Uno dei momenti topici della oramai chiassosa mitologia dell’arte contemporanea si avvicina a grandi passi: la Biennale di Venezia. E io, come ho scritto a quanti mi hanno chiesto se andrò, quest’anno non mi farò vedere, consapevole del fatto di aver esaurito le scorte di masochismo che in tutte le altre biennali mi hanno fatto sudare la fatica d’essere presente alla vernice, pubblico inerte fra pubblico in attesa d’esistere. Andrò in solitaria a godermi la vita e non ad assaporare l’odio che respiro alle vernici. Sono giorni complicati, lo sappiamo. Il mio scrivere sull’arte, il mio protocollare, sono convinto, non è altro che un vuoto silenzio all’esterno della mia mente. Dubito che qualcuno legga. Mi meraviglio persino se qualcuno mi dice che ha tentato di farlo. Le cose non andrebbero così come vanno, altrimenti. Sono persuaso della solitudine della critica d’arte e giurerei persino la mia consapevolezza di pensare che anche chi mi corregge le bozze, e c’è sempre qualcuno che lo fa, finga di leggere. C’è in me anche una tristezza tragica, di questi giorni. Due amici spariti dalla vita in una settimana, Irma Arestizabal che avrei volentieri rivisto per la cura della sua mostra del padiglione Italo Latino Americano di Venezia, e con la quale dovevamo terminare la traduzione del suo testo per un libro in preparazione. E poi Fabio Mauri, uno fra i pochi artisti che mi abbia partecipato solidarietà. In qualche modo ritengo che se oggi posso permettermi ancora di scrivere lo devo a lui che con familiare franchezza mi indicò pubblicamente come uno dei critici che stimava. Mi aveva sostenuto per la pubblicazione del primo libro, Avanguardia nel presente, e da quel testo è iniziato un lungo periodo di attività della quale devo essergli riconoscente. La sua amicizia ed il suo sguardo acuto mi mancheranno. Fabio Mauri era uomo che sapeva leggere, non ho mai visto e percepito in altri la stessa sua profondità di lettura. Un giorno con una copia di “Tema Celeste” in mano mi presentai da lui per fargli avere alcune righe che avevo scritto su una sua mostra. Non mi conosceva, avevamo parlato al telefono pochi minuti prima e già lo vedevo immerso nella lettura, come se fosse evaporato dal nostro mondo e si trovasse altrove. Il suo leggere era percepibile, profondo, complesso, proprio l’esatto opposto di ciò che accade oggi. La lettura è diventata piuttosto scorrimento veloce sulle righe, evidenziazione di termini, e poi salto di link, perdita del filo conduttore, per terminare in qualcosa di assolutamente casuale, un video su YouTube o due goal segnati da un campione in voga.

La Biennale di Venezia. Mi dico. Il disastro della nostra politica è una responsabilità dei singoli: l’ignoranza di questa politica che ha deciso di violentare la cultura è la volontà di un popolo illetterato, incline al pettegolezzo e preda dei bassi istinti della sopravvivenza, prevaricazione e sopraffazione. Ma nessuno che si pensi responsabile del coma profondo nel quale siamo precipitati. A sentire in giro siamo tutti vittime e non colpevoli. Come se ogni azione non fosse parte del tutto e ogni azione non supponesse responsabilità. Qualcosa di simile è già successo, ma la storia non sembra più leggerla nessuno. Siamo gli stessi che ci scandalizziamo nel sentire che in vicini paesi africani i bambini albini sono perseguitati dall’ignoranza delle folle, ma noi non siamo diversi. Osanniamo il vincente e poi quando ci accorgiamo che non lo è più ci vendichiamo appendendolo ad un palo come fosse una bestia e non un uomo. Quale lettura? Quale cultura possiede questo popolo che ha deciso di farsi schiavizzare psicologicamente? E quale critica se vale la legge del più forte e più potente, quella che fa definire ogni dissenso frutto dell’invidia? Come se non ci potesse essere e non avesse dignità d’esistere un differente modo di vivere, a parte quello che inizia con Media e ci aggiunge qualcos’altro, banca, fondi, tele. Non si tratta di regime, è che gli intellettuali, ammesso che ce ne siano non frullati dai media, hanno dismesso il pensiero. Venezia, mi direte è ben poca cosa, certo, ma i sistemi e le politiche che la animano sono paritetici. In primo luogo questa storia degli inviti e degli accrediti. La nuova invenzione è l’accredito selezionato. La selezione, immagino per i paria come me che non hanno una mercedes nera piena di brutti ceffi con  Kalašnikov e basettoni al seguito, significa che per essere accreditato bisogna sostenere una sorta di esame e dimostrare di aver scritto sulla precedente biennale. Una formula viscida e ricattatoria e che certamente darà i suoi frutti. Come tutti i sistemi da gangster, anche questo funzionerà bene, lo sento. Ma sono sistemi ricattatori che non accetto. Insomma di cosa diavolo state parlando? La prossima volta saranno selezionati solamente coloro che avranno parlato bene della Biennale, suppongo, e la successiva solo quelli che avranno leccato le suole del suo presidente. Immagino che comunque vadala Biennale di quest’anno sarà stupenda su tutte le pagine dei giornali, e a giudicare dalle modalità selettive con cui si è proceduto agli inviti, persino più bella di sempre, d’altra parte la nostra stampa è libera, e la grandiosità della biennale è stata descritta ben prima che questa inaugurasse. Io immagino che tra qualche decennio la rubricheremo tale e quale quella del ’38, con gli stivaloni sotto al ginocchio delle nuove camice brune. Quale valore ha dunque la critica?

Alcune di queste sollecitazioni mentali mi sono arrivate durante una lezione che è stata tenuta pochi giorni fa da Piero Golia, artista italiano d’origine e adesso stabilitosi a Los Angeles, invitato dall’università La Sapienzaper una Master/Class. Gli studenti, molti del corso magistrale o specialistico, quindi studenti che si suppone abbiano la possibilità di valutazione sulla storia e le sue conseguenze, ascoltavano quello che diceva Piero Golia con l’aria attonita. Il suo percorso, sia pure confinato all’interno di un’esistenza di soli trentacinque anni, ha il suo indubbio fascino. La parlata disinibita di Golia ha descritto alcune fra le sue operazioni artistiche più riuscite e ha evidenziato ciò che per gli studenti non era risaputo e non avevano trovato sui libri, forse perché i miei libri evidentemente non li hanno mai letti, anche se avrebbero dovuto. E ovvero che nel contemporaneo l’arte non c’entra più nulla con la sua storia anche recente ma ciò che conta è l’operazione, l’organizzazione. Una sorta di follia allucinante e anche simpatica che fa di Golia un protagonista ciclopide nel paesaggio contemporaneo proprio perché sposta facciate delle case con le gru, affitta aerei e appezzamenti di deserto per lanciare cineprese dall’alto, trasporta un milione in banconote con tanto di scorta per fotografarne l’aura e il potere, agisce così come fanno tutti gli artisti degni di nota, a quanto pare, da Cattelan a Vezzoli sino a Beecroft, che infatti Piero Golia cita confidenzialmente come Vanessa. Tutti capivano che non si trattasse della Redgrave. Ma al di là dell’ammirazione che è lecito poter nutrire verso chi sottolinei il suo essere democraticamente attivo per consumare energie inutilmente, e l’arte alla fine è del tutto uno spreco, ciò che stupiva gli studenti è che non si parlasse più di storia, di qualità, di nulla ma soltanto di cose tangibili, fatti, azioni compiute. Nessun pensiero, nessun tentennamento, soprattutto nessun dubbio. E ne è conferma il fatto appena accaduto a Venezia, ovvero l’affondamento della casa progettata da Mike Bouchet per la Biennale. Nessunosi sognerebbe di dire che si tratti di un’operazione fallita perché la casa c’era, anzi c’è, ed il fatto che sia affondata anzi sollecita ancora di più l’evidenza della cosa, la sua fattualità. La casa c’è, è apparsa anche sui telegiornali. Che sia affondata è solo un dettaglio e lo si usa per maggiore pubblicità. In altri tempi se un’opera si fosse scolorita o spezzata sarebbe stato un fallimento. Ma l’arte è oggi compiere azioni, appendere dieci tonnellate al soffitto di un museo con auto sottratte alla produzione, organizzare una finta biennale, radunare cento cinesi in uno spazio ristretto. Tuttavia ciò che nessuno dice è che se un artista scimmiotta un mestiere altrui farà sempre un lavoro da dilettante. Per quanto Vezzoli si sforzi di essere personaggio  à la page  per il suo fare alla Gagosian, non saràmai Gagosian. Se la vediamo da questo punto di vista in Italia non c’è Cattelan che tenga, il migliore artista è stato in tempi recenti Berlusconi. Chi altri se no? Ha creato un’azienda/stato che sta sperperando e distruggendo il suo patrimonio culturale e civile, se non è spreco questo! Un autentico dispendio improduttivo, da vero artista.

Di storia non se ne parli! Anche i migliori docenti universitari hanno rinunciato a farne, dicono che gli studenti s’annoiano, non capiscono. E quindi delegano alla ricerca in rete l’idea di storia in pillole Wikipedia mentre nelle loro lezioni parlano di una cronologia a puntini sbalzati, senza strategia e senza regole. Oppure fissano al microscopio atomico un singolo fenomeno cercando di saperne tutto sino al minimo dettaglio senza capire nulla del perché. Preferendo vivisezionare alcuni lavori piuttosto che interpretarli. Perché tutto è possibile, ciascuna opinione vale quella dell’altro e le possibilità si danno col codice binario. La riduzione della critica a chiacchiera da camionista o da bidella. Perché alla fine ciò che conta sono i fatti e non le parole. 

1. Fabio Mauri, Che cosa è il fascismo, Stabilimenti Safa Palatino, Roma, 1971

2. Fabio Mauri, Che cosa è il fascismo, Cantieri navali, Biennale di Venezia, 1974