La mostra di Mauro Folci presso la Fondazione Baruchello si presenta in duplice veste, quella canonica delle sale ben allestite in cui sono esposti lavori fotografici – still da video tratti da programmazioni RAI – e una parte esterna, sicuramente molto pregna di interessi e di spunti. Le sale della fondazione immerse nella quiete della campagna alle porte di Roma sottolineano la falsità di ogni traduzione del messaggio riconducibile al sistema delle attuali tecnologie d’informazione. I volti degli operai di Melfi qui ritratti sono volti trasformati da una luce e da una patina “pubblicitaria” che nella realtà esistenziale essi non conoscono; alla FIAT di Melfi ed alla sua filosofia industriale del “Just in time” è dedicata infatti la mostra che è parte di un ciclo di lavoro a cui Folci lavora di tempo, incentrato sulle relazioni fra forza lavoro e società post-industriale. Questa prima parte, la sua luce fioca densa di colori che sembrano sottratti ad una tavolozza dai colori acrilici di ultimo grido segna col suo tepore la zona della “fiction”, o come direbbe l’artista, ciò che il sistema industriale vorrebbe che noi pensassimo della vita di questi giovani. Immersi nel “Just in time”, che è un modello produttivo denso di segni e segnaletiche in cui i corpi degli operai vengono usati come parti flessibili e usufruibili nella rigidità del processo produttivo, questi giovani appaiono come nebulose icone del bello e del fascinoso. Ed è proprio defluendo dalla sala espositiva che ci si imbatte nel primo elemento di disturbo, ovvero un monitor, collegato ad un sistema a circuito chiuso come quelli usati dal controllo in svariati ambienti di lavoro, e che trasmette un’immagine fissa. Si tratta di una immagine catturata all’interno di una fossa geometrica – di m. 2 x 3 x 3 – scavata sul retro del giardino della fondazione, in un ampio spiazzo verde e leggermente in declivio. In questa fossa – che è un’opera che ci ricorda azioni di Land Art, ma anche la fossa Pop scavata da Oldenburg – Folci ha situato un incontro-dibattito fra diversi oratori – Commisso, Fiocco, Fiorani, Negri, Virno e Subrizi, curatrice della mostra – sul tema della produzione e dell’apparato industriale nella nostra società. La particolarità dell’incontro risiedeva nel pubblico affacciato ad ascoltare le voci degli oratori a due metri di profondità, seduti su instabili sgabelli e nell’atto di sbirciare verso il cielo gli sguardi degli astanti. “Fossa comune dei nostri ideali” ha esclamato qualcuno, luogo dell’assurdo e capovolgimento dei valori standardizzati nei dibattiti ove chi parla guarda “altezzosamente” e non viceversa, l’azione ha comunque trovato una sua carica di inquietante energia, ricostruendo dal vero la condizione di estraneità e di alienazione. Il “ring” sotterraneo di Folci, in altro modo, sottolinea la mancanza di un discorso consapevole dalla nostra condizione presente e spinge al parossismo le distonie fra benessere presunto e disagio evidente nella condizione del salariato nel mondo industrializzato.
Mauro Folci, fossa geometrica scavata nel terreno m. 2x3x3