“Je franchis le mur de la lisibilité pour que l’on voie l’écriture. Parce-que lorsque nous lisons un texte nous ne voyons pas très bien l’écriture: nous déchiffrons des signes, et nous cherchons les références. Tandis que quand le texte est illisible, quand l’écriture est illisible, nous la voyons comme forme.”[1] 

L’attività artistica di Christian Dotremont ha articolato molte delle suggestioni vissute prima e durante il Cobra per concretizzarsi in quella che è stata giudicata a posteriori la sua creazione più originale: il logogramme. 
Il tragitto che dalle peintures-mots conduce verso questa nuova tipologia di lavori si delinea in dodici anni: dall’autunno del 1948 al 1962, anno che testimonia il debutto e l’avvio della sperimentazione “logogrammatica”.
Ma apriamo una parentesi. Non volendoci avvalere di percorsi di storicizzazione che procedano per etichettature nella contestualizzazione di un fenomeno artistico, ci limitiamo qui ad adottare una linea sintetica ed estremamente flessibile. Se, infatti, sotto una certa angolazione, le azioni di Christian Dotremont, dal Cobra sino ai logogrammes, verrebbero storicamente a confluire, ma non del tutto ad identificarsi, in tutta quella serie di fenomeni artistici riuniti sotto l’egida della poliedrica tendenza denominata “Informale”, essi non rinnegano, e avremo modo di analizzarlo separatamente, una decisa assonanza con la poetica lettrista. 
Ma veniamo al punto: cosa è dunque un logogramme? 
Oltre a tradurne il significato alla lettera, come disegno di parole, parte di questa spiegazione la lasciamo ad un aneddoto curioso: durante le nostre ricerche in Belgio siamo entrati in contatto con l’ex artista cobra Joseph Noiret [2], riuscendo a riconoscerne l’abitazione – indistinta tra le tante villette della periferia di Waterloo – grazie ad un enorme logogramme di Dotremont visibile attraverso la facciata in vetro della casa. Noiret ha tenuto a sottolineare che ci trovavamo di fronte ad un texte – racconto o poesia – non ad un quadro. La distinzione non ci è apparsa fuori luogo. Di testi, in effetti, si tratta. 
Torniamo però al 1962, anno in cui Oltremonte, nel suo villaggio d’origine Dotremont, traccerà i primi logogrammes a penna su carta da lettere, e poi a Silkeborg, in Danimarca, dove esperirà la medesima operazione con la densità dei pastelli ad olio colorati. Tracciati a inchiostro di china su carta nel 1963, stagliati sulle pagine di un quotidiano in pastello nero tra il 1964 e il 1965, o tracciati sui bordi di una valigia (i valisogrammes) nel 1965, il mondo dei logogrammes resta comunque per Christian Dotremont il territorio di una costante sperimentazione linguistica. 
Molti esemplari verranno a confluire nella serie di pubblicazioni da lui stesso curate negli anni; appariranno così  Logogrammes I, nel 1964; Logogrammes II nel 1965; Le oui et le non, le peut-ètre. Ja og Nej, maske, nel 1968; Logbook, nel 1974, e, nel 1979, pochi mesi prima della sua scomparsa, il Logbookletter [3]. 
In una di queste raccolte, precisamente nel Logbook del 1974, il nostro autore si sforza di delimitare i confini di questa operazione, offrendoci la definizione che andavamo cercando: 

“I logogrammes sono manoscritti di primo getto: il testo non prestabilito è tracciato con un’estrema spontaneità; le lettere si agglomerano, si distendono, senza preoccupazione delle proporzioni, delle regolarità ordinarie, e dunque senza preoccupazione di leggibilità; in seguito a questa operazione, il testo viene scritto nuovamente sotto il logogramme, in piccole lettere leggibili, calligrafiche (questa seconda scrittura è rimpiazzata in questo Logbook dalla tipografia). Si tratta di far entrare in un gioco il più possibile reciproco, molto più che nella creatività della scrittura abituale, l’immaginazione poetica, prosaica, verbale, e l’immaginazione grafica, materiale. L’autore non può certo sempre evitare di “pensare”, prima di iniziare il tracciato, a qualche parola che gli “sembra” abbastanza interessante da tracciarla effettivamente senza “cambiamento”, ma egli non “prevede” mai il grafismo, ed è durante il tracciato, o immediatamente dopo il tracciato di alcune di queste parole, grazie ad un rapido impulso verbale e grafico a un tempo, che egli decide di non aggiungere, o di aggiungere, una o più parole; un po’ più tardi, egli decide, attraverso una valutazione, anch’essa grafica e verbale a un tempo, delle sorti del logogramme (l’ottanta per cento finisce nella spazzatura, testo in ogni caso incluso)” [4].

Volendo però investigare la complessa genesi di queste composizioni dobbiamo tornare, come incipit, esattamente al 1950. In quell’anno appare sulla rivista “Cobra” un articolo di Christian Dotremont che porta il titolo Signification et sinification [5]. 
L’io narrante del nostro autore racconta di aver perduto, a causa di uno strano “incidente tecnico”, un foglio del suo manoscritto Le Train Mongol. Imprevisto al quale ne era subentrato un altro, ben più significativo: 

“Sfogliando il mio primo manoscritto, ho preso il foglio nel quale la frase (perduta n.d.a.) era ancora nascosta, la giro dal recto al verso e poi da sinistra verso destra, quindi mi accingo a leggere “la mia frase” verticalmente, in trasparenza. Mi accorgo allora, dal momento che l’avevo tracciata orizzontalmente, che avevo “scritto”, senza saperlo, una frase piuttosto misteriosa, nella quale dominavano caratteri cinesi, o forse mongoli, o anche arabi” [6]. 

Questa vicenda narrata deve necessariamente esser interpretata come la prima, inconsapevole, esperienza di “logogrammazione” del nostro autore. Un accadimento che, seppur involontario, non stupisce più di tanto; Dotremont, che era sempre stato attratto dalle possibilità creative della scrittura, si cimentava in numerosi esperimenti volti a scoprirne le potenzialità. La creatività non era inoltre rivolta al solo significato del linguaggio, ma andava ad investire anche il versante più materiale che esso possiede: la grafia. 
Dotremont insisterà costantemente su questo punto. Nel saggio Linguistique réelle [7] del 1977, la sua veemenza si andrà a scontrare anche contro i dettami della linguistica, scienza rimproverata “di non essersi mai interessata all’attività della scrittura, a quello che quest’attività possiede di fisico” ; per lui “scrivere è la più potente attività creatrice che esista” [9]. 
Non a caso, sulle pagine del suddetto testo, trovano spazio alcune immagini di grafie comuni (conti di salumieri, prove di penne a stilo, e la forma della lettera L nella firma di Baudelaire), portate ad esempio. Il vago termine “linguistica”, utilizzato da Dotremont, potrebbe essere per semplificazione ricondotto alle teorie di quello che era stato il padre dell’indagine strutturalista, Ferdinand de Saussure. 
De Saussure aveva formalizzato il suo sistema del linguaggio come un rapporto dialettico tra la langue – un sistema oggettivo, determinato, di regole non suscettibili di cambiamento – e la parole – la funzione soggettiva e mutevole della parola. 
La langue, un codice universale socialmente accettato, sussume in sè il percorso individuale della parole che, sorgendo all’interno di essa, non può né sottrarvisi, né trascurare il valore universale delle sue regole. Come su una scacchiera, il gioco sottostà e consta della relazione tra carattere universale delle regole linguistiche e libertà individuale di “muovere” (come una pedina) la parola soggettiva [10]. In questa nostra ipotesi, Dotremont contesterebbe a de Saussure, e alla linguistica per estensione, la modalità con cui egli aveva interpretato la nozione di “parola” come “segno”. Per il semiologo infatti il “segno-parola” congiunge in sè i due aspetti, del “concetto” come significato, e della “immagine acustica” come significante. 
Potremmo allora affermare che Dotremont diversamente, tramite la scrittura “logogrammata”, sostituisca, o perlomeno ambiguamente aggiunga, alla desaussuriana “immagine acustica” del significante, l’immagine visiva e concreta della grafia. 
é infatti proprio questo, il carattere dicotomico, double-face del linguaggio, che rappresenta per il nostro autore la maggior fonte d’ispirazione:

“Succede altrettanto nei fenomeni piuttosto numerosi di funzione delle forme materiali (alias grafiche n.d.a.) del “significante” come “significato” – oltre al “significato” verbale – per la persona che scrive, che continua a scrivere, che continua a scrivere leggendo a volte quello che le viene da scrivere, e/o a quelli che senza aver scritto leggeranno quella scrittura – “letture” che allora sono, a prima vista o unicamente, delle “visioni” [11]. 

Una frase di J. P. Gavard-Perret individua inesorabilmente i cardini della questione: “L’ossessione del rapporto testo-immagine resta la chiave di un’opera che troverà nei logogrammes la sua risposta definitiva” [12], o, aggiungiamo noi, l’evidenza della domanda, l’ossessione svelata. 
La caratteristica precipua del logogramme è difatti la necessità di racchiudere nello spazio e nel tempo unico della creazione i due attributi – leggibilità e visibilità – che qualificano la scrittura: 

“Si trattava quindi di un doppio senso! Io mi sono trovato aldilà della mia stessa scrittura. Mi rendo conto allora che, “leggendo” con lo stesso metodo tutto il manoscritto o quasi, ed in seguito anche altri miei manoscritti, io avevo sempre scritto cinese “. [13] 

I logogrammes non appartengono però al mondo delle grafie orientali. Anche se Dotremont narra a più riprese di aver trovato, in un rifugio ad Heverlee, un Assimil cinese che conteneva qualche calligrafia [14], e nonostante nel 1944 avesse contratto un matrimonio con una ragazza euro-asiatica [15], i logogrammes non sono calligrafie cinesi. Sarebbe facile infatti relazionare in maniera “diretta” la suggestione della grafia cinese con le operazioni “logogrammatiche”. La suddetta analisi, se pur sotto un certo profilo potrebbe rivelare lati interessanti, non giustificherebbe d’altronde la poetica di Dotremont, il quale oltretutto non conosceva, se non per approssimazione, questo linguaggio. 
La Weltanshauung di Christian Dotremont rimane, è quasi superfluo sottolinearlo, quella di un artista decisamente occidentale. L’interesse per le scritture orientali, ma anche per l’alfabeto turco o egiziano, pongono il nostro autore nella esatta condizione dell’analfabeta; di colui che, attratto da forme che non può comprendere né decifrare, è consapevole che significhino qualcosa. 
Il riferimento alla grafia cinese, – un linguaggio incomprensibile, ma visibile – è quindi “indiretto”. Esso va interpretato come pura e semplice fascinazione, volta a conclamare, nei logogrammes, la compresenza del significato convenzionale della scrittura francese – basato sull’intelligibilità del testo – e della sua significazione come elemento concretamente materico e visivo: 

“Perchè il mio sguardo a volte si ferma su testi egiziani o cinesi che io, giustamente non “comprendo”? Perchè li comprendo; quando “leggo” infatti una pagina di scrittura cinese, io mi trovo nelle strade di Pechino; li comprendo come comprendo una pagina di scritture di Mirò, come una parola di Arp, una frase di Hartung, un’ardesia di Ubac.” [16]. 

Anche Pierre Alechinsky (al quale, peraltro, può esser ascritto un percorso artistico più direttamente relazionabile con le scritture orientali ), chiarisce d’altro canto la posizione di Dotremont: 

“Le prime parole tracciate del Train Mongol, che messe in verticale grondano dall’alto al basso, osservate in trasparenza all’inverso del foglio, ci offrono la stessa gustosa illegibilità della scrittura cinese o giapponese. Meraviglia che mi farà prendere il battello quattro anni più tardi per filmare le calligrafie giapponesi. Ma per lui (Dotremont n.d.a.) la pagina bianca sarà il Grande Nord; lui si difenderà dall’essere (tacciato n.d.a.) di orientalismo […] Dotremont è altrove. Scrivere, tracciare. “Nevica inchiostro nero sulla pagina bianca” [19]. 

Se si deve individuare nel suo percorso una fascinazione che riguardi un altrove, bisognerà chiamare direttamente in causa la Lapponia, non l’Oriente; oppure trasporli in una maniera visionaria, come fa Dotremont nel suo unico romanzo: 

“Avevo trent’anni. Entravo nel sanatorio (di Silkeborg n.d.a.) sempre così bianco [E] Andavo ad accoccolarmi in quel paesaggio, in quella catastrofe. Avevo avuto l’impressione di attraversare un paesaggio giapponese. L’inverno era già lì in quella provincia e aveva trasformato gli alberi in segni; la foresta era un libro, un poema, letteralmente.” [20]

Dotremont ricondurrà in una sorta di trasposizione, l’importanza evocativamente poetica del panorama desertificato – l’immenso bianco della Lapponia, sua patria di adozione – al foglio bianco dei logogrammes, e le rare presenze (alberi, case e uomini) dello stesso luogo geografico, ai segni illeggibili che si stagliano in nero. 
Un’altra tappa importante verso i logogrammes avviene nel 1953: sono le écritures lumineuses. Dotremont si fa fotografare mentre “scrive” agitando una lampada nella notte. L’otturatore della macchina fotografica, rimasto più lungamente aperto a causa dell’oscurità, cattura e rende visibile il tracciato della luce originato dalla lampada in movimento. Il risultato è una sorta di continuum luminoso: una scrittura indecifrabile e decisamente visibile. 
Dotremont sonda con la sua ricerca l’infinita serie di possibilità che il linguaggio possiede, arrivando alla conclusione che esse sono sostanzialmente due: uno è il significato “acquisito” della parola che, ripetutamente messo in scacco dalla instabile pratica di de-significazione e ri-significazione, dà adito alla flessibilità della lingua o, come Dotremont ci insegna, alla “poligamia del linguaggio” [21]; il secondo è il “significante” visivo, carnale, della grafia, che va ricercato molto spesso a detrimento della significazione stessa; un aldilà della scrittura, un tragitto verticale, laddove essa, per convenzione, viene tracciata orizzontalmente. Questa eterna dicotomia spingerà Dotremont ad ampliare gli orizzonti della significazione. Il medesimo passaggio, affrontato in linea teorica nei testi scritti durante il periodo di adesione al surrealismo, si era concretizzato tramite l’espediente delle peintures-mots. In esse giocava infatti la possibilità – all’interno di una significazione comprensibile e quindi convenzionale del linguaggio – di mostrare il lato materiale che ogni scrittura possiede. Nell’atto unico della pittura, forme dipinte e forme scritte condividevano lo stesso piano, e lo stesso valore. 
Ma i logogrammes portano un plus-valore, sconvolgono questa unità, aggiungendo un ulteriore sconfinamento, o meglio, portano alla luce l’evidenza di quello iato in seno alla scrittura che Dotremont, attraverso la paradossale operazione dei logogrammes, tenta costantemente di risaldare.
Ciò che balza allo sguardo di ogni spettatore di fronte ad un logogramme è che in esso convergono due linguaggi; eppure essi sono la stessa lingua, lo stesso codice, percepito, e percepibile, secondo due diverse prospettive: una lecture peinte, come ci conferma la didascalia-titolo di un logogramme dalla datazione incerta. 
Sul foglio bianco si staglia in nero – altra dicotomia – l’immagine distorta, informe, di una scrittura reinventata, che si sottrae alle leggi della bella grafia imparata sui banchi a scuola, e della “composizione”, per apparire nuda e senza una forma definita, pre-definita. 
L’immagine potrebbe allora essere accostata, come spesso è stato fatto [22], ad alcuni similari lavori del surrealista belga Henry Michaux; “tragitti pittografati, senza regola”, laddove il pittogramme – differentemente dal logogramme – “è esteriore al linguaggio articolato: suggerisce un cammino del pensiero che non traduce alcun suono” [23] e, aggiungiamo noi, nessuna parola. 
Ai piedi della scrittura “logogrammata” invece – che, seppure deformata e illeggibile, è un testo – appare una legenda, scritta per la maggior parte delle volte a mano, altre in caratteri tipografici, che ne interpreta il significato traducendola. Se Dotremont avesse voluto parlarci solo di illeggibilità e quindi di visibilità, si sarebbe fermato. Il logogramme avrebbe avuto il suo senso anche così. Eppure questa legenda ci dice altro; essa sta lì a ricordarci che la scrittura si avvale di due significati, disgiunti ed uniti dalla superficie del quadro, e ad indicarci che quei segni incomprensibili, significano. Possono essere letti. E guardati. 
Un’unità che si dà in nome di una divisione. E viceversa. 

 

Note:

[1]”Io infrango il muro della leggibilità affinché si veda la scrittura. Quando leggiamo un testo, noi non vediamo bene la scrittura: decifriamo dei segni e cerchiamo dei riferimenti. Noi vediamo delle forme sia dinnanzi ad un testo illeggibile, sia di fronte ad una scrittura altrettanto illeggibile”. Christian Dotremont in Grand Hotel de Valises, Locataire: Dotremont. Les entretiens de Tervuren, poèmes, manuscrits, photographies réunis et présentés par Jean Clarence Lambert. Avec Alechinsky, Appel, Pol Bury, Corneille, Constant, Doucet, Edouard Jaguer, Jorn, Joseph Noiret, Ubac, dans un dotremontage de Pierre Faucheux, Galilée, Paris, 1981, p. 132.
[2] Joseph Noiret, oltre ad essere stato un intimo amico di Christian Dotremont, fu uno dei sei fondatori del Cobra. L’intervista è stata da noi effettuata il 24 febbraio 2002 a Waterloo, presso l’abitazione dell’artista.
[3] Christian Dotremont: Logogrammes I. Editions de la revue Strates, Tervuren, 1964; Logogrammes II. Editions de la revue Strates, Tervuren, 1965; Le oui et le non, le peut-ètre. Ja og Nej, maske. Testo di Uffe Harder, seguito da logogrammi, Glostrup, 1968; Logbook. Yves Rivière, Turin, 1974; Logbookletter. Editions de la revue Strates, Tervuren, 1979.
[4] “Les logogrammes sont des manuscrits de premier jet: le texte, non préétabli, est tracè avec une extréme spontanéité, sans souci des prorportions, de la régularité ordinaires, les lettres s’agglomérant, se distendant, et donc sans souci de lisibilité; mais le texte est, après coup, retracé, sous le logogramme, en très petites lettres lisibles, calligraphiques (cette deuxième écriture est remplacée dans ce Logbook par de la typographie). Il s’agit de faire jouer aussi réciproquement que possible, bien davantage que dans l’écriture créatrice habituelle, l’immagination poètique, prosa•que, verbale, et l’imagination graphique, matérielle. 
L’auteur ne peut certes pas toujours éviter de “penser”, avant le commencement du traçage quelques mots qui lui ” semblent ” assez intéressants pour qu’il les trace effectivement, sans “changement”, mais il ne “prévoit” jamais le graphisme, et c’est pendant le traçage ou immèdiatement après le traçage de ces quelques mots, c’est dans une rapide instigation verbale et graphique à la fois, qu’il dècide de ne pas leur en ajouter ou de leur en ajouter un autre, quelques autres; un peu plus tard, il dècide par une considération elle aussi verbale et graphique à la fois du sort du logogramme (quatre-vingt pour cent vont à la poubelle, texte en tout cas inclus)”. Christian Dotremont, Logbook. Yves Rivière, Turin, 1974, p. 4. 
[5] Christian Dotremont, Signification et sinification, in “Cobra” n. 7, pp. 19 – 20.
[6] “Fouillant dans mon premier manuscrit , je pris la feuille oà la phrase ètait encore couchèe, je la retournai du recto au verso et puis de gauche à droite, et je lus ainsi” ma phrase “verticalement, par trasparence. Je m’aperçus alors que sans le savoir, puisque je l’avais tracèe horizontalement, j’avais “ècrit” une phrase fort mystèrieuse, où dominaien”.                                                                                                                                                                                                                                     [7] Christian Dotremont, Linguistique rèelle, Editions, 1977.
[8] “On sait que les linguistes ils ne s’intèressent pas à l’activitè d’ècrire, et mème à l’activitè de lire, a de phisique Ils nous semble qu’ils ont tort”. Ibidem, p.6 . 
[9] “L’ècrire est la plus forte activitè crèatrice plastique qui existe”, (corsivo nostro). Ibidem.
[10] Cfr. Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro), Laterza, Bari, 1989.
[11] “Il’y va tout autant des phénomènes assez nombreux de fonction des formes matérielles du “signifiant” en tant que “signifié” – autre que le “signifié” verbal – pour la personne qui écrit, qui continue d’écrire, qui continue d’écrire en lisant quelquefois ce qu’elle vient d’écrire et/ou pour toute personne qui sans l’avoir écrite lira cette écriture, – “lectures” qui sont d’abord ou mème sont uniquement des vues. Christian Dotremont, Linguistique Réelle, op. cit., p. 6.
[12] “Car l’obsession du rapport texte-image reste le clè d’une oeuvre qui trouvera dans les logogrammes la réponse à la fois finale et aboutie”. Cfr. Jean Paul Gavard-Perret, Christian Dotremont: La subversion des traces, in “Le Moule à Gaufres”, “Peinture Ecriture”, 4, 1992, pp. 152 – 155.
[13] “Il s’agissait bien, maintenant de double sens! Mais je me trouvais au delà de ma propre écriture [É] Je m’aperçus d’ailleur en ” lisant ” avec la mème méthode tout mon manuscrit ou presque, puis d’autres de mes manuscrits, que j’écrivais toujours chinois”. Christian Dotremont, Signification et sinification, op. cit.
[14] Cfr. Christian Dotremont in Traces. (Prèface de Joseph Noiret). Editions Jacques Antoine, coll. Passé Présent, Bruxelles, 1980, p. 15.
[15] La ragazza, Ai-li-Mian, che aveva diciassette anni all’epoca del matrimonio fu abbandonata qualche anno dopo.
[16]”Pourquoi mon regard parfois s’arrète t’il à loisir sur des textes égyptiens ou chinois, que je ne “comprend” pas? Je les comprendes, en fait; lorsque je “lis ” une page d’écriture chinoise je suis dans les rues de Pékin; je le comprends comme je comprends une page d’écriture de Miro, une mot de Arp, une phrase d’Hartung, une ardoise d’ Ubac”. Christian Dotremont, Signification et signification, op. cit.
[17] Pierre Alechinsky aveva aderito al Cobra nel 1949 ed aveva stretto un’intensa amicizia con Christian Dotremont.
[18] Pierre Alechinsky aveva compiuto numerosi viaggi in Giappone per filmare la grafia giapponese (la pagina bianca) e aveva intrattenuto rapporti con artisti orientali, tra cui Shinkichi Tajiri e Walasse Ting. In virtù di questi accadimenti la sua opera può essere direttamente connessa con l’Oriente. Gillo Dorfles, analizzando il rapporto che intercorre tra Zen e calligrammi occidentali, inserisce a pieno titolo, tra gli artisti analizzati, Pierre Alechinsky nel testo Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’Informale al Postmoderno, (prima ed. 1961); Feltrinelli, Milano, (ed. riveduta e corretta) 1998. 
[19]”Les premiers mots tracès du Train Mongol mis à la verticale, ruisselant de haut en bas et observés par transparence au revers de la feuille, offrent pour nous la mème savoreuse  illisibilité que l’écriture chinoise ou japonaise”. Pierre Alechinsky, Roue libre. Les sentiers de la création, Skyra, Genève, 1971, pp. 141.
[20] “J’avais trente ans. J’entrais dans le sanatorium toujours aussi blanc [É]. J’allais m’accroupir dans ce paysage, cette catastrophe. J’avais eu l’impression de traverser un paysage japonais. L’hiver ètait déjà là dans cette province et avait transformé les arbres en signes; la foràt était un livre, un poème, à la lettre”. Christian Dotremont, La pierre et l’oreiller, Roman. Gallimard. Paris, 1955, p. 134.
[21] Cfr. Christian Dotremont, Présentation du mot, in “Le Ciel bleu”, n.2, 1945.

[22] I lavori di Michaux e Dotremont sono spesso stati posti in relazione; i pittogrammes di Michaux però non hanno una diretta relazione con il linguaggio, ma spostano la loro attenzione verso la pura significazione del segno. In questa sede abbiamo preferito dare spazio ad altre suggestioni non approfondendo la relazione tra le scelte formali dei due artisti, pur riconoscendone la “parentela”. Cfr. Coups de crayons, taches d’encres. Christian Dotremont, Pierre Lahaut, André Lambotte, Henry Michaux, M. M. C. Octave. Catalogue de l’exposition présentée par le Centre Wallonie-Bruxelles ˆ Paris du 19.3. au 2.6. 1996, Paris, 1996.
[23] “Le pictogramme, on le sait, est extérieur au langage articulé: il suggére un cheminement de la pensée, il ne traduit aucun son”. Henry Michaux in Coups de crayons, taches d’encres. Christian Dotremont, Pierre Lahaut, André Lambotte, Henry Michaux, op. cit. p. 5.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto:

Christian Dotremont, uno dei primi esemplari di logogramme, testo incerto, 1962, inchiostro su carta, 17 x 21 cm

Christian Dotremont e Asger Jorn, Ici la chevelure des choses coiffée avec un doigt deau, peinture-mot, 1948, olio su cartone incollato su tela, 17, 5 x 21, 5 cm. Collezione P. e M. Alechinsky

Christian Dotremont e Asger Jorn, Je lève, tu lèves, nous rèvons, peinture-mot, 1948, olio su tela, 38 x 33 cm. Collezione P. e M. Alechinsky

Christian Dotremont, écriture lumineuse, testo incerto, 1953, fotografia in b/n

Christian Dotremont, C’est monotone?, logogramme da Logbookletter, 1979, inchiostro di china su carta