Note:

(1) Żmijewski, A.: Foreword. In: Forget Fear, 7.Biennale di Berlino, KW Institute for Contemporary Art, Verlag der Buchhandlung, Walhter König, Berlin, 2012, p. 10.

(2) Centro dell’arte contemporanea, il Castello Ujazdowski, Warsaw; Hartware MedienKunstVerein, Dortmund; l’Istituto Svizzero di Roma; Kalmar konstmuseum, Kalmar; il Museo dell’arte contemporanea,Warsaw; steirisches herbst, Graz.

La Biennale di Berlino di questo anno, concepita curatorialmente dall’artista polacco Arthur Żmijewski in collaborazione con la curatrice Joanna Warsza e con il gruppo degli attivisti russi Voina (in italiano la guerra) è piena di paradossi ed ambiguità.
L’idea critica centrale della rassegna è che l’arte, tramite un approccio troppo sofisticato da “guanti di velluto“ ha perso il rapporto con la realtà, il senso.

Secondo Żmijewski l’arte contemporanea viene presentata separatamente dalla vita, senza impegno politico e, qualora lo si affronti, questo rimane indecifrato, non realizzato.
Żmijewski ha voluto provare a modificare questo aspetto (almeno apparentemente): alla Biennale ha invitato degli artisti che operano con l’agenda politica, nonché i gruppi di attivisti dei vari poli dello spettro politico. Come aveva annunciato durante una delle presentazioni alla Biennale: “Qui non si presenta l’arte e molti partecipanti alla biennale non sono artisti”. L’obiettivo della rassegna era di restituire all’arte l’effettività politica, la ragione d’essere, la quale avrebbe avuto il potere di provocare l’azione vera e propria e condurre a qualche atto reale.

Ma quale atto? Che cosa concretamente vuole cambiare il curatore? Quale stato sarebbe per lui ideale? Quali sono gli strumenti di lavoro? Sembra che l’artista/curatore sia stato catturato dalla sua stessa trappola. Addirittura, ciò che avrebbe voluto evitare, è stato il risultato del suo esperimento curatoriale: l’estetizzazione della realtà e l’indebolimento del potenziale impatto dell’istanza politica dei gruppi attivisti e dei movimenti politico/alternativi. Questi ora fanno parte della Biennale, sono parte della catena istituzionale e si inseriscono nel contesto finanziariamente sostenuto dallo stato (Kulturstiftung des Bundes), ed in più anche da Colletors Room Berlin. Questi diventano oggetti al servizio del sistema artistico. A questo punto il progetto è rimasto a metà strada. Non volendo si è affermato che l’arte, con l’impianto forzato di contenuti politici, ma senza valore aggiunto, perde forza. Allo stesso modo perde di autenticità anche il messaggio degli attivisti politici. Sembra che Żmijewski giochi per due team. La sua posizione non è molto chiara e non è certo neanche se il progetto sia riuscito come egli si aspettava e voleva. A questo tipo di domande Żmijewski non risponde per principio. Com’è il suo atteggiamento? Ad un primo sguardo segue e supporta gli attivisti della sinistra, ai quali dà predominio alla biennale; per fare questo usa una retorica militante ed impegnata che conosciamo come spettro dell’ultra-destra. La metodologia somiglia alla strategia della manipolazione delle masse detta Double Spin Theory, che si basa sulla comunicazione di due messaggi contrari, con l’obiettivo di creare disorientamento e caos. Questo rappresenta bene l’obiettivo della biennale che Żmijewski aveva dichiarato nella pubblicazione accompagnatrice (1): Trovare le risposte. Al contrario, alla conferenza a Roma nel centro sociale l’ESC, nonché a Berlino, durante la discussione con i partecipanti di Solidarity Action (il network delle istituzioni di vari paesi, incluso l’Istituto Svizzero di Roma, che avevano promosso l’idea della biennale nel suo paese, nella sua città, tramite azioni parallele) aveva dichiarato l’obiettivo di porre domande e di non dare risposte.

Sembra che lo scopo della Biennale sia stato soprattutto creare polemiche, controversie e ambiguità. Anche forse per questo motivo il logo della biennale ricorda la svastica e l’alfabeto di rune. L’ambiguità del messaggio sembra anche essere un’implicazione del suo film Berek (1999). Nel film un gruppo di persone nude si inseguono in due posti diversi: un edificio abbandonato ed una ex-camera a gas. Ad un primo sguardo non è chiaro dove si stia svolgendo la scena. Questa opera è stata censurata in un’altra mostra tenutasi al Martin-Gropius-Bau di Berlino nel 2011, dietro richiesta delle vittime dell’Olocausto. Possiamo considerarla una metafora, una compressione di tutto il messaggio della Biennale.

Il film è proiettato all’ultimo piano, in un posto recondito nell’ultima sala, intenzionalmente collocato dietro l’installazione Berlin – Birkenau dell’artista Łukász Surowiec. Questo artista polacco ha portato 320 piante di betulle dai dintorni dell’ex campo di concentramento, poi piantate a Berlino. Una situazione paradossale simile la aveva provocata la vicenda attorno al progetto Deutschland schaff es ab (La Germania lo elimina) dell’artista ceco Martin Zet. L’intenzione dell’artista era di accumulare 60 000 copie vendute del libro controverso Deutschland schaff sich ab (La Germania si elimina 2010), scritto dal deputato tedesco della Democrazia sociale Thilo Sarrazin; nel libro, il politico chiede la restrizione dell’immigrazione dei musulmani e promuove l’intolleranza razziale in genere. La selezione del linguaggio in tedesco usato per l’appello (che l’artista aveva autorizzato in inglese) a raccogliere i libri, evocava direttamente il messaggio di Bücherverbrennung, inneggiante l’atto dei nazisti di bruciare i libri che erano in disaccordo con la loro ideologia. L’appello della Biennale era stato tempestivamente contrastato dai gruppi ultrafascisti ed aveva innescato una discussione appassionata sulla stampa quotidiana. La conseguenza è stata che il pubblico si aspettava il rogo dei libri di Sarrazin, fatto che non era nelle intenzioni dell’artista. Forse anche per questa ragione l’artista è riuscito raccogliere solo 6 esemplari dei libri. Uno schiaffo alla correttezza politica tedesca ed al rispetto delle regole, toccare il cronico senso di colpa dei tedeschi è un tema presente in un altro progetto della Biennale: la ricostruzione della battaglia su Berlino della seconda guerra mondiale nel parco vicino lo Spree.

Quindi la Biennale è rimasta, al contrario dell’intenzione di ridefinire il sistema dell’arte verso l’attività politica, nell’ingranaggio istituzionale predefinito. Questo si era già palesato durante la discussione nei primi giorni dell’opening nel Kunst-Werke sul tema what can art do for real?, alla quale partecipavano i rappresentanti delle istituzioni aderenti alla Solidarity Action (2), ma non era stato invitato nessun artista.

Qualcosa sulla ambiguità della strategia curatoriale lo dice anche il fatto che nello stesso allestimento della Biennale, l’attivismo politico “puro” non si sia integrato molto con l’arte. Agli attivisti come Occupy Berlin, 15M Movement (Barcelona, Madrid), Occupy Frankfurt, Artists in Occupy Amsterdam, Occupy Museums (Occupy Wall Street) era stato dedicato lo spazio comune nella sala centrale del piano terra, nella quale gli appelli, i messaggi ed i manifesti si sono mescolati in un’unica, non differenziata massa da squatt. I lavori degli artisti “veri” erano distribuiti nei diversi piani dell’edificio di Kunst-Werke, ma anche qui l’effetto della voce insieme e della fusione era marcante nella installazione Breaking the News. Qui, in una singola stanza sono stati proiettati i video degli artisti di contenuto attivistico, determinando un’atmosfera da dimostrazione. La loro presenza è stata utile dal punto di vista informativo, divulgativo. Sono state riferite notizie sugli avvenimenti politici in modo diverso da quello conosciuto tramite i mass media predominanti. L’attenzione dello spettatore è stata presa dai video degli artisti e collettivi come FEMEN, Filmpiraten, Zafeiris Haitidis, Łukasz Konopa, Mosireen, Oleksiy Radynski, David Reeb, David Rych, come anche l’artista slovacco Tomáš Raffa. La multivoce era anche l’idea centrale dell’artista di Rotterdam, Jonas Staal The New World Summit, il quale aveva mappato i diversi gruppi attivisti che hanno lo statuto delle organizzazioni terroristiche. Queste erano state invitate al convegno dove si è dibattuto sui loro atteggiamenti. L’esecuzione visiva di questa idea è stata l’installazione delle bandiere posizionate a livello del viso, tra le quali il visitatore ha dovuto farsi strada. In più era presente una maquette del parlamento con le bandierine delle organizzazioni, raggruppate in cerchio secondo l’appartenenza politica, il tutto accompagnato dal video di spiegazione dell’autore. Al contrario della annebbiata strategia generale del curatore/artista, alcune opere hanno comunicato uno statement politico molto chiaro: ad esempio il progetto di Kahled Jarrar, il quale ha dotato gli spettatori di passaporti col timbro dell’inesistente stato palestinese, o la chiave gigantesca, creata dagli abitanti del capo dei clandestini Aida nel West Bank. In questo modo l’attenzione dei visitatori della Biennale è stata riportata al destino dei palestinesi delle zone occupate. Forse il progetto più debole era Draftsmen’s Congress dell’artista, di solito molto bravo, Paweł Althamer, in collaborazione con BelEtage/Renata Kamińska, Goldrausch, Lutz Henke ed altri nella chiesa St. Elisabeth Kirche. La chiesa già due giorni dopo l’inaugurazione si è trasformata in una bottega amatoriale della domenica, piena di individui vaganti nello spazio, coperti dai manicotti bianchi con i pennarelli in mano. Unica cosa che questa Biennale ha portato davvero, è stata la comunicazione urgente degli artisti partecipanti e degli spettatori. Ha impiantato in tutti la volontà di discutere, il bisogno di mantenere una posizione, di decifrare, molto più del solito, i contenuti nascosti.

Dall’alto:

Tomáš Raffa: Candlelight vigil in memory of the Utøya, Sarpsborg, Norway, July 25, 2011. Foto / Photo: © Britney Anne Majure

Artur Zmijewski, Berek, 1999. Videostill / video still Artur Zmijewski. Courtesy Foksal Gallery Foundation

Martin Zet: Deutschland schafft es ab, Abgabepunkt KW Institute for Contemporary Art / Delivery point KW Institute for Contemporary Art. Foto / Photo: © Berlin Biennale

Łukasz Surowiec: Berlin-Birkenau. Foto / Photo: © Ana Rewakowicz, 2012

Battle Re-enactment. Foto / Photo: © Maciej Mielecki

Khaled Jarrar: State of Palestine, Pass-Stempel / Passport stamp. Foto / Photo: © Khaled Jarrar

Jonas Staal, New World Summit, 2012. Foto: Lýdia Pribišová

Key of Return, Foto / Photo: © Aida Youth Centre