Chiunque lavori nell’ambito dell’arte contemporanea ha lungamente dibattuto su tematiche quali la tecnica, la riproducibilità, l’unicità. L’opera d’arte contemporanea ha caratteristiche tali, si afferma, che la sua riproducibilità sottrae dimensione teorica al concetto di irreperibilità; da qui nascono le successive divagazioni in ordine alla riduzione concettuale del concetto d’arte e le analisi che ne sono succedute confermano sostanzialmente l’identità ideale del concetto originario di ogni operazione artistica. Possiamo in questo modo parlare di concettualizzazione dell’opera e riportare le stesse congetture, anche se arbitrariamente, ad ogni segmento tecnico dell’operazione artistica. Quante volte abbiamo letto di pittura concettuale, anche se in riferimento di quadri significativamente iconici? Il senso di queste letture sull’origine dell’opera d’arte rischia tuttavia di apparire superata, almeno nell’applicazione delle teoriche ad un contesto quale quello contemporaneo attuale, dove alla riproducibilità dell’opera è andata a sovrapporsi la sua irriproducibilità tecnica. Non stiamo parlando naturalmente di riproduzione in copia di un singolo lavoro attraverso la nascita di cloni eternamente uguali e indifferentemente segnati da una identità formale. Parliamo invece della riproduzione della sua immagine e della sua cosalità attraverso fotogrammi e riproduzioni mediante cui deliberare il discorso critico e la sua attuazione storica. Un argomento che risulta essere fondamentale se pensiamo che tutta l’informazione si basa su procedure di riproduzione. Il problema non è di semplice comprensibilità se non si attraversa dal vivo il contesto dell’arte contemporanea. Dalla smaterializzazione di Lyotard, ovvero l’estrema purificazione del discorso attivo dell’origine concettuale di un’opera, si è passati all’epoca della riproducibilità digitale che ha scompaginato, per la sua facilità riproduttiva, l’idea stessa di proprietà concettuale dell’opera.

A questo punto è bene rilevare che esiste nel contesto del contemporaneo un buon livello di professionalità ma che questa è relegata a giri di potere e di esercizio commerciale chiuso ai più. Il problema della riproducibilità e della necessaria responsabilità dell’autore nei confronti dell’illecito esercizio delle “sua” forma estetica di rilievo ha in questi casi una precisa ragione d’essere. Questa ragione confluisce direttamente con l’esercizio della storia e della critica storica ragionata in funzione dell’interpretazione “suprematista” della forma. In altri termini è naturale conseguenza di un sistema fortemente caratterizzato da risorse finanziarie ed investimenti cospicui che la forma elettivamente data come “suprema” in un determinato momento storico venga difesa da un suo uso sostanzialmente divergente dagli scopi dell’investimento. Qualcuno potrebbe scandalizzarsi nel sentir parlare di arte allo stesso modo in cui si discute di investimenti finanziari ma la realtà attuale è che realmente si “gioca” con l’oggetto d’arte come su un’azione fortemente rilevante nel sistema economico sociale. L’opera non è soltanto la sua discussione teorica, ammesso che abbia ancora un suo significato a priori, ma è sostanzialmente ciò che vale; questo suo valore determina la sua posizione nella storia. L’opera è realmente ciò che dice d’essere economicamente al di là del suo sistema di certificazione storico-critica. Per fare questo chi investe e lavora sulla forma deve tutelare la sua idea d’azione storico critica da qualsiasi intervento che non sia affine agli scopi prefissati da quella forma e dal suo stesso sistema. Si capisce allora che la riproducibilità dell’immagine dell’opera non è soltanto una risorsa divulgativa ma è anche un temibile strumento di alterazione del suo significato nell’ambito dell’impostazione storico critica che se ne è data come inalterabile. Se un potente museo d’arte ha investito due milioni di euro per una particolare installazione vuol dire soprattutto che quella particolare forma non può essere interpretata criticamente e storicamente attraverso un’analisi non controllata dalla fonte d’erogazione, esercizio non soltanto dell’autore ma anche e soprattutto da chi ne ha comperato la funzione simbolica. Immaginate quindi una storia dell’arte che disciplinatamente distrugga con padronanza di stile e di dati il lavoro “simbolo” di un determinato periodo storico recente; quali risultati potrebbero scaturire da una simile proposta? Naturalmente sarebbe un grave danno economico per qualcuno ma poiché sul diritto d’opinione confidiamo ancora (per quanto?) in un sufficiente spazio di manovra, difficilmente si potrà oscurare una visione del genere attraverso la censura. Sul diritto di riproduzione dell’immagine, invece, possiamo fare anche di più. Possiamo censurare all’origine qualsiasi riproduzione non concessa e non controllata dall’autore o dai relativi proprietari dei diritti. In qualche modo chi ne ha i mezzi può oscurare la storia dell’arte attraverso il controllo delle immagini. Chi potrebbe scrivere una storia dell’arte contemporanea senza l’ausilio delle immagini? Recandoci in una qualsiasi libreria, oramai luoghi ridotti a vendite di gadget coloratissimi ma non di libri, potremo cercare a lungo qualcosa che assomigli ad una storia recente dell’arte; troveremo allora enormi mallopponi, quasi sempre di origine americana o anglo americana, con sfavillanti foto che ci narrano di una storia concepita apparentemente con estrema oggettività, ma confezionata ad uso e scopo degli stessi mercati americani e anglo americani. Sono ottimi prodotti, ne sono conferma il metodo d’indagine ma soprattutto la qualità e la lucentezza delle immagini. Chi controlla quelle immagini ha il controllo della storia. Risulta consequenziale che chi detiene il controllo di quelle immagini non ha alcun interesse ad una loro intromissione in un contesto diverso da quanto realizzato. D’altra parte i diritti d’immagine di alcuni artisti lì riprodotti equivalgono al costo di stampa di una tiratura media del settore arte. Spesso questo genere di testi “colti” non superano la tiratura di mille copie, e di queste molte non riescono a vendere che poche centinaia di esemplari. Chi potrebbe pagare per la riproduzione di un singolo lavoro una somma superiore al costo di una normale tiratura se non esiste nemmeno la certezza di venderne mille copie?

Un’altra e più patetica conseguenza di questo stato di fatto deriva dalla ricaduta a cascata di questa relativamente nuova e complessa problematica che agita il territorio dell’arte contemporanea. E che, ovvero, anche gli artisti meno difendibili o oscuramente mediocri, applichino il medesimo principio, di fatto autoflagellandosi, cancellandosi definitivamente da un possibile posto nell’angolino della storia. Una conseguenza patetica che dimostra a mio avviso non soltanto la complessità del nostro tempo presente ma anche la necessità di un ripensamento sulla norme del copyright. O altrimenti potremmo ritrovarci tra poco con artisti che si “suicidano” nel nome del proprio diritto di copyright, per immagini che nessuno si sogna di copiare e che nessuno vorrebbe mai riprodurre; di proprietari di diritti d’immagini superflue e stantie che rincorrono il sogno d’emergere attraverso azioni di stampo legale per l’uso improprio di riproduzioni di cui credono d’essere proprietari. Ma la realtà è sempre più cruda e brutale di ogni possibile immaginazione. E allora è forse bene che si chiarisca che il diritto d’immagine vale per quelle immagini che sono usurpate e che manifestano un ritorno d’interesse da parte dell’usurpatore. Poiché non esiste in nessun angolo del creato qualcuno che possa pagare diritti per una immagine che non produce nulla, così nessuno potrà mai pagare e far pagare per la riproduzione di opere che non valgono nulla e che anzi avrebbero solo da guadagnare, in termini esclusivamente divulgativi, da una solidale e complice riproduzione d’immagine.

A me non è mai piaciuto Gino De Dominicis. Non mi piaceva il suo modo d’apparire e la sua incapacità d’ironia sulla vita. Era un tipo che però aveva visto bene in tema della riproducibilità, ed è stato il Kubrick dell’arte contemporanea. Aveva capito che sul gioco della riproduzione stampa delle sue opere poteva costruire il suo profilo storico, trattenendo ove lo voleva la sua opera e rilasciandola dove necessario. La sua strategia è stata preveggente di ciò che sarebbero stati dopo due decenni i veri professionisti, ovvero quei creativi (spesso parodia di ciò che erano gli artisti) che attraverso l’uso della riproduzione delle opere, in modo oculato e squallido (dipende dai punti di vista, naturalmente), hanno saputo costruirsi un’identità storica. Adesso nessuno che lavori nell’arte contemporanea può fare diversamente. Tutelare la propria immagine è un obbligo per chi abbia già o stia costruendo il “capitale culturale” attraverso l’opera simbolica. Nell’empireo del contemporaneo anche i giovani artisti vivono di modelli estetici “irriproducibili” e immediatamente incamerati all’interno del sistema dell’arte che ne tutela ogni proiezione storica. Questo modulo è quantomeno funzionale anche se a mio avviso antistorico. Tuttavia questo atteggiamento, oramai scimmiottato da molti e non sempre in modo intelligente, fa sì che di fatto si costruisca il gioco dei giganti imposto dai mercanti. Con quale scopo? E con quali fraintendimenti. Per chi lavori nell’ambito curatoriale non sarà più un paradosso ritrovarsi alla prese con artisti che dopo aver partecipato alle proprie mostre (e qui per proprie intendo dire esattamente alle proprie, di essi medesimi) chiedano i compensi per il diritto d’immagine nel catalogo, sognando un mondo in cui l’apparizione di un oggetto possa dal nulla far nascere profitti e senza alcun legame col mercato. Questo paradosso, che farà ridacchiare i più consapevoli, non è lontano dal verificarsi. Tutto questo mentre il solido mercato costruito da anni di ricerche strategiche e da concrete storie con paragrafi d’immagini e connessi marcia al suono dei tamburi di guerra verso la conquista dello scenario del futuro. Ma sarà davvero così il futuro? O possiamo prefigurare un’improvvisa consapevolezza della futilità del diritto d’immagine sino al punto da costruire una storia dell’arte contemporanea priva di ogni fotogramma reale? In fondo non sarebbe altro che la fotocopia al negativo di tante storie dell’arte nate dalle stampe multinazionali e prive di qualsiasi discorso storico e critico. Basterebbe riunire insieme i due modelli per avere la conferma di ciò che è l’opera d’arte nel tempo presente della sua irriproducibilità tecnica.

Da sopra:
Paola Yacoub & Michel Lasserre, O.V., video wall da connessione web ads alta frequenza, MLAC 2004.

Urs Breitenstein, Untitled, giornali, 2004.

Ernesto Leal, Nueva patria donde reposar, installazione video, Havana Biennial 2006.