La mostra Chinart, ospitata dagli spazi del Macro al Mattatoio di Roma dal 14 febbraio al 27 aprile, ha avuto il merito di aprire uno spiraglio su un universo artistico in continuo fermento e per ora ancora poco noto. Coprodotta e curata insieme alla Central Academy of Fine Arts di Pechino e la Stiftung fur Kunst und Kultur di Bonn, l’esposizione ha proposto un percorso nella giovane arte cinese contemporanea. Artisti alla prima esperienza espositiva hanno esposto a fianco di artisti più riconosciuti dalla critica occidentale per la loro partecipazione ad alcune manifestazioni artistiche internazionali, tra cui la biennale di Venezia del 2001. La cifra comune a tutti è la residenza in Cina e l’essere nati negli anni Sessanta.
Dopo l’inaugurazione al Museum Kuppersmule Sammlung Grothe di Duisburg, Chinart è stata proposta a Roma in una versione ridotta: circa metà degli artisti ospitati a Duisburg, ventidue provenienti da tutta la Cina, con trentacinque opere. Nel saggio introduttivo al catalogo della mostra, il curatore Walter Smerling tiene a sottolineare quanto questa costituirebbe un “tentativo di fornire, con i diversi settori artistici, una visione del paese che solo tramite l’arte, valicando la distanza, ci comunica una vicinanza che con nessun altro mezzo sentiamo in maniera simile”. Una vera e propria mediazione tra due civiltà lontane e scarsamente comunicanti, che si aprirebbero al dialogo grazie all’unico linguaggio condiviso, l’arte

La Cina che nel gennaio 2001 è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che con la sua crescita economica annuale che supera il 7% si appresta a diventare una delle principali potenze economiche globali irrompe sempre di più nelle cronache internazionali: la Cina povera e rurale rimbalzata sui giornali di tutto il mondo per la storia di Ma Yan che contrasta con la Cina iper tecnologica delle grandi città; la Cina della storia millenaria e dei gadget svenduti a poco prezzo per le strade delle nostre metropoli; l’immaginario da televisione consumato quotidianamente da Mtv e da fenomeni cinematografici come “Shaolin Soccer” e la Cina devastata dalla Sars e sbattuta in prima pagina da quotidiani e telegiornali di tutto il mondo.
La Cina sembra diventare sempre più vicina, e mostre ed esposizioni importanti che si sono avvicendate negli ultimi anni in tutto il mondo sembrano dimostrarlo: dalla grandiosa esposizione ospitata nel 1998 dal Guggenheim Museum di New York, “Cina: 5000 anni”, all’Affiche Chinoise 1921-2001″ ospitata dal nuovissimo Museo della Pubblicità del Louvre di Parigi lo scorso inverno per fare qualche esempio.

In questo contesto Chinart si è configurata quindi come un’imperdibile occasione per osservare, capire, farsi coinvolgere da un ambito culturale e sociale “altro” e sostanzialmente estraneo, che nello stesso tempo è entrato negli ultimi anni a far parte prepotentemente dell’immaginario comune.
Eppure Chinart delude in qualche modo queste aspettative. Per scelta del curatore, le opere esposte non seguono un percorso comune, non condividono un medium comunicativo preciso e raggruppano tecniche diverse: pittura, ceramica, video, scultura, installazione. Questa scelta concorderebbe con la volontà dichiarata di dare un quadro esaustivo, ampio e non univoco dello stato dell’arte cinese dell’ultima generazione e di aprire un dialogo con il pubblico.
Il risultato è, purtroppo, che l’auspicato quadro esaustivo non è facile da mettere a fuoco perché si concretizza in un percorso un pò confuso tra linguaggi e scelte tematiche troppo difformi.
Certo emerge chiaramente una totale inversione di tendenza rispetto alla Cina della Rivoluzione Culturale: l’idea che l’arte debba porsi al servizio del soldato e del contadino non è davvero più valida. E in secondo luogo pare evidente quanto i giovani artisti cinesi abbiano fatto propri linguaggi non tradizionali, come la fotografia o il video, che usano disinvoltamente insieme a stili e mezzi derivati dalla tradizione orientale quali ad esempio la ceramica.
La difformità del progetto espositivo spiazza però chi osserva, che si trova a vagare indistintamente e senza un filo conduttore tra oggetti artistici la cui rivendicazione è chiaramente di natura socio politica, opere la cui matrice è puramente estetica e veri e propri giochi concettuali. Il tutto senza il supporto di un apparato critico in grado di sostenere le flaneries dello spettatore, forse vera mancanza dell’intero allestimento. Dalla raccolta di siringhe di Wang Quingsong in piccole cassette decorate (Notebook No. 1-16) con figure che si rifanno alla tradizione orientale, chiaro richiamo alla diffusione delle storture provocate dall’importazione del nuovo modello della società dei consumi, si passa a Floating No. 1 di Pan Dehai, olio su tela in cui l’immagine tradizionale del bambino cinese piccolo e grasso viene ripetuta a loop come una stampa pubblicitaria sullo sfondo di un cielo azzurro.
I due grossi dinosauri rossi (4 metri di altezza) in fibra di vetro di Sui Jianguo, dragoni cinesi diventati dei Godzilla da supermercato e Made in China di nome e di fatto, proprio come gli accendini e la paccottiglia che le minuscole donne cinesi vendono di ristorante in ristorante ogni sera, danno il benvenuto agli spettatori all’ingresso del Mattatoio e introducono alle tele di Zhan Linhai. I busti senza volto di donne adagiate su poltrone colorate di Liu Jianhua, in ceramica dai colori sgargianti, vera fusione dell’antica arte cinese della ceramica con la sensibilità tutta contemporanea dello spaesamento, si affiancano senza soluzione di continuità ai video di Wang Gongxin e Song Dong. Frammenti poco composti di una realtà che si presenta notevolmente difficile da racchiudere sotto una definizione generale, arte cinese contemporanea, e che necessiterebbero davvero di un solido apparato critico che filtri e decodifichi dei segnali altrimenti difficili da cogliere nel loro intero significato.

Un vero melting pot dunque, che ha comunque il pregio di testimoniare lo sviluppo di una nuova sensibilità artistica e di un modo di raccontare il mondo che nonostante le distanze geografiche è molto vicino a quelle occidentali. Da questa nuova sensibilità scaturisce l’affermazione di una nuova figura sociale: l’artista che lavora per sé e per vendere le sue opere non più alla committenza interna ma al vasto e interessato pubblico occidentale. Il mercato internazionale dell’arte appare infatti molto interessato allo sviluppo di questa giovane arte cinese. Ne sono indubbia testimonianza i numerosi siti internet dedicati proprio all’arte cinese contemporanea. In un paese in cui l’accesso internet è ancora interamente filtrato e in gran parte censurato dallo stato, appare davvero sconcertante il numero di siti vetrina dei principali artisti. Tutti palesemente rivolti al pubblico occidentale (tutti hanno in comune un nome che insiste sui tre concetti di “nuova” “arte” “cinese”) e soprattutto a una clientela numerosa di collezionisti. Ed ecco che grazie alla diffusione ed alla vendita delle loro opere, gli artisti cinesi si trovano ora nella condizione di lavorare lontano dalle restrizioni dell’accademia, ancora improntata all’idea dell’imitazione, e di poter maturare una libertà espressiva ed intellettuale del tutto inedita nel paese. Se Mac Donald’s e la Coca Cola sono tranquillamente entrate a far parte del mercato cinese, ugualmente gli artisti della nuova generazione possono ora viaggiare e partecipare alle biennali e mostre internazionali, assumendo un ruolo e un importanza all’interno della controllatissima società cinese del tutto nuova.

 

Dall’alto:

Sui Jianguo, Made in China, 2002 scultura in fibra di vetro, cm. 270 x 400 x 200

Zhang Jianqiang, Globus Groupe, 2000-2002 Installazione, tecnica mista, olio su plastica, cm. 45 x 32 x 32 

Zhang Linhai, Great Wall, 2001 olio su tela, cm 115 x 150

Pan Dehai, Floating No. 1, 2002 olio su tela, cm 300 x 150

Feng Zhengjie, China No. 16, 2001 olio su tela, cm 150 x 150

Wang Gongxin, My Sun, fotogramma n. 2 da video

Chen Wenbo, Uncertain Date No. 1, 2001 olio su tela, cm. 300 x 200

Wang Gongxin, My Sun, 2000 fotogramma n. 1 da video

Zeng Hao, July 21, 2000, noon, 2002 olio su tela, cm 240 x 200

Bai Yiluo, Untitles, 2002 Fotografia, cm. 248 x 412