La Biennale internazionale d’Arte Contemporanea dell’Avana, quest’anno alla sua ottava edizione, è stata fondata nel 1984 con il proposito di contribuire alla ricerca e divulgazione delle produzioni artistiche dei Caraibi e dell’America Latina. A partire dalle edizioni successive, l’evento si è configurato come una ricerca sulle sperimentazioni artistiche contemporanee dei paesi del Sud del Mondo, “dove – scrivono gli organizzatori – esistono condizioni materiali e culturali differenti, che danno luogo a un tipo di espressione i cui codici e valori sono capaci di permettere una migliore comprensione della realtà di queste regioni”. Un progetto che per anni ha fatto gola a moltissimi artisti e critici internazionali, attirati all’Avana soprattutto dalla novità e dalla portata culturale di un simile manifesto critico, che negli anni ha dato spazio ai mostri sacri dell’arte figurativa Latinoamericana (l’ecuadoregno Oswaldo Guyasamin, il messicano Francisco Toledo ed il cileno Sebastian Matta per citarne alcuni) e nello stesso tempo ha contribuito all’affermazione di giovani artisti, specialmente latinoamericani, che lavorano cimentandosi con estrema libertà di espressione e con ogni tipo di medium.
Nonostante la precaria situazione economica cubana, soprattutto durante la durissima crisi degli anni Novanta chiamata il “periodo especial”, proprio l’interesse internazionale ha permesso alla Biennale dell’Avana di proseguire: oltre ai fondi internazionali stanziati fino all’edizione del 2000, artisti critici e curatori di tutto il mondo hanno partecipato e continuano a partecipare finanziando di tasca propria viaggio e permanenza, produzione, allestimento ed assicurazione del progetto che espongono o di cui si occupano.”Kill the idiots” è il benvenuto riservato a chi arriva dal Malecon al Pavellon Cuba, uno degli spazi istituzionali che la città ha aperto alla Biennale. Il Pavellon è uno storico edificio modernista costruito negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione nel quartiere residenziale del Vedado: storicamente è stata la sede di importanti mostre di arte contemporanea internazionale, il simbolo dell’apertura culturale della capitale della rivoluzione nei confronti dell’avanguardia mondiale. Per la biennale, i due padiglioni aperti che uniscono le centralissime strade 21 e 23 e che costituiscono il Pavellon sono diventati il contorno di un’azzardata impalcatura che è di fatto il corpo espositivo centrale di questo spazio: intricati corridoi di tubi innocenti, scale e balconcini hanno ospitato per 3 settimane performance, concerti, installazioni e proiezioni. Un progetto espositivo assolutamente in tono con la natura delle opere d’arte ospitate: effimere, contraddistinte da un’assoluta libertà formale e contenutistica, destinate all’interazione con il pubblico e con il tessuto urbano circostante.
Lo stesso tema della Biennale, “L’arte nella vita”, è stato il punto di partenza di un fitto calendario di attività e performances organizzate in diversi quartieri della città. Come spiega Ibis Hernandez Abascal, una degli organizzatori e curatore generale della Biennale, l’attitudine volutamente espressa quest’anno è stata il coinvolgimento diretto dell’Avana e dei suoi abitanti alle proposte della Biennale. Alle esposizioni nei quattro spazi istituzionali principali, il Pavellon Cuba, il Centro Wilfredo Lam, la seicentesca Fortezza San Carlos de La Caba–a ed il museo di arte cubana del Palacio de Bellas Artes, la Biennale ha affiancato una serie di eventi che hanno coinvolto spazi pubblici, il lungo mare, quartieri di periferia, strade del centro frequentate da turisti, istituti scolastici.
Le attività organizzate nel quartiere Alamar sono l’esempio di un fermento che agisce e si muove all’interno ed all’ombra della cultura istituzionale. In questo quartiere popolare dell’Avana dell’est, lontano dal centro ed apparentemente vissuto come una periferia abbandonata dallo Stato, una tenda del circo ha ospitato per tre pomeriggi azioni e performance organizzate nell’ambito della Biennale. Tutt’altro che destinato a un pubblico colto e specializzato, il circo ha coinvolto a prezzi popolari le famiglie ed i bambini del quartiere, che si sono ritrovati ad applaudire ed a ridere con artisti e performer di tutto il mondo, proprio come se stessero ammirando il domatore di leoni o un equilibrista ai trapezi. L’idea fa parte di un più ampio progetto di interventi nel quartiere, che ristretti al solo ambito della Biennale si sono svolti tramite l’azione diretta di numerosi artisti cubani e stranieri nelle case e nelle strade di Alamar. Ai murales del governo che riportano slogan della rivoluzione, “Per la nostra rivoluzione di idee disposti a continuare”, girando per il quartiere ci si imbatte in installazioni che ricordano la tratta degli schiavi, murales e graffiti che incitano alla partecipazione comunitaria, azioni ed installazioni. Tutto, come ricorda Jorge Pérez Gonzalez, uno dei fondatori del progetto collettivo Omni che opera proprio all’Alamar e che ha come sede operativa la Casa della cultura del quartiere, “avviene con il beneplacito delle istituzioni”. Il ministero della Cultura, che ha il controllo di ogni produzione intellettuale del Paese, ha istituito negli ultimi anni un “Dipartimento della cultura comunitaria” che si occupa proprio di tutte quelle attività artistiche e culturali che coinvolgono gli spazi pubblici. “E’ un’impresa riuscire a muoversi ed a progettare eventi che vedano la partecipazione di tutto il quartiere”, dice Jorje, “però noi siamo qui da sei anni e finora siamo riusciti ad agire esattamente come vogliamo”.
La stessa impressione che all’ombra delle istituzioni si muova qualcosa che riesce a mantenere un’autodeterminazione intellettuale si ha visitando la Isa, l’istituto superiore di arte. Vero gioiello dell’effervescente cultura rivoluzionaria, la scuola è stata costruita nel 1961 nazionalizzando l’enorme parco di un campo da golf per turisti statunitensi. Qui ora gli studenti imparano che le “ultime tendenze del fare artistico contemporaneo, in linea con le nuove ricerche antropologiche e sociologiche, si ispirano all’osservazione partecipata” spiega Ramon Cabrera Salort, decano del prestigioso istituto d’arte. Tendenza del tutto innovativa, lontana anni luce dall’idea che l’arte cubana sia una clonazione del realismo socialista. Lo dimostrano anche le azioni del D.I.P., acronimo di “Dipartimento di interventi pubblici”, che sotto un nome volutamente pomposo e formale nasconde l’identità di un collettivo di artisti e attivisti, tutti studenti o ricercatori della Isa, il cui lavoro consiste nello smascheramento delle regole del controllo attraverso l’azione negli spazi pubblici.
L’esistenza di un fermento culturale simile permette di rimodellare l’assunto “regime castrista = controllo = mancanza di libertà di espressione”. All’interno ed all’ombra della cultura istituzionale, ora all’Avana operano quasi indisturbati i maggiori artisti della città, la cui ricerca di nuove modalità espressive si nutre e prende forza dalla decisa volontà di comunicare e di agire aggirando le regole del controllo, ed operando nelle pieghe nascoste di queste. Una simile attitudine ha permesso all’arte di uscire dai musei per diventare un elemento costruttivo e decisivo per la vita sociale e politica di un Paese ancora profondamente scosso dall’uccisione sommaria dei tre dirottatori di un battello avvenuta lo scorso aprile. L’avvenimento, costato caro alla stessa Biennale che si è vista rifiutare da un giorno all’altro l’appoggio finanziario di alcune fondazioni europee per un valore di 90 mila dollari, è vissuto ancora oggi come un momento di frattura e di scissione da tutti i cubani. Tra questi, dagli artisti in particolare, che come spiega ancora Jorge Pérez Gonzalez, si sono sentiti direttamente coinvolti dall’avvenimento, e sono convinti che “agli errori del potere potrà porre rimedio l’azione di una generazione di intellettuali che costituiscono l’avanguardia politica del Paese, in grado di guidarne il passaggio verso una democratizzazione delle istituzioni che mantenga però intatta l’identità politica e culturale dell’isola”.                         

Glossario

Biennale internazionale d’arte contemporanea dell’Avana: istituita nel 1984 presso il Centro Wilfredo Lam dell’Avana, si è inizialmente occupata esclusivamente degli artisti provenienti da America Latina, Asia e Africa. Con gli anni e con il graduale riconoscimento da parte della critica internazionale, la Biennale si è aperta anche a Nord America ed Europa, privilegiando soprattutto la collaborazione di critici e curatori che si occupano del tema dell’identità culturale.
Camello: i cigolanti autobus periferici della città, costruiti usando la carrozzeria di vecchi tir e così chiamati per il profilo con due gobbe
Dirottamento: nell’aprile 2003 tre dirottatori di un traghetto civile cubano che hanno tentato di deviare il percorso dell’imbarcazione verso la Florida sono stati fucilati. Il fatto ha scatenato lo sdegno della comunità internazionale che ha chiuso i rapporti diplomatici ed economici con Cuba.
ISA: Istituto Superior de Arte, una scuola di specializzazione che gli artisti possono frequentare, vincendo un concorso, dopo aver terminato gli studi all’Accademia di arte. Fondata immediatamente dopo la rivoluzione espropriando il terreno di un Golf Club statunitense. La scuola è aperta ad artisti di tutte le discipline: musica, arti figurative, danza e teatro.
Wilfredo Lam:
José Martì: eroe nazionale cubano. Scrittore, poeta e viaggiatore. Martì si è formato in Europa e Stati Uniti ed è morto a 42 anni nel 1895 combattendo per l’indipendenza Cuba. E’ il primo poeta modernista del Paese ed autore dei versi ripresi dalla canzone popolare Guantamera. “Con todos y para el bien de todos” è un verso di Martì, riportato nel primo articolo della costituzione cubana del 1901.
Microbrigadas: gruppi di operai specializzati che, a turno, erano impiegati nell’edilizia popolare. Numerosi quartieri periferici dell’Avana pianificati negli anni Settanta sono stati costruiti grazie all’impiego delle microbrigadas.
Periodo Especial: il decennio seguito al crollo dell’Unione Sovietica e che ha segnato una gravissima crisi economica del Paese, che fino ai primi anni Novanta contava sull’URSS come sostanziale sostegno economico. La crisi è ricordata come un periodo devastante per la storia dell’isola, che negli ultimi anni sta riuscendo a stabilizzare l’economia grazie allo sviluppo del turismo.
Abel Prieto: attuale Ministro della cultura cubana, che ha voluto mettere una statua di John Lennon in un parco pubblico del centro della città, sdoganando nel Paese i Beatles che fino a qualche anno fa erano ritenuti il simbolo della borghesia occidentale. Ora nei taxi, nei ristoranti e nei locali pubblici non si fa altro che ascoltare come sottofondo musicale i vecchi album del quartetto di Liverpool mescolato alla salsa ed al son. Prieto, uno dei pochi giovani ministri del governo di Castro, aiuta e sostiene le attività dei giovani artisti del Paese.

Il Pavellon Cuba – Intervista a Eugenio Valdes Figueroa

Inevitabile presentarsi al pavellon Cuba e chiedere a Eugenio Valdes Figueroa di essere introdotta storicamente in questo spazio.
Figueroa è un curatore e critico indipendente cubano che ha lavorato in numerosi progetti internazionali tra cui la Biennale di Johannesburg nel 1995 e la mostra Utopian Territories: New Art from Cuba, a Vancouver nel 1997. Specialista di arte africana contemporanea, ha lavorato sin dal 1984 alla Biennale dell’Avana come curatore. Contemporaneamente ha seguito il progetto R.A.I.N ., un gruppo di artisti, curatori ed architetti impegnati in progetti che coinvolgono gli spazi pubblici urbani.

Lucrezia Cippitelli: Incontrandoci in questa struttura di tubi innocenti progettata da R.A.I.N per la Biennale, iniziare parlando proprio di R.A.I.N.
Eugenio Valdes Figueroa: Siamo un gruppo multidisciplinare internazionale composto da coratori, critici e architetti. La nostra attività curatoriale si dissolve in un lavoro multidisciplinare. Siamo nati in modo molto spontanea a Los Angeles nel 2000: eravamo un gruppo di persone interessate all’architettura ed agli spazi pubblici che per caso si sono ritrovate in un edificio modernista degtli Anni Trenta. Lo spazio ci ha coinvolto a tal punto da pensare un progetto comune da realizzare appositamente sul luogo.
La nostr attività si svolge sempre con la realizzazione di un progetto comune in cui si colgono gli elementi individuali di ciascuno di noi.
La nostra idea fondamentale è di piovere sulla città: trasformiamo gli spazi urbani in maniera effimera, temporanea, per un breve periodo, chiamando l’attenzione su spazi urbani ignorati, sulla struttura sociale di certe zone determinata dalla costruzione e progetttaazione di determinate soluzioni urbanistiche. Costruiamo nuove letture e interpretazioni delle città contemporanee.
Le nostre letture ed i nostri interventi irrompono negli spazi vissuti coinvolgendo in modo consequenziale gli osservatori: si può dire in qualche modo che questa sorta di prolungamento implica un allargamento e un’estensione del nostro progetto a tutti quelli che si trovano coinvolti nei nostri progetti volenti o nolenti.
Dopo Los Angeles abbiamo lavorato insieme a Houston ed a Vienna. in ogni caso facciamo delle indagini approfondite sulla struttura, la forma e la storia delle città.

L.C.: Di quali media vi servite?
E.V.F.: Non c’è una regola: delle volte ci è capitato di usare camion e imbarcazioni che abbiamo incanalato in determinate zone della città, altre volte facciamo video, installazioni, sculture.
Una cosa certa è che non amiamo lavorare in maniera consueta dentro gli spazi convenzionalmente dedicati all’arte. Ad esempio siamo stati invitati a Vienna nel Mac, il museo di arte contemporanea della città, dove invece di realizzare un’opera da mostrare abbiamo costruito una galleria dentro la galleria: il progetto si presentava come un’enorme plastico, in scala 1:1, su cui erano posizionati dei monitor che riprendevano gli altri spazi del museo. Sembrava tutto verosimile e perfettamente normale, se non fosse che le luci che avevamo installato erano disposte in maniera totalmente afunzionale. In più ab iamo aperto le porte del museo, generalmente molto mainstream, ad artisti molto giovani e semisconosciuti , organizzando più di un vernissage ogni due o tre giorni. Abbiamo fatto impazzire il museo detournando in maniera totale l’idea di spazio espositivo comunemente adottato, rompendo le norme e le funzioni degli oggetti.

L.C.: In qualche modo è un’esperienza che avete riproposto qui al pavellon Cuba.
E.V.F.: Esattamente. In questo caso ci troviamo di fronte a un’impalcatura che attraversa sul lato lungo tutto l’edificio preesistente. Su queste struttura, fatta di vari piani, scale, strutture prive di finalità se non quella di attraversare gli spazi o osservare il Pavellon da angolazioni diverse.
Il lavoro di progettazione è stato totalmente aperto e collettivo. Ci siamo scambiati per mesi progetti via fax o email, finché siamo giunti a un punto che implicasse come conseguenza l’inizio della costruzione dello spazio. Articolati e nascosti nell’impalcatura ci sono i segni individuali di ogni artista o architetto che ha partecipato: tutto si dissolve in un’opera collettiva fatta di elementi individuali che possono essere raccolti piano piano.

L.C.: Come mai avete deciso di intervenire proprio sul padiglione?
E.V.F.: Ci affascinava l’idea di intervenire in questo edificio storico: il tipico padiglione modernista, carico di elementi che lo legano direttamente all’idea socialista in architettura.
È stato costruito negli anni Sessanta come padiglione espositivo, ma come potete vedere voi stessi ha delle caratteristiche che lo rendono un unicum: è totalmente aperto da tutti i lati, è una struttura aperta coperta da un tetto poggiato su delle colonne. L’idea era proprio che potesse essere fruito come parte dello spazio urbano, avendo un ruolo non di sbarramento tra due strade parallele, ma di passaggio. La gente negli anni immadiatamente successivi alla sua costruzione, doveva poter passare di qui, magari con un gelato in mano comprato alla vicina gelateria coppelia, la più famosa della città. Si poteva attraversare come punto di congiunzione tra due vie di transito, le mostre presentate nel padiglione erano di conseguenza aperte e democratiche, fruibili!
Un aneddoto che racconto sempre è che l’architetto che ha progettato l’edificio, Campos, per realizzare la sua opera ha voluto tagliare una parte di un palazzo preesistente, costruendo un tunnel in questo edificio: gli anni Sessanta erano un periodo di apertura e di avanguardia, realmente vissuta e realizzata da chi hanno vissuto quel periodo.

L.C.: Il vostro intervento pare realizzato proprio per mettere l’accento su una storia avanguardista molto importante e mi pare in parte non troppo valorizzata.
E.V.F.: Infatti. Siamo intervenuti recuperando a nostra volta la storia dell’architettura modernista: l’impalcatura che attraversa il padiglione altro non è se non un corridoio dell’unità abitativa di la Corbousier riletta e trasformata in un corridoio di tubi innocenti. Inoltre abbiamo voluto riprendere anche il tema dell’apertura. In qualche modo questa struttura di tubi innocenti, che permette a chi passa dalla strada di entrare direttamente nel museo e di ritrovarsi dall’altro lato dell’isolato, è proprio un’omaggio alla primitiva fruizione dell’edificio, e a un periodo storico davvero eccezionale per la nostra cultura.
Il fermento che ha seguito gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione è stato segnato da un’incredibile euforia costruttiva, dall’interessamento e dalla partecipazionedi artisti e intellettuali provenienti da tutto il mondo. In quegli anni sono stati realizzati progetti davvero interessanti, costruiti da equipes multidisciplinari che lavoravano insieme in maniera totalmente orizzontale e condivisa. Il greuppo R.A.I.N. è in qualche modo anche una prosecuzione di quest’esperienza irripetibile.
Basti pensare ai progetti pianificati – e realizzati – negli anni compresi tra la fine della rivoluzione, dopo il 1959, al 1963. Il Pavellon Cuba in primis, a cui ha partecipato anche Wilfredo Lam decorando il pavimento della rampa che sale al piano superiore: pensa che idea, un mosaico su cui camminare, incitava a mettere i piedi sopra le opere d’arte!. Poi bisogna ricordare la la costruzione delle Escuelas Nacionales de Arte, oggi Isa, l’Istituto Superior de Arte, costruite in un ex campo da golf (il Country Club), espropriato e utilizzato come spazio in cui costruire delle scuole d’arte per il popolo di tutti i paesi poveri del mondo. Una scuola dedicata a tutte le arti, pittura, scultura, musica, teatro e danza, libera e gratuita edificata all’interno di un enorme parco in cui fino a pochi mesi prima giocavano a golf i ricchi turisti del Nord America. A questo proposito ti consiglio di andare a visitare Roberto Gottardi, l’architetto italiano che è capitato a cuba nel 1960, ed ha partecipato alla realizzazione di questo progetto architettonico molto importante e innovativo. Da allora Gottardi ha continuato a vivere ed a lavorare qui all’Avana.

Il Centro Wilfredo Lam – Incontro con Dannys Monte de Oca

Il Centro di arte contemporanea Wilfredo Lam è il centro propulsore della Biennale dell’Avana. Sede centrale dell’ultima edizione della kermesse, luogo di produzione e di discussione dei critici e curatori che l’hanno ideata e sostenuta, il centro ha ospitato una settimana di dibattiti sul tema dell’identità culturale nel mondo globalizzato, e sulla possibilità di autorappresentazione delle realtà locali.
In una sala dedicata alla telenovela latinoamericana, interpretata come sintomo di un’identità culturale del sub continente ed anche valorizzata come momento estetico dall’artista messicano Pablo Helguera , incontro la curatrice del Centro Wilfredo Lam, che introduce storicamente la biennale dell’Avana.

Dannys Monte de Oca: La Biennale dell’Avana è nata nel 1984: la sua prima edizione era dedicata agli stati del’America Latina e dei Caraibi. Dalla seconda edizione abbiamo coinvolto I paesi del così detto Terzo mondo: l’Africa e l’Asia. Nel mondo esistevano biennali internazionali dedicate esclusivamente all’arte dei paesi occidentali, caratterizzate da una visione eurocentrica dei fenomeni artistici contemporanei anche nello sguardo sul resto del mondo. La Biennale dell’Avana si è inserita in uno spazio ancora non valorizzato, dando visibilità ad artisti dell’America Latina in primo luogo ed anche ad artisti provenienti dai paesi extra occidentali.
Ci siamo occupati principalmente nell’analisi delle peculiarità locali contemporanee locali, dando loro un valore indipendente dallo sguardo di impronta occidentale troppo spesso legata a elementi etnologici, naïf, “primitivi”, come se questi paesi non possedessero un’identità culturale anche dal punto di vista dell’espressione contemporanea.

L.C.: Ho visto che quest’anno Nicolas Bourriaud, curatore del Palais de Tokyo di Parigi, e Kevin Powell, direttore del Museo di Arte Contemporanea reina Sofia di Madrid, hanno partecipato alle giornate di discussione.
D.M.d.O.: Negli ultimi anni infatti la Biennale ha operato un’apertura verso i paesi più propriamente occidentali. Abbiamo ritenuto indispensabile un confronto con critici, teorici, promotori, ricercatori e curatori europei e nord americani quindi, con cui vogliamo discutere proprio i temi dell’identità, del regionalismo, del valore delle grandi esposizioni internazionali, dei nuovi modelli curatoriali e del valore dell’opera d’arte all’interno del sistema economico dell’arte contemporanea.
I dibattiti sono stati molto interessanti, perché hanno concretizzato una visione commune che è quella di superare la visione esotica, e quindi poco scientifica, delle espressioni contemporanee locali, che superassero le aspettative occidentali sull’arte di quelle che sono considerate periferie.

L.C.: Ho trovato molto interessante in particolare l’evento di Bourriaud, che ha parlato di “turismo artistico” in cui contesta proprio i concetti di centro e periferia, di localismo e globalismo, obiettando che le culture contemporanee sono ibride per vocazione, essendo queste determinate da flussi continui di migrazioni.
D.M.d.O.: Sono d’accordo, ma credo anche che sia fondamentale riuscire a mettersi almeno d’accordo su alcuni concetti base: ad esempio avere la coscienza che il concetto dell’esotismo, prodotto strettamente occidentale e legato a una visione eurocentrica e colonialista delle culture altre, è una chiave di lettura parziale e non corretta, che dipende sempre, lo ripeto, dale aspettative occidentali sulle realtà contemporanee ma non ha nulla a che fare con queste realtà, che hanno modalità espressive, linguaggi e soprattutto contenuti diversi.

L.C.: Che ruolo hanno avuto gli artisti nel contesto dell’evento teorico?
Molti artisti cubani hanno participato soprattutto ai dibattiti sulla curatorial dell’oggetto artistico contemporaneo, portando la loro esperienza: tra questi il D.I.P., Departamiento de intervenciones Publicas, un gruppo di giovani artisti orientati quasi esclusivamente sull’intervento negli spazi urbani, sulle azioni e sulla produzione audiovisiva.
Da segnalare poi l’intervento del gruppo R.A.I.N., un gruppo multidisciplinare molto interessante composto da artisti, curatori e architetti provenienti da diversi paesi del mondo. La loro operazione si è svolta in un’altro spazio molto importante della Biennale, il Pavellon Cuba. Lì hanno costruito una struttura che attraversa il padiglione ed in questa struttura di tubi innocenti hanno invitato ad intervenire artisti da tutto ilm mondo. Un’operazione interessante, che ha recuperato uno spazio classico per la cultura moderna cubana, restituendolo alla città in chiave contemporanea e nello stesso tempo evidenzia il ruolo centrale svolto dagli artisti all’interno dell’organizzazione della Biennale.