Ancora una volta, come avvenuto nella mia relazione con la Biennale Architettura l’anno scorso, mi sono trovata davanti all’irrisolto contrasto tra ciò che sappiamo – noi che siamo amici degli artisti e dei poeti – dell’arte e ciò che avviene dell’arte quando si espone al mondo, quando si consegna nel luogo deputato.

In effetti questa è una delle questioni messe in opera dalla Bice Curiger, curatrice del Padiglione Internazionale, colei alla quale spetta il messaggio principale dell’arte, nelle diverse interviste pubblicate: nel “Il Giornale dell’arte”, in “Undo-net”, che è il miglior tabloid on line che possiamo trovare, e in special modo “Alfabeta” di Nanni Balestrini – il poeta e lo storico – che con il supplemento speciale al n.10 “Alfa biennale” ospita tra le altre l’intervista più chiara a Bice.

Una intervista che mi piace citare da Alfabiennale, curata da Manuela Gandini.

Il primo passaggio dell’intenzione di Bice Curiger è stato quello di “svelare” ciò che l’arte è, cioè il fatto che l’arte che noi oggi chiamiamo tale è non più da considerarsi come “oggetto” fruibile chiuso in sé, ma un processo del quale si fissa in modi e media ormai infiniti possibili, e nel fissarsi – l’opera – si fa “strumento – come dice la Curiger- strumento intellettuale con possibilità di percezioni intuitive”.

Questo svelamento – e ciò alla Biennale non avviene – richiederebbe tuttavia in primo luogo una relazione con l’artista, in secondo luogo un racconto del processo e l’attivazione di uno nuovo, in questo senso il cosiddetto pubblico diverrebbe attore dell’arte. Questo è tentato se ci si pensa, nel padiglione spagnolo con l’opera di Dora Garcia L’INADEGUATO, una extendend performance, con interventi di numerosi artisti ed intellettuali programmati durante tutto il tempo della Biennale.

Ma lo fanno meglio molti artisti che io ho chiamato Ipercontemporanei e che non sono qui in questa Biennale: Sukran Moral, René Francisco, Thomas Ochoa, Jusuf Hadzifezjovic, César Meneghetti, artisti che mi piacerebbe vedere nella prossima. O Rosa Barba, che espone al MART, per la cura di Chiara Parisi e Andrea Villani.

Il secondo passaggio è il misurarsi della Curatrice internazionale con l’idea di Nazione, che si darebbe esaurita nel mondo globalizzato in preda delle 500 multinazionali che sradicano le identità politiche in nome di una economia tutta finanziaria e anti industriale, una economia che domina il soggetto, lo schiavizza e lo usa, ne cancella le identità.

L’incontrollabilità del processo di selezione nazionale – infatti a ciascuna nazione è lasciata la libertà di criterio di selezione del proprio commissario – e la indiscriminabilità del fatto se una nazione sceglie in nome dell’autopromozione politica oppure in nome di una lucida selezione dell’arte stessa, la Curiger ha tentato di contrastarlo, almeno con un atto simbolico, coniando l’idea del PARAPADIGLIONE. Il parapadiglione, che vuole dire attribuire ad alcuni artisti uno spazio nel quale egli inglobi parte di mondo o parte di scena dell’arte invitando altri artisti o autori o “mostrando” tracce di mondo vissute: direi intelligente sublimazione di un atto critico per ora impronunciabile rispetto al funzionamento della Biennale stessa.

Gli artisti dei Parapadiglioni sono stati Song Dong (Cina) che ha ricostruito la casa secolare dei suoi genitori in Cina ospitandovi opere di Yto Barrada e Ryan Gender, Monica Sosnowska (Polonia, 1972), Haroon Mirza (Gran Bretagna, 1977), Oskar Tuazon (USA, 1975), Franz West (Austria, 1947), che ha ricostruito la sua cucina con tutte le opere di artisti suoi amici che egli tiene lì.

Il parapadiglione ha un suo precedente nella famosa partecipazione di Cesare Pietroiusti alla Quadriennale Romana del 1996, nel quale come opera scelse di invitare tutti gli artisti non invitati o semplicemente l’Escluso. Ma soprattutto diciamo che c’è un mondo dell’arte che ha portato avanti e realizzato – non solo “simbolicamente” – tale idea di portare un po’ di mondo di autobiografia nel “luogo deputato” oltre che nell’arte stessa, anche effettivamente modificando mondo e se stessi e l’altro. Diciamo che la Curiger è andata soft nella sua proposta puntualizzatrice di nodi, che purtuttavia fa emergere. Questa delicatezza della problematizzazione ha in effetti poi dato l’idea di un tono minore delle proposte di questa Biennale 54 di Venezia.

Ma, se pensavo che questo valesse solo per la difficoltà di “esporre” l’architettura – anche qui nella Biennale di arti visive sembra sempre che l’arte sia ALTROVE. Non si fa che metaforizzare la possibilità di percepire e conoscere l’arte, da parte di un grande esteso pubblico (oltre quello ristretto di chi frequenta da vicino e vive l’arte e gli artisti) è tutta lì davanti a noi la difficoltà di mostrare e di partecipare agli altri – a un presunto pubblico che non esiste in effetti, rispetto al ristretto autoreferenziale “sistema finanziario dell’arte”- l’arte stessa, la sua complessità e rispetto al modo di essere dell’artista fuori dal mondo, ma – come dice Boris Groys curatore del padiglione Russo in questa Biennale – anche del modo peculiare dell’artista di trasformare in linguaggio quella “materia prima” che è il mondo stesso, dandoci il senso di quelle Percezioni Intuitive di cui Bice Curiger parla.

È accennata la possibilità di tale percezione intuitiva dei problemi della vita, che sono ciò che interessa all’artista – come dava a vedere Kurt Schwitters, come diceva il grande artista italiano Giulio Turcato negli anni Cinquanta: “A noi non interessa l’arte, a noi interessa la vita”. La rinnovata dichiarazione di questa posizione, la trasformazione di un pensiero o di una percezione scelta di fatti della vita in “opera” (una “attitude” propose Harald Szeemann, nel famoso modo di esporre l’arte, estraendola dalle etichette che fu la mostra di Berna del 1969 When attitudes become form), insomma una “messa in scena della verità” nella frammentarietà in cui la realtà si presenta al soggetto artista -e non- , è ciò che sembra scorrere nelle vene o nel desiderio da tempo inaudito di questa 54° Biennale.

Lo fa la Garcia (Padiglione Spagnolo) con INAUDITO (presentata nella periodica di Scultura di Munster nel 2007), la argentina Amalia Pica, con la sua opera Venn Diagram nel Padiglione Internazionale Illuminations, lo fa Hirshorn (Padiglione Svizzero); lo fa Rosa Jijon (nel Padiglione dell’IILA) anche se la complessità del suo lavoro qui non si “vede”; lo fa nel Padiglione di Danimarca Katerina Gregos, curatrice della mostra Speech Matters sul tema della libertà di parola con invito a 18 artisti di dieci paesi diversi… e pochi altri.

Ma ciò sta avvenendo in molti artisti, qui nel mondo, e in artisti che proprio in questi giorni espongono e operano fuori della Biennale. Come Cèsar Meneghetti, che con il suo progetto Io è/ un Altro, non enuncia solo, ma realizza la possibilità di processi di inclusione e di relazione degli “esclusi”, attraverso l’arte (vedi più oltre, in questo Speciale). O come Rosa Barba, che alla Fondazione Galleria Civica di Trento, per la cura di Chiara Parisi ed Andrea Villani, insieme a Gabriella Belli, espone “Stage Archive”, trasformazione in scultura e installazioni di un pensiero e di una immaginazione dell’Archivio e della affermazione apparentemente smembrata ed assurda del fatto che sulla memoria si fonda la azione progettuale e culturale del Museo: museo che una volta tanto non è dato – come oggi prevalentemente è – come ricettacolo di legittimazione di proposte provenenti dagli attori del Sistema autoreferenziale dell’arte (il Collezionista, il Gallerista, l’investitore finanziario, il giornalista specializzato).

Insomma, anche se Illuminations non illumina, inscrive un’idea dell’arte largamente in atto nel passato e in un altrove, accennando alla fine della metafora e della sublimazione di ciò che veramente interessa al soggetto uomo artista ed a noi.

 

Dall’alto:

Dora Garcìa, The Inadequate, 2011, Performance, Courtesy l’artista (Padiglione della Spagna)

Franz West, Extroversion, 2000-2011. Parapavilion-Installazione consistente in 37 parti. Courtesy Gagosian Gallery. Particolare. Tutti gli elementi vedi in Catalogo, pag. 575.

Amalia Pica, Venn diagrams (under the spot light), 2011, Courtesy Galerie Diana Stigter

Rosa Barba, Stage Archive, 2011, Fondazione Musei Civici di Trento, still da video courtesy “Undo Net”.