sequenza di azioni, che potremmo definire scommesse, nell’azzardo della posta. Il mercante offre la sua mediazione ma è il collezionista che ripone nello specifico oggetto quella somma, e questa, come animata da un’irruenta superfetazione produce critica, storia, mostre e musealizzazione. Non stupisca quindi se nelle tanto blasonate “fiere” i critici, gli artisti ed i curatori siano percepiti come un rumore di disturbo. E non stupisce nemmeno sapere che le opere derivate da un simile sistema assumano un’aura preziosa, per questo sono oggetti d’arte.

Ad un sistema siffatto non manca ovviamente la sua proiezione mondana, ma in questa mondanità, come quella delle grandi rassegne appena trascorse, l’iperbole di una idiosincrasia che è propria del mercato non può che irretire o deprimere. Nel momento della resa mondana l’opera simbolica si para con tutto il suo corollario di aura di potenza in un contesto in cui oggetti similari quest’aura non la posseggono. Tutto ciò produce sgomento, rassegnazione, annichilimento. Cosa ciò generi nel breve giro di pochi decenni è semplicemente raccontato dalla recente mostra aperta presso la rinnovata sede del Palazzo delle Esposizioni di Roma. Qui, in una inaugurazione in stile disneyland, il pubblico in abiti kennedyani ha potuto ammirare l’opera di Rothko, insieme a una mostra su Kubrick e una personale di Ceroli. Ci hanno informati che un lavoro di Rothko “vale” settanta, ottanta milioni di dollari e non si esclude che davvero ci siano persone al mondo disposte a pagare quella cifra per una tela dell’artista americano. La domanda, ed è una domanda che si poneva un artista e non era un artista “sfigato”, è questa: se la valutazione dell’opera di Rothko è tale spiegatemi perché un artista europeo che negli anni Cinquanta ha fatto un lavoro simmetrico a quello di Rothko questi soldi non li valgono? Si tratta di una qualità specifica o c’è dell’altro? Tutto ciò non deve farci dimenticare che realmente molta arte americana dello stesso periodo ha vissuto gli anni europei assorbendone il clima e l’ansia di rinnovamento. Diversamente dai Made in USA gli artisti nostrani non hanno mai venduto un quadro ad una somma pari ad un centesimo del loro amico americano. Ma davvero la differenza di qualità che separa un Rothko da un Klein è così spropositata? Sembra di osservare la mastodontica diversità di remunerazione fra un manager dallo stipendio milionario e il piccolo operaio dislocato in un sud del mondo con la sua paghetta da un dollaro l’ora. La pasta umana ed il potere in gioco sono così differenti? Insomma siamo davvero gli allegri alleati dei nostri oppressori mercanti d’aura e per costoro dobbiamo costruire storie affastellate da critiche soavi per la giustificazione di una simile dissonanza? O piuttosto possiamo concordare nel dire che una cosa è il mercato e chi lo gestisce altra cosa è invece lo studio storico critico sull’arte e sulla sua identità, il suo valore nei confronti di una storia sociale, nell’antropologia del presente. Percepire questo significa sganciarsi dalla frustrazione che annichilisce la critica, poter dire che il re è nudo, difendere ciò che si crede di valore anche nell’assurdità della posizione. Una proposizione attiva possibile.

La storia ci insegna che quando l’arroganza dei Salon si fece brutale gli artisti semplicemente se ne andarono ad esporre nelle loro stanze, crearono un sistema di mercato parallelo e diventarono Impressionisti in barba alle vestigia ottocentesche e passatiste. Adesso anche gli scemi del villaggio globale vanno matti per le rivoluzionarie opere degli impressionisti, ma se avessero frequentato quegli stessi anni dove sarebbero costoro? Non certo negli atelier degli artisti, semmai starebbero ad ammirare le diafane pose di un’accademia decadente e costosa. Per questo mi ha fatto davvero piacere ricevere un libro inconsueto Jacopo Benci. Faraway and luminous (A.A.V.V., The British School at Rome, 2007). Un libro che è in parte una monografia sul lavoro di Benci ma è anche e soprattutto un’opera concepita da un artista che ama la lentezza, e che non disperde le sue energie nell’impazzimento generale per il successo. Jacopo Benci, artista, storico dell’arte, curatore, grande conoscitore delle varie forme espressive, dalla musica al cinema, è uno di quei tipici esempi di geniale propositore misconosciuto dal mercato e dai mercanti d’aura, ma di cui non dobbiamo fare a meno. La sua identità d’artista dalla cultura smisurata è da valutare per via di una volontà alla conoscenza, quel fatuo dubbio che smussa l’arroganza e fomenta la ricerca. Il suo lavoro costruito in un ciclo continuo nel vasto volume monografico dimostra i suoi legami con l’opera di Duchamp coniugando surreale e visuale nel cinetismo del tempo sino ai grandi ritratti in video e i malinconici cammini fotografici realizzati con lo sguardo di un Tarkovsky. Un lavoro che rielabora il reale e la memoria in straordinarie e inusuali fotografie e disegni in Il mondo fluttuante (1985), Sguardo Luminoso, Polvere e ombra (1993 – 2007). Nelle Performances minimali e caravaggesche (1996 – 1999) o negli Itinerari silenziosi (1997 – 2007) svuotati da ogni traccia d’esistenza umana, così come nei video e i film realizzati con una cura artigianale per ogni dettaglio si riconoscono spessore culturale, sapienza tecnica. L’opera di Jacopo Benci racconta un’arte intellettuale e sperimentale di grande valore, cultura distillata e senza cartellino col codice a barre, qualcosa da difendere contro le smanie assolutiste dei venditori d’aura e dei lacché di corte (tra i quali mi annovero per non risultare offensivo).