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Note:

[1] BAUDRILLARD Jean. «La precessione dei simulacri» in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti.  PGRECO Edizioni (Milano 2009) pp. 59-109

[2] Concretists in contrast to illusionists prefer unity of form and content, rather than their separation. They prefer the world of concrete reality rather than the artificial abstraction of illusionism. Thus in plastic arts for istance, a concretist perceives and expresses a rotten tomato whithout changing its reality or form. In the end, the form and expression remain (the) same as the content and perception – the rality of rotten tomato, rather than an illusionistic image or symbol of it. MACIUNAS George. «Neo-Dada in Music, Theater, Poetry, Art» (New york, 1963) pubblicato per la prima volta in J. Becker and W. Vostell: Happenings, Fluxus, Pop Art, Nouveau Réalisme, Hamburg, 1965),

[3] IBIDEM

[4] LYOTARD Jean-François. «Capitalismo Energumeno.» In Gilles Deleuze e Félix Guattari, Macchine desideranti, capitalismo e schizofrenia. Ombre Corte Editore (Verona, 2012) pp.123-157.

[5] DE PALMA Daniela. Storia del Giappone contemporaneo. Bulzoni Editore (Roma, 2003).

[6] TOMII Reiko. «Geijutsu on their minds. Memorable Words on Anti-Art» in Art, Anti-Art, Non-Art: Experimentations in the Public Sphere in Postwar Japan, 1950-1970. Catalogo della mostra al Getty Research Institute (Los Angeles, 2007) pp.35-62

[7] NETTLETON Taro. Hi Red Center’s Shelter Plan (1964): The Uncanny Body in the Imperial Hotel, in Japanese Studies, Volume 34, (2014) Issue 1

[8] HAVENS Thomas R. H. Radicals And Realists in the Japanese Nonverbal Arts: The Avant-garde .

[9] MAROTTI William. Simulacra and subversion in the everyday: Akasegawa Genpei’s 1000-yen copy, critical art, and the State, in Postcolonial Studies, Vol. 4, No. 2 (2001) pp 211–239 

[10] HENDRICKS Jon, TOCHE Jean (a cura di). GAAG The Guerrilla Art Action Group, 1969-1976 A Selection. Printed Matter inc (New York, 1978)

[11] Ibidem

If I could have stopped the war with a painting,

I would have done that;

but I’m not a good painter

JON HENDRICKS

 

Mai come nel ventennio a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 l’arte sfiorò quella che il filosofo francese Jean Baudrillard (1929 – 2007) avrebbe potuto definire come la sua morte paradossale.

A livello internazionale, fu un’epoca di grandi cambiamenti e tensioni politiche, sociali, ed economiche imputabili a varie cause tra cui l’inasprimento delle relazioni tra i paesi NATO e quelli del blocco comunista; i focolai bellici accesi dopo il grande conflitto mondiale, primo fra tutti quello del Vietnam; la riconversione industriale e il boom economico a cui non sempre seguì un’equa distribuzione delle ricchezze.  

Negli ambienti artistici, l’esperienza situazionista, la neo-avanguardia americana d’ispirazione duchampiana e i primi happening di Allan Kaprow aprirono la strada a ricerche e attitudini radicali che sembravano voler portare a compimento la profezia hegeliana sulla morte dell’arte. Il superamento del concetto di ‘rappresentazione’ come fine ultimo della pratica artistica lasciò il posto all’idea che questa dovesse non riflettere ma identificarsi con il reale e i suoi meccanismi producendo, in questo modo, una definitiva rottura dei confini tra arte e vita. Mentre questi margini si consumavano, il processo di smaterializzazione e quindi la scomparsa – parziale o totale – dell’opera, che aveva avuto inizio con le avanguardie storiche nei primi anni del XX secolo, giungeva alla sua completa maturazione. Dietro la spinta del reale, il processo creativo si faceva azione anti-teatrale che irrompeva nel quotidiano con la sua forza provocatrice, dava vita a un totale smantellamento dei codici estetici come dei confini tra medium espressivi e amplificava il disinteresse verso l’opera-oggetto. Le nuove ricerche invitavano l’arte ad affrancarsi definitivamente da preoccupazioni legate alla forma e al metodo di espressione per diventare ‘concreta’. Era il definitivo affermarsi dell’attitudine ‘Anti-Arte’ ipotizzato per la prima volta dai dadaisti all’inizio del XX secolo.

L’urgenza d’irruzione nel quotidiano andava di pari passo con quel fenomeno che, nel suo saggio La precessione dei simulacri, Baudrillard definì l’agonia del reale, ovvero, la progressiva sparizione della realtà dietro le sue molteplici simulazioni.[1]  Seguendo il pensiero del filosofo francese, la condizione paradossale che si produsse in quegli anni, era quindi quella di un’arte che cessava di ‘rappresentare’ per identificarsi con un reale che nella società post-moderna era diventato un iper-reale, ovvero un incubatore di apparenze (simulacri).

La tendenza ‘anti-arte’ vedeva l’arte votarsi all’auto-distruzione in nome della preservazione di quella che veniva ormai ritenuta la sua propria ragion d’essere, non già la produzione di oggetti altri dalla realtà, ma l’esaltazione di quel che era concreto nella sua forma e nella sua essenza.[2]Quest’attitudine può essere compresa con l’esempio del paradosso etnologico descritto ancora da Baudrillard. All’inizio degli anni ’70, il governo filippino, in accordo con gli antropologi, aveva deciso di non coinvolgere la tribù dei Tasaday – rimasta per secoli isolata nel cuore della giungla nell’isola di Mindanao e scoperta proprio in quei giorni – in un processo di civilizzazione che ne avrebbe estinto definitivamente la cultura. Il filosofo francese citò l’esempio come un suicidio paradossale: una scienza che per preservare l’esistenza del suo oggetto decide deliberatamente di rinunciare alla sua ragion d’essere, l’osservazione diretta, e svuotandosi di significato si vota alla morte.[3]

In maniera simile, gli artisti attivi tra gli anni ’60 e ’70 – i presunti ‘assassini’ che agivano da soli oppure organizzati in gruppi, tra i quali il più famoso fu probabilmente Fluxus, ma si possono ricordare Neo Dada americani e  Neo-Dadaism Organizer di Tokyo, gli Aktual di Praga, gli Azionisti viennesi, i croati Gorgona e molti altri sparsi in tutto il pianeta – sembrarono voler inscenare la fine dell’arte per assicurarne la sopravvivenza.

In questo clima radicale, dietro la spinta dei movimenti di protesta che si diffondevano negli ambienti intellettuali di tutto il mondo, ebbero origine quelle pratiche rimaste fino ad alcuni anni fa marginali, ma che oggi, più vive che mai, rientrano nella definizione di ‘arte attivista’ (Art Activism). Un’arte che non è più rappresentazione ma manifestazione, nel significato specifico di palesare un dissenso, o per usare le parole del filosofo francese Jean-François Lyotard, (un’arte che è) fine della rappresentazione, se rappresentare è presentare qualcosa in assenza, ma ancora rappresentazione, se rappresentare è presentare comunque, presentare l’impresentabile, esporre nel senso di fare a qualcuno degli “esposti”, delle rimostranze, “ri-mostrare”. [4]

Tra i collettivi riconducibili a quest’attitudine, due in particolare hanno ritenuto la mia attenzione a causa delle somiglianze tra il loro modus operandi e i loro obiettivi, nonostante la lontananza geografica e il diverso contesto storico-artistico in cui operarono: gli Hi Red Center di Tokyo e i Guerilla Art Action Group di New York. Attivi a distanza di diversi anni, i due collettivi non ebbero né rapporti diretti, né scambi di altro tipo. L’esistenza degli Hi Red Center era nota a Jon Hendricks, uno dei fondatori di GAAG, che intorno al 1966 aveva ricevuto dal fratello, l’artista fluxus Geoffrey Hendricks, una delle banconote da 1,000 yen realizzate da Akasegawa Gempei, promotore del collettivo nipponico. Inoltre Jon Hendricks partecipò all’inizio degli anni ‘70 a un rifacimento di una delle azioni del gruppo di Tokyo, Street Cleaning, che fu realizzata a New York nell’ambito dell’evento FluxusFest promosso da George Maciunas. Tuttavia, poiché la documentazione relativa all’attività degli Hi Red Center non era ancora stata tradotta in inglese, la pratica di questi artisti era praticamente inaccessibile fuori dall’arcipelago asiatico. A dire il vero, fino a qualche anno fa, neppure il lavoro di GAAG era molto noto al di fuori dell’ambito newyorkese, nonostante fosse tutto ben documentato, in lingua inglese. L’approccio radicale, la pratica incentrata su azioni effimere, spesso non annunciate e quasi sempre non-autorizzate, volte a svelare le dinamiche politiche e i giochi di potere che animavano il mondo dell’arte e la società, la loro natura di outsider e soprattutto il loro scagliarsi apertamente contro il sistema e i suoi rappresentati avevano contribuito a renderne difficile un corretto inquadramento e una relativa storicizzazione. Alla luce degli sviluppi delle pratiche attiviste, sempre più diffuse a livello globale, fin dagli anni ’90, è possibile oggi osservare il lavoro di questi due collettivi con uno sguardo nuovo e di comprenderne a pieno tutto il valore pionieristico.

Negli ultimi anni, un rinnovato interesse nei confronti dell’arte giapponese del dopoguerra, ha spinto grandi istituzioni internazionali a promuovere eventi espositivi volti a far luce su questi anni di grande fermento culturale per l’arcipelago nipponico. In particolare, due grandi mostre, Tokyo 1955–1970: A New Avant-Garde al Museo d’Arte Moderna di New York (novembre 2012 –febbraio 2013) e prima ancora Art, Anti-Art, Non-Art: Experimentations in the Public Sphere in Postwar Japan, 1950-1970 (marzo-giugno 2010) al Getty Center di Los Angeles, si sono focalizzate sulle istanze rivoluzionarie che hanno animato la scena artistica giapponese a partire dalla fine del grande conflitto.

Come il decennio che li aveva preceduti, gli anni ’60, furono ancora un periodo di transizione per il Giappone. Nonostante i notevoli passi avanti dell’economia, il malcontento della popolazione e il disagio sociale continuavano ad aumentare. Ad affliggere la popolazione erano essenzialmente problematiche legate ai cambiamenti strutturali e alla riconversione industriale che avevano causato gravi danni ambientali, un esagerato innalzamento dei prezzi e un massiccio spopolamento delle campagne a fronte di uno spropositato sovrappopolamento delle città. Inoltre, a livello internazionale, malgrado l’avvio di una politica di distensione dei rapporti con i paesi danneggiati durante il conflitto mondiale avesse portato a una normalizzazione delle relazioni diplomatiche con le nazioni vicine, l’insofferenza nei confronti della politica estera statunitense, esacerbata dallo scoppio della guerra del Vietnam, cresceva di anno in anno e fu causa di numerose manifestazioni, più o meno violente, da parte di fasce estremiste della popolazione. Nel 1968, dopo gli attacchi da parte di alcuni manifestanti all’Ambasciata Americana, al Palazzo della Dieta e al Ministero della Difesa, gruppi di studenti armati assaltarono la stazione di Shinjuku, costringendo il governo a proclamare la legge marziale. Nel 1969, il focolaio delle proteste si concentrò negli ambienti universitari. Dopo aver occupato i locali della Tokyo Daigaku, gli studenti non esitarono a scendere in piazza per manifestare contro l’allora capo di gabinetto Satō Eisaku e l’ennesimo rinnovo del trattato di sicurezza nippo-americano, da lui appena concluso, che in sostanza continuava ad autorizzare una presenza militare statunitense nell’arcipelago asiatico.[5]

L’urgenza di rivolta si rispecchiava pienamente nella scena artistica di quegli anni. Grazie al miglioramento delle comunicazioni e alla ritrovata mobilità degli artisti, le tendenze e i movimenti internazionali riuscivano più facilmente ad arrivare in Giappone che, in quegli anni, iniziò a sviluppare linguaggi specifici caratterizzati dalla radicalità delle espressione e delle pratiche artistiche. Il critico Yoshiaki Tōno (1930–2005) coniò la definizione Post Hiroshima Generation per definire i membri del collettivo Neo Dadaism Organizer, creato nel 1960 da Ushio Shinohara (Tokyo, 1932) ricordato per le sue performance provocatorie e per il marcato rifiuto di una ricerca di consenso sociale. La definizione di Tōno si riferiva a tutta una generazione di artisti che aveva vissuto la propria infanzia tra le macerie dei bombardamenti americani. La distruzione, il senso di dissolvimento della materia e poi l’improvviso affondare di un intero sistema di valori che avevano animato le generazioni precedenti contribuirono a segnare profondamente gli anni di formazione di questi artisti, influenzando inevitabilmente le loro scelte espressive future.

Gli Hi Red Center, gruppo fondato nel 1963 da Gempei Akasegawa (Yokohama, 1937) insieme a Jirō Takamatsu (Tokyo, 1936-1998) e Natsuyuki Nakanishi (Tokyo, 1935), erano figli di questo clima acceso e radicale. Il nome del collettivo fu creato traducendo in inglese e mettendo insieme gli ideogrammi iniziali del cognome dei tre componenti: ‘Hi’ (abbreviazione di high) ovvero alto (in giapponese ‘taka’高, per Takamatsu高松) ; ‘Red’, rosso (in giapponese ‘aka’赤 per Akasegawa 赤瀬川) ; ‘Center’, centro (in giapponese ‘naka’ 中per Nakanishi中西). Nel suo breve periodo di vita – il gruppo fu sciolto l’anno seguente – gli Hi Red Center diedero vita a diversi happening il cui obiettivo, come avrebbe detto Baudrillard, sembrava quello di smascherare la finzione del reale. La maggior parte di queste azioni, che potevano svolgersi all’interno di luoghi espositivi, come la galleria Naika di Tokyo che li ospitò in diverse occasioni, o per le strade della città, generalmente non erano annunciate e non si rivolgevano a un pubblico di addetti ai lavori del mondo dell’arte, anzi molto spesso non si indirizzavano proprio a nessuno, sovvertendo in questo modo il rapporto performer-spettatore. La storica dell’arte Reiko Tomī parla di un’evoluzione rispetto all’Anti-Art (in giapponese Han Geijutsu – 反芸術) verso una non-arte (Hi Geijutsu – 非芸術) e in effetti le loro azioni possono essere considerate come un insieme di ironici attentati alla nozione stessa di arte.[6]

Durante la 15esima edizione della Yomiuri Indipendent, una manifestazione artistica finanziata dall’omonimo quotidiano giapponese che dal 1949 al 1964 diede spazio alle neo-avanguardie e alle ricerche più sperimentali, Takamatsu portò una corda che attraversava tutta la sala espositiva prolungandosi attraverso il giardino esterno fino alla stazione di Ueno. Nakanishi iniziò ad attaccarsi addosso delle mollette fino a ricoprirsi interamente la faccia, poi invitò i presenti a fare lo stesso e a metterle anche su tele bruciate e indumenti intimi appesi alle pareti o ammassati in terra. Infine Akasegawa rivestì una sedia, un phon per capelli, una radio e un tappeto con riproduzioni di biglietti da 1000 yen. Pochissimo tempo dopo i tre artisti si costituivano un collettivo.

La pratica artistica degli Hi Red Center si avvicinava molto a quella di Fluxus, e in effetti, non mancarono gli scambi e le collaborazioni tra i membri dei due gruppi, favorite soprattutto dagli artisti nipponici che transitarono più o meno stabilmente in America, come Shigeko Kubota, Ay-O, Mieko Shiomi, Yoko Ono, Kuniyoshi Akiyama (etc). Nel 1964, Shigeko Kubota presentò a George Maciunas Bundle of Events, una brochure da lei editata per gli Hi Red Center che riportava una mappa in cui erano evidenziate tutte le azioni da loro realizzate capillarmente nella città di Tokyo, affinché fosse inserita all’interno della raccolta Fluxus I. Ma già l’anno precedente, Yoko Ono e Nam Jun Paik avevano partecipato all’happening Shelter Plan all’Imperial Hotel a Hibiya, in cui tutti presenti erano stati invitati a stare in piedi di fronte un muro bianco, per essere misurati e fotografati da ambo i lati, frontalmente e di spalle.[7]

Le loro azioni sembravano ricordare anche quelle dei membri di Gutai, ma l’obiettivo degli Hi Red Center era completamente diverso. Il collettivo che faceva riferimento ad Akasegawa non si interessava al medium 

pittorico, né in senso più ampio alla creazione di opere concrete e materiali che potessero essere vendute ed entrare a far parte di quelle dinamiche economiche oggetto della loro critica. Il loro intento era piuttosto quello di mettere in crisi il sistema dell’arte – ma anche quello sociale – dall’interno, attraverso interventi che ne evidenziavano l’inutilità e la stupidità. In uno dei loro primissimi happening invitarono un gran numero di persone a un banchetto a Kunitachi, un quartiere periferico di Tokyo, per commemorare la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, ma quando il pubblico dopo aver pagato un biglietto entrò nella sala scoprì di essere stato preso in giro perché gli unici a poter mangiare erano gli artisti. Gli spettatori stupiti, offesi e irritati, si ritrovarono quindi a guardare Takamatsu, Akasegawa e Nakanishi, mentre si abbuffavano, bevevano, danzavano e infine si lavavano i denti senza poter partecipare realmente alla festa.[8] La condizione dello spettatore era in qualche modo simile a quella sperimentata dalla popolazione giapponese che aveva creduto nelle promesse del governo imperialista e si era fatta trascinare in una guerra durata per anni di cui aveva vissuto solo gli orrori senza beneficiare di alcun vantaggio materiale. In Cleaning Event (Campaign to Promote Cleaness and order in the Metropolitan Area) tenutosi a Tokyo il 16 ottobre del 1964, mentre in città si svolgevano per la prima volta le Olimpiadi gli Hi Red Center, vestiti con camice da dottore e mascherine bianche, s’impegnarono nella ripulitura di marciapiedi e strade nel quartiere di Ginza, inondando le vie di cartelli e volantini con scritto ‘Be clean’, sii pulito, prendendosi chiaramente gioco di quella lunga campagna di sensibilizzazione che il governo aveva avviato diversi mesi prima in preparazione del grande evento. L’happening non fu annunciato e gli artisti che si sforzarono per far in modo che la loro azione sembrasse ufficiale, ricevettero anche i ringraziamenti di un poliziotto di pattuglia, convinto della serietà della loro operazione.

Uno dei risvolti più interessanti delle azioni degli Hi Red Center fu il processo al suo fondatore. Nel 1964, Akasegawa stampò una serie di banconote da 1,000 yen in scala 1/1 – già scelte l’anno precedente come biglietto di invito per la mostra On Ambivalent Sea alla Shinjuku Daiichi Gallery– che utilizzò per ricoprire tele, pannelli e oggetti di varia natura. Le riproduzioni erano estremamente fedeli agli originali per amplificare l’effetto di fusione tra finzione e realtà, come spiegò in un testo pubblicato nella rivista dei Criminal League, un gruppo di studenti della Waseda University, già noti alle autorità per le loro idee radicali. A causa di questo intervento Akasegawa si ritrovò implicato in un processo per frode e contraffazione che si concluse solo nel 1974. Nel corso di quegli anni si costituì un comitato di sostegno alla causa dell’artista 1,000 Yen Note Incident Discussion Group i cui membri – critici, storici dell’arte, artisti – si occuparono di argomentare la difesa di Akasegawa e presero la vicenda come spunto per sviluppare una serie di riflessioni e dibattiti che ruotarono intorno a questioni quali il rapporto tra realtà e finzione, tra arte e vita, tra meccanismi di potere e libertà di espressione. La documentazione del processo e le testimonianze furono utilizzate come parte di un lungo progetto performativo.[9] L’epilogo della vicenda è ancora più assurdo del suo inizio. Perseguito dal governo perché, secondo la legge giapponese, solo gli stati sovrani sono autorizzati a emettere moneta, l’artista si auto-proclamò una nazione autonoma costituita da un’unica persona fisica, lui stesso: Repubblica Capitalista Akasegawa Gempei. Soltanto allora la Corte Suprema lo assolse. Gli Hi Red Center rimasero ufficialmente attivi soltanto un anno, dal 1963 al 1964. La loro attività si concluse in concomitanza con l’inizio del processo ad Akasegawa, che pure fu una diretta conseguenza della ricerca artistica portata avanti dal gruppo.

I guai con la giustizia e l’abitudine a ricorrere ad azioni al limite della legalità è uno dei punti di raccordo tra gli Hi Red Center e i membri del collettivo newyorkese Guerilla Art Action Group. Fondato a New York nel 1969 da Jon Hendricks (Evanston, USA, 1939) e Jean Toche (Bruge, Belgio, 1932), in un clima di crescente ostilità nei confronti della presidenza Nixon e della sua politica estera, il gruppo rimase attivo fino al 1976. Come suggerisce il nome stesso, la pratica di questo duo – a cui si aggiungevano occasionalmente anche Poppy Johnson, Joanne Stamerra, Virginia Toche – si basava su una serie di azioni, spesso non annunciate e comunque mai ufficialmente autorizzate, che si svolgevano in strada, in uffici pubblici o all’interno di istituzioni museali. Come gli Hi Red Center anche Hendricks e Toche miravano ad attaccare il sistema dell’arte e la società contemporanea, contestandone i funzionamenti distorti con un’attitudine non priva di umorismo ma ancora più radicale rispetto al collettivo nipponico, dimostrando una propensione a giocare con il paradosso ed evidenziando l’ironica tragicità di quelle stesse realtà che denunciavano. Gli interventi di GAAG erano dei veri e propri dispositivi di disturbo delle dinamiche e delle convenzioni sociali, ma attraverso quell’attitudine all’incursione nel quotidiano, a volte violenta, che sovvertiva continuamente i confini tra intento creativo e politico, possono essere letti anche come meccanismi di svelamento delle finzioni del reale.

Nel loro manifesto, compilato il 30 ottobre 1969, Hendricks e Toche  inoltravano tre richieste al Museum of Modern Art di New York. La prima era che si procedesse alla vendita di opere della sua collezione per un totale di 1 milione di dollari e che il ricavato fosse devoluto ai poveri di ogni etnia all’interno del paese. «Noi artisti pensiamo che in questo tempo di crisi non ci possa essere utilizzo migliore per l’arte che quello di risolvere di un’urgenza sociale». In sostanza, GAAG chiedeva al museo un gesto simbolico forte che dimostrasse la volontà di voler avvicinare davvero l’arte alle persone. «La donazione è una forma di compensazione nei confronti dei più svantaggiati, perché l’arte ha da sempre servito le élite contribuendo all’oppressione dei più deboli», si leggeva nel manifesto. E ancora: «Noi crediamo che l’arte sia un impegno morale per lo sviluppo della civiltà umana e una negazione della repressione sociale».[10]

La seconda richiesta avanzata da GAAG riguardava la struttura del museo e domandava un’abolizione della gerarchizzazione dei ruoli, in favore di un libero accesso alla gestione dello stesso da parte di chiunque, affinché le istituzioni non fossero più strumenti in mano alle élite, ma manifestazioni del volere popolare. Infine, nell’ultimo punto Hendricks e Toche chiedevano che il museo restasse chiuso in segno di protesta finché la guerra del Vietnam non fosse finita.[11]

L’indomani della stesura del manifesto, GAAG si preparava al suo primo happening, che si svolse al MOMA, in presenza di numerosi membri della comunità artistica newyorkese. Hendricks e Toche, dopo aver regolarmente pagato il loro ingresso, si recarono alla galleria espositiva del terzo piano e approfittando della distrazione di un sorvegliante staccarono dal muro il lavoro Bianco su fondo bianco di Kasimir Malevich, lo poggiarono a terra e appesero al suo posto una copia del manifesto di GAAG, chiedendo di essere ricevuti da un rappresentante del museo. Wilder Green, direttore delle esposizioni, rispose all’appello, accettò di incontrare gli artisti e di presentare la loro lista di richieste al consiglio d’amministrazione del museo. Alcuni giorni dopo, il duo tornò di nuovo al MOMA per eseguire un altro intervento, A call for the immediate resignation of all the Rockefellers from the board of trustees of the Museum of Modem Art, conosciuto anche come The Bloodbath (il Bagno di sangue). Hendricks e Toche insieme a Poppy Johnson e Silvianna entrarono nella hall del museo e iniziarono a strattonarsi, spingersi, strappare via quello che avevano addosso gridando; poi mentre una folla di curiosi si radunava intorno a loro e il personale di sicurezza restava indeciso sul da farsi, fecero scoppiare sacche di sangue che avevano portato nascoste sotto i loro vestiti, infine si accasciarono nella pozza che aveva inondato il pavimento. Questa volta, la loro richiesta coinvolgeva direttamente una delle famiglie più ricche del paese, i Rockfeller, tra i principali sostenitori del museo, i cui interessi economici nell’industria della guerra erano, secondo GAAG, incompatibili con la missione dell’istituzione. Hendricks e Toche accusavano il MOMA di distruggere l’integrità dell’arte mettendola a servizio di gente che l’utilizzava come un mezzo per glorificare se stessa.

Nei mesi successivi gli interventi di GAAG coinvolsero altre grandi istituzioni. Nella hall del Whitney Museum – accusato di mancanza di solidarietà nei confronti delle migliaia di vittime della politica bellica americana all’altro capo del mondo – dopo aver sparso in terra cumuli di polveri rosse, gli artisti cominciarono a gridare allo scandalo per la sporcizia dei locali. «Dobbiamo ripulire questo luogo sporcato dalla guerra. È un macello» reclamavano a gran voce inginocchiati a terra per ripulire i pigmenti rossi. Al Metropolitan, in occasione della mostra New York Painting and Sculpture: 1940-1970, la prima rassegna di arte contemporanea presentata nel grande museo newyorchese, il duo organizzò un’azione indirizzata al curatore Henry Geldzahler (1935-1994) che era volta a denunciare la riduzione dell’artista a semplice burattino in balia dell’establishment e l’asservimento del museo alle grandi imprese, riferendosi in particolare alla donazione di 150.000 dollari fatta dalla Xeros Corporation per sostenere l’evento. In maniera caricaturale, Jon Hendricks, nei panni del curatore, tesseva a gran voci le lodi del grande artista Jean Toche, il quale rannicchiato all’interno di un baule, mangiava e beveva, dal latte alle tartine al caviale, tutto quello di cui veniva rimpinzato e che inevitabilmente andava a finirgli addosso. La richiesta di incontrare Geldzahler fu rifiutata e la performance si concluse senza un intervento da parte delle forze di polizia. Agli happening, GAAG affiancò interventi radiofonici e una serie di manifesti, poesie e lettere indirizzate a diversi personaggi tra cui il presidente Nixon e il curatore della quinta edizione di Documenta, Harald Szeemann. La loro attività continuò fedele a se stessa per anni, così come nell’intento iniziale del duo, rifiutando di corrispondere a una connotazione stilistica personale e a particolari criteri estetici, ma puntando solo a un’ideale aderenza con il reale. Il libro che documenta il loro lavoro fin dagli esordi, GAAG The Guerrilla Art Action Group, 1969-1976 A Selection si chiude con un brevissimo comunicato, firmato da Hendricks e Toche, che annunciava: Guerrilla Art Action Group è morto. Non si sospetta attività illecita, ha dichiarato ieri la polizia, un’attestazione di cessata attività le cui parole, lapidarie ed essenziali, fanno pensare piuttosto a un certificato di morte o all’epitaffio di un’epoca. Era il 13 dicembre del 1976.

 

 

Dall’alto:

HI RED CENTER. “Bundle of Events”. Mappa che documenta le performances del gruppo a Tokyo. Edita da Shigeko Kubota e George Maciunas, 1965 (Fluxus Edition, New York). Credits Getty Research Institute, Los Angeles

HI RED CENTER. “Bundle of Events”. Mappa che documenta le performances del gruppo a Tokyo. Edita da Shigeko Kubota e George Maciunas, 1965 (Fluxus Edition, New York). Credits Getty Research Institute, Los Angeles

GAAG “The Bloodbath” performance al Moma di New York. Photo credits Hui Kwa Kwong

GAAG “The Bloodbath” performance al Moma di New York. Photo credits Hui Kwa Kwong

GAAG “The Bloodbath” performance al Moma di New York. Photo credits Hui Kwa Kwong