Incontro oggi di nuovo Naoya Takahara a tu per tu di fronte alle nuove opere quasi dieci anni dopo aver scritto del suo lavoro: Pezzi di un palazzo futuro.
Era il 1995, ed insieme restammo affascinati a Bomarzo dalla storia di un laico antelitteram come Vicino Orsini, negatore nel 1500 di tutti gli integralismi religiosi (basta leggerne le lettere, pubblicate da Horst Bredekamp) creatore a Bomarzo oltre che di un Palazzo, di un Sacro Bosco, nel quale si intrecciavano in grandi sculture sintesi e citazioni delle recenti scoperte di popoli e continenti insieme a fantasie erotiche o percettive e spazialità spaesate.
Dicevo Pezzi di un Palazzo futuro, pensando allo svelarsi – attraverso i nostri colloqui e attraverso una concertata esplorazione delle sue opere – di ciò che pareva dividere e angosciare l’identità dell’artista e dell’arte stessa: ansia e desiderio di una conoscenza universale, spaesamento, affermazione tuttavia di una conoscenza individuale, soggettiva, limitata, che potesse tuttavia essere universalizzabile.
La strana solitudine delle opere di allora, che parevano attendere, stanti “in mezzo a forze cieche e distruttrici”, proprio come pezzi di un palazzo futuro, fiorisce ora – come appare nel concludersi di questo nostro colloquio intervista – il senso dell’aprirsi di un nuovo orizzonte, un nuovo senso dell’arte.
Che sorpresa quando a conclusione dell’ultima risposta proprio la parola ORIENTE, giocata sul calembour ironico combinatorio dell’arbitrarietà del colore (rosso) delle “lettere” rispetto al “senso”, traccia la via di uscita dalle contrapposizioni antiche: geografiche? Ideologiche?
Insomma via d’uscita dalla madre di tutte le contrapposizioni: quella tra oriente e occidente.
Proprio come la proscimmietta “tarsio” dal pianeta, eccolo saltar fuori dal vicolo cieco dell’opera chiusa e del confinamento delle culture: ma come, con quali mezzi?
con lo slittamento dei piani
con lo scambio dei sensi
con il disorientamento basilare
con la pratica della discrepanza tra vedere ed essere
con le tassonomie assurde
con lo svuotamento delle trappole del senso e del consenso.
Prima domanda:ma come, una dedica “A Pasolini”, quale autore più lontano e differente!
Simonetta Lux: Titolo dell’opera A Pasolini: vi sono elencate tutte le piazze e vie che sono “nascoste” nel nome di Pier Paolo Pasolini.
Naoya Takahara: Mi sono limitato al Centro storico di Roma. Ti ricordo che Pasolini nei suoi romanzi citava sempre via tal dei tali e piazza tal dei tali”.
S.L.: La geografia e il caso:una regola apparente?
N.T.: Non è il caso né casuale. La geografia nasconde sempre i luoghi la storia il tempo le epoche.
S.L.: E questo ti disturba? Perché notarlo adesso?
N.T.: Devo dire che geografia mi ha interessato da sempre. Mi piace pensare, immaginare davanti a una carta geografica. Davanti una carta geografica, se comincio a guardare, l’immaginazione ingrandisce ingrandisco e non finisce mai. Puoi giocare col tempo o con lo spazio o con la storia. Questa cosa mi stimola.
E per creare qualcosa.
S.L.: Sembri molto diverso da un personaggio scrittore e uomo come Pasolini. Invece questa scelta mi dice qualche cosa di diverso. È una cattura “automatica” questa di questo autore?
N.T.: Pasolini lo stimo molto anche se il carattere è molto diverso da me. Lui infine vuole creare una poesia, qualcosa di poetico. Ma per fare uscire questa poesia lui deve usare un metodo volgare, delle volte. Però proprio forse a lui serviva questa brutalità per fare uscire questa poesia, qualcosa poetico.
Alla fine e senza questa poetica ha qualcosa comune con qualcuna delle mie opere. Come astrazione, come modo di fare uscire qualche cosa poetica.
S.L.: Grazie. La tua idea di procedimento mi intriga, sia nel particolare sia in generale.
Questa altra opera ha il titolo:”Errore”, poi numerata man mano che si realizza.
Questa opera in particolare è Errore 2.
N.T.: In questa opera il segno parte da destra e cercavo di fare una riga dritta perfetta, utilizzando il mouse, con il programma Paint.
S.L.: Perché sbagliavi?
N.T.: Sbagliavo perché col mouse non puoi disegnare come vuoi tu. Contro la tua volontà il mouse fa errore.
S.L.: É dunque la mediazione, rispetto al programma Paint, a farti errare?
N.T.: Si può dire di sì.
S.L.: Come si esprime, attua la volontà nei confronti della macchina?
N.T.: Di solito la macchina, l’uomo fa funzionare la macchina, qui invece è un po’ di contraddizione, più tu vuoi disegnare bene, più usando il mouse ti toglie la tua volontà di fare bene. Quindi per me è interessante questa contraddizione, la macchina ti tradisce. La macchina crea un disegno automatico.
S.L.: La macchina contrasta veramente la tua volontà o solo quella tua particolar abilità “artistica”?
N.T.: Direi che questo contrasto – che proprio ho voluto – già lo sapevo che avrei sbagliato col mouse.
Questa funzione o non funzione proprio ho preso questo metodo di disegnare col mouse perché è quasi una collaborazione con la macchina. La metodologia è mia, ma chi fa l’opera è la macchina.
S.L.: Dunque più che la “mediazione” tu senti la separazione tra la tua mano e la opera o apparizione?
N.T.: Esattamente. Perché questa opera non serviva o dovevo evitare la mano dell’autore. La mano dell’artista che crea l’opera al cento per cento.
Se ho fatto tutto con la mia volontà diventa una cosa che rimane nel mio mondo poetico.
S.L.: Invece?
N.T.: Invece con la collaborazione con la macchina diviene qualcosa di tentativo di creare un altro orizzonte.
S.L.: Grazie. Ecco un altro elemento intrigante: uscire dal proprio mondo poetico e traguardarne un altro.
N.T.: Questo è, secondo me, un tema attuale di tutta l’arte contemporanea.
S.L.: Da quando vivi o dei tempi più recenti?
N.T.: Dei tempi più recenti.
S.L.: Riguarda secondo te soprattutto il mondo della tecnologia nuova informatica in particolare?
Questo desiderio nuovo!
N.T.: Comunque le nuove tecnologie non è che mi interessano molto. Mi interessa molto di più la vita quotidiana. Ma poiché le nuove tecnologie entrano molto nella vita quotidiana, reagisco. Però sempre nel livello di vita quotidiana.
S.L.: Infatti anche le dimensioni sono le basiche: A4.
Ecco:”Fontana e T N”.
N.T.: Aperto il libro sulla pagina che spiega i “buchi” di Lucio Fontana, ho fatto diversi “Carotaggi” e con i cilindri derivati ho formato le mie iniziali (N. T.) collocandole come scultura alla base del libro mostrato aperto.
S.L.: Lucio Fontana è tra i tuoi maestri ideali?
N.T.: È sicuramente un artista che ha fatto la storia e mi lascia i suoi compiti e i suoi problemi che ha ancora da risolvere. Quindi un artista molto importante. Per questo motivo ho scelto proprio i suoi “buchi”.
S.L.: Quali problemi, intendi dire, ci ha lasciato in eredità?
N.T.: Soprattutto il problema dello spazio cioè tra bidimensionalità e tridimensionalità. Pure il problema della superficie.
S.L.: È come dire in relazione all’oggi, l’irrisolto connubio tra invisibile e visibile, tra virtualità e realtà? o è qualcosa di più, o è cosa che riguardi solo l’arte?
N.T.: Da quando ha fatto dei buchi o tagli, la tela non è più bidimensionale.
Solo che noi viviamo dopo i suoi buchi, i suoi concetti spaziali, che era un fatto rivoluzionario.
Allora adesso finalmente io posso osservare i suoi buchi con una certa distanza. E dico con gli avanzi dei buchi, forse Fontana non si è preoccupato. Poi queste bidimensionalità e tridimensionalità le uso, vedo col libro che l’accumulo dei fogli…
S.L.: Questa serie: Bottone della verità?
N.T.: L’opera è realizzabile in diversi materiali e dimensione.
L’idea è per la prima volta del dicembre 1996, quando…
A quella epoca pensavo sempre con una azione minima si cambiasse un oggetto in un altro, o da una funzione a un’altra o da un’immagine a un’altra.
L’anno precedente avevo realizzato Doppia.
In questo caso prendendo un bottone e collegando 2 dei 4 buchi appare un volto, e bocca larga. Il “bottone” è moderno, la “Bocca della verità” antica e compio quindi un salto nel tempo e del tempo, ma anche una ironia verso Lucio Fontana, poiché i buchi esistevano prima di lui.
Ora prendendo l’immagine della Bocca della verità a Roma. Io penso sempre come realizzare l’opera. Volevo accorciare la distanza tra la mia idea e l’opera realizzata, come l’idea stessa diventi un’opera. Volevo realizzare col metodo più semplice possibile, desiderando che l’idea rimanesse cruda e flagrante. Quindi prima di realizzare penso molto e faccio diverse prove per eliminare quello che non serve.
S.L.: Bottone, plastica, marmo, carta, grafite, disegno, scultura, ready made aiutato
Ecco: Pianeta, 2003, quasi l’ultima.
Materiali e tecnica: ritagliare da 20 libri circa delle corone circolari che vengono incollate ad una sfera di legno; prima del completamento dell’incollaggio alla sfera di legno vengono intagliate delle figure che rappresentano, in questo caso, animali preistorici e l’uomo primitivo (nel caso di “Globo” si tratta di animali simbolo del mondo animato del pianeta terra).
N.T.: Anche qui volevo mettere un po’ di storia del tempo.
S.L.: La scimmietta che fa?
N.T.: Si tratta della proscimmia Tarsio, che dicono sia l’antenato dell’uomo, in quanto antenata della scimmia. Per questo l’ho collocata fuori dal mondo che tenta di fuggire verso l’alto, e nello stesso tempo fa anche la guardia del mondo e osservatore.
S.L.: Perché si arrampica?
N.T.: Sulla superficie della sfera ho inciso la figura della scimmia che dunque esce fuori: così accentua “il piano” e ” il solido”, nella cui ambiguità è il concetto di questa opera.
S.L.: Perché rifletti sulle due dimensioni?
N.T.: Sempre per questa ambiguità di bidimensionalità e tridimensionalità.
S.L.: Che è una cosa tua ricorrente: penso alla serie Two seas del 1992, Il cubo e il prisma si somigliano del 1992 Due cilindri e un quadro astratto del 1990, nei quali mi pare che questa ambiguità sia in verità articolata sulla “fissità” delle parole e sulla diversa concettualità della percezione. Scegli due carte geografiche diverse e le accatasti in due colonne che appaiono uguali.
N.T.: La carta geografica è bidimensionale; accumulandola diventa tridimensionale, diventa proprio un pezzo di mare, appare così nell’immaginazione blu.
Poi questo accumulo rappresenta sempre un’idea del tempo.
S.L.:Quindi una concentrazione dell'”idea” o della “memoria” del tempo.
Isole e laghi, del 1992
Isole e laghi 1400, del 2003
N.T.: Ho intagliato i laghi e le isole simili del mondo e le ho dipinti rispettivamente di rosso e di nero.
S.L.: Li hai sovrapposti in modo arbitrario, ma la loro scala?
N.T.: In quella del 1992 ho mutato la scala portando le figure a una somiglianza di proporzione.
Invece nel 2003 ho lasciato le figure nere i laghi che sono più grandi delle figure rosse, le isole, perché? Qui non c’è sfondo di carta del globo.
S.L.: Quindi arbitrarietà totale, una sfida del tempo? Che fai, ti approfitti della storia? Cioè della antichità della carta geografica che è del XV secolo?
N.T.: No, è interessante vedere le carte geografiche di quell’epoca: hanno delle forme semplici, più grossolane, che di per sé sono già “artistiche”.
S.L.: Già arbitrarie come le tue?
N.T.: Sì, proprio così.
S.L.: Tema qui dominante mi pare il fuori scala, la sproporzione tra significante e significato, anzi francamente un’ironia sulla validità degli strumenti di mappatura convenzionale che l’uomo si è dato per controllare il mondo.
N.T.: E poi se non lo sai il titolo, in queste figure puoi vedere animali uccelli o figure strane…
S.L.: Ti piace incantarti incantarci e poi…
N.T.: Si, il “concetto” è molto importante per creare un’opera. Però se non lasci margine di immaginazione per il pubblico, allora l’opera diventa chiusa.
S.L.: Perché mi dici questa cosa del concetto, non è forse l’elemento mentale, concettuale quello che ti sta in modo dominante a cuore?
N.T.: Infatti questo concetto di “tentare” di creare un’opera è il mio, la base della mia creatività.
S.L.: In che senso per esempio quando hai iniziato, anzi raccontami del progetto incompiuto dell’università.
N.T.: L’opera era concepita così: davo un tema in ogni lezione o un metodo in ogni lezione, per tentare di fare un’opera, per esempio:
parole dentro frasi
azione minima
ingrandimento
somiglianza
l’opera ideale (l’opera che vuoi fare tu o che vuoi vedere tu)
S.L.: E poi che fai ?
N.T.: Aspettavo che le idee degli altri dovessero essere molto diverse da me.
S.L.: E invece?
N.T.: Dico questo perché ultimamente mi interessa molto di farlo entrare nella mia opera l’idea degli altri.
S.L.: E dunque ?
N.T.: Alcune idee erano interessanti e stimolanti.
S.L.: E tu dunque come procedi con le tue “tentazioni”?
N.T.: Comunque il tentativo è continuo perché solo con questo modo di fare posso continuare a creare.
S.L.: Che cosa è entrato nella tua opera dagli /degli altri?
N.T.: Per esempio, Isole e laghi, non è che l’ho fatto io, ma sono delle cose già fatte da altri.
S.L.: Quindi il ready-made non solo entra pienamente anche in te, ma diventa una filosofia relazionista?
Possibile?
N.T.: Sì, questo è vero.
S.L.: E l'”altro” che fa, accetta, si rifiuta? Di darti parte di sé, o un suo factum?
N.T.: Comunque quelli che sono venuti hanno partecipato con grande interesse attivamente. È difficile tirare fuori l’idea profonda degli altri
Perché l’uomo adulto è pieno di preconcetti, e il mio compito di fare “tentativo di opera” è annullare tutto ciò.
S.L.: Da quando sei consapevole di questo tuo ruolo come artista?
N.T.: E comunque un fatto recente. Per me è un grande cambiamento Di non rimanere solo nel mio modo di pensare.
S.L.: E perché? Per quale ragione? Di questi tempi…
N.T.: Per non finire di continuare a produrre le opere varianti. Cioè non produrre opere le stesse opere con variazioni.
S.L.: Per non fare uno stile! certo questo tu non l’hai fatto neppure prima.
Ti ricordi, Breton nel 1924 sceglie Picasso come “surrealista” nel concetto, come colui che non ha avuto paura di cambiare “lasciando fuggire la preda per l’ombra”, rischiando tutto pur di non ripetersi!
Vedo però qualcosa di più, infatti cominci con un poeta a fare questo gioco (Pasolini), come per entrare tu in un luogo di lui che neppure lui conosceva!
Così con i geografi, con i matematici, con gli scrittori, alla fine con gli studenti.
N.T.: Insomma, ora mi sento di arrivare e incontrare. Un punto morto importante di senso più profondo dell’unità tra cultura occidentale e quella orientale. Io di solito non penso questa cosa. Non penso di essere un artista giapponese. Ora mi sento tuttavia di arrivare a un punto ben amalgamato, a un senso unitario!
La generazione precedente gli artisti giapponesi pensavano sempre questo punto di scontro tra oriente e occidente. Io non ho mai avuto questo problema, perché cercavo delle cose comuni che abbiamo come uomo, per natura.
Dunque un senso unitario, un senso comune del pensiero dell’uomo.
S.L.: Ma ecco l’ultima opera che discutiamo. Ma come, “Oriente?”
N.T.: Diciamo autoironia.
Sono ben sempre nato e educato in oriente, ma l’opera che gioca sulle vocali e consonanti contenute nella parola “oriente” (e che nello scrivere l’autobiografia scrivo rosse ogni volta che ricorrono nel testo di essa).
S.L.: Non sarebbero più appartenenti all’ “oriente” di quanto non appartengano agli antichi popoli “etneori”!
N.T.: Si, magari!
Simonetta Lux, 1/7 gennaio 2004
Pezzi di un palazzo futuro
di Simonetta Lux
Potremmo rivolgere all’opera di Takahara l’aforisma del suo primo maestro del tempo degli studi tra il 1972 e il 1976, all’Università d’arte Tama di Tokyo, il grande artista del Mono-ha Lee Ufan:
“In verità il lavoro del pittore, invece di dare pace alla mente e serenità alla gente, è tutto volto ad esplorare in che misura lo sguardo della gente possa essere distolto dalle cose che essi hanno sempre creduto essere la realtà”.[1]
La questione di un’arte che non consoli, che non rispecchi, che non sia manipolatrice di consenso, che non illuda, e che invece sia organo di un libero giudizio sul mondo che ci circonda, è in verità al centro di tutta l’esperienza artistica del secondo dopoguerra, sia in occidente che in oriente.
Postasi, negli anni dell’Informel, come questione della crisi non solo politica ma culturale generale delle società uscite dalle dittature tra le due guerre, essa diviene a partire dal finire degli anni cinquanta una questione che riguarda il regolarsi dei rapporti tra l’uomo e la società della produzione industriale avanzata e di massa, per divenire poi, dalla metà degli anni Settanta, problema della condizione dell’uomo nel mondo della pressione della comunicazione audiovisuale planetaria.
Naoya Takahara appartiene a questa ultima generazione, che trova già profondamente rivoluzionato lo statuto stesso dell’arte e della sua filosofia, permanendo una profonda inquietudine verso il proprio mondo e come un senso di umana insoddisfazione sensuale nei modi di relazione non solo con esso, ma anche verso tutto il patrimonio culturale ereditato dalle esperienze della forte generazione precedente. A ciò si aggiunga anche un desiderio di riconoscimento dei valori della tradizione teorica ed artistica più antica, dalla classicità al Rinascimento, di cui avevano fatto tabula rasa le avanguardie storiche e le neo avanguardie del secondo dopoguerra che avevano voluto la nascita di una nuova langue dell’arte.
Nella Tokyo della prima metà degli anni Settanta, dove Takahara compie la sua formazione, indubbiamente il polo di attrazione più forte è il movimento, maturato intorno al ’69 – ’70, detto della “Scuola delle cose”: Mono ha, dal quale peraltro Takahara si differenzierà in modo sostanziale. Proprio nell’Università Tama insegna Lee Ufan, una figura artistica e teorica altamente significativa del movimento stesso. Né il Mono ha né Lee Ufan erano allora apprezzati e famosi come oggi [2 ], ma assai significativi nell’ambiente artistico e per chi voleva capire. Se l’insegnamento di Lee Ufan, niente affatto tecnico ma tutto concettuale e riflessivo, un po’ leonardesco, rappresenta l’iniziazione alla posizione mista di fascino e repulsione per il mondo dei prodotti della società industriale e alla ricerca, peculiare del Mono ha, per elaborare un proprio linguaggio artistico attraverso le cose.
Quali Cose? Tutte, siano oggetti industriali o manufatti o materie naturali o semilavorate.
Si usano le cose date come tali, e poste in relazione tra loro o con l’ambiente, ma senza creare opere come prodotti artificiali o “artistici”. Ogni cosa o materia è se stessa ma anche forma: una superficie (pelle, macchia, fessura) è superficie in quanto oggetto reale, ma anche superficie come superficie pittorica.
La ricerca, che scandisce la propria diaspora dall’idea della pittura in senso tradizionale, va tuttavia anche oltre le cose stesse: nel luogo del loro incontro con l’esistenza e per un potere che è al di lì di se stesse (le cose fisiche sono sostituibili), cioè per ciò che evocano e per ciò che nascondono (la strutturalità invisibile, ad esempio, assente).
L’affermazione della discrepanza tra vedere ed essere affermata prima da Jiro Takamatzu e poi da Lee Ufan, comporta una sfiducia verso la realtà e i suoi valori costituiti e un basilare orientamento a convertire “l’ambiguità del vedere” in “scoperta dell’essere”. È proprio Lee Ufan che critica l’importanza data dall’occidente all’ ‘oggetto” e auspica la “trasparenza dell’esistenza”. Il suo percorso eccentrico sulla via del rapporto tra cosa e manipolazione della visione, la ricerca dell’assenza come medium (cioè quell’elemento invisibile che è presente nelle ombre, nelle immagini, nelle configurazioni spaziali) significa avviare alla coscienza critica e al superamento dell’attitudine intellettualistica alla manipolazione.
E tuttavia ribadisce, nei suoi colloqui, che è la manipolazione intellettuale della realtà a far riconoscere la separazione tra il vedere e l’essere e restituire così all’individuo spirito critico contro la manipolazione di sé, come avviene grazie all’operazione artistica. Il giovane Takahara ha tuttavia un altro punto di riferimento, che lo sottrae se non alla filosofia alla langue, della Scuola delle cose: è la cultura italiana dei primi anni Sessanta (antecedente alla nascita dell’Arte Povera) cioè la scuola concettuale di Giulio Paolini, Piero Manzoni e, da Roma, la Scuola di Piazza del Popolo, in particolare le figure (conosciute attraverso esposizioni e testi) di Sergio Lombardo, Maurizio Mochetti, Tano Festa.
Questo polo di riferimento è assunto da Takahara non come “modello”, ma come un “ponte” verso la misura classica delle fonti rinascimentali dell’arte e con l’occhio “tagliato” di un giovane che sta nell’età post-industriale. Naoya Takahara lascia le “cose” alle sue spalle, reinterroga i mezzi antichi (la pittura) lungamente sfidati dai suoi stessi maestri. Se reimposta lo statuto dell’arte lo fa nella coscienza della propria peculiare condizione storica, lo impone come relazione concettuale tra cose e immagini, e tra sé e le cose. Naoya reintroduce così prepotentementi, dagli inizi del suo lavoro a Roma alla fine degli anni Settanta, tanto la questione della pittura e della superficie (accanto a quella dell’oggetto plastico ) – insomma la questione del “fare” – quanto la questione dell’esistente e dell'”essere esistente”.
Già in una serie, della fine degli anni Settanta, di pitture modulari, Senza titolo, Naoya Takahara trasforma la percezione del più tipico oggetto ambientale romano, la finestra a persiana semiaperta (che già piacque a Duchamp e poi a Tano Festa), in una figura geometrica modulare ad Y, che poi organizza a collage o ad acquerello come una serie di variazioni cromatiche su tinte tenui, dichiarando, per così dire, la netta separazione dalla sua percezione attrattiva della cosa dalla realizzazione artistica (rompe il legame con la fonte generatrice, lasciando solo nel fare una traccia iconica dematerializzata).
E nella serie Senza titolo iniziata nel 1985 ed esposta a Roma in una mostra dal titolo significativo LEGNO, organizza un po’ “neoplasticamente” ma da dentro una condizione post-moderna, dei quadrelli di legno dipinto a acrilico in vivaci colori non primari, come uno strutturalismo “minore”, che annuncia la sua attrazione, vero e proprio amore, per la geometria ed i volumi elementari. Come una memoria del Costruttivismo, “scaricato” dell’ideologia storica produttivistica che nutriva il movimento russo negli anni venti. Solo quel titolo fugace, “legno”, segnala un interesse primario per la materia, che sarà soggetta ad una cura e ad una manifattura esecutiva dall’apparenza “meccanica”, come se Takahara ribadisse il contesto in cui opera (il mondo della tecnologia), ma ne recepisse solo delle “qualità” astratte (misura, ordine, perfezione), smaterializzandole.
Il “fare”, il piacere dell’esecuzione, che come sappiamo è stata una peculiarità delle nuove generazioni artistiche a partire almeno dalla fine degli anni Settanta, si presenta in Takahara come fattura essenziale e precisa, non emotiva, dapprima con timidezza, come nell’opera del 1988, Senza titolo, legno e acrilico su tela, nella quale una tela dipinta di bianco è incapsulata in un sistema di strutture elementari di legno, che sono come risultato di una specie di movimento e di prolungamento – continuamente interrotto – del telaio appunto di un quadro, quasi ad indicare una componente nascosta di energia nei quadri, nella materia, negli oggetti.
Il ritorno al “fare” è la principale trasgressione di Takahara rispetto alla “Scuola delle cose” ma anche rispetto a quella cultura italiana del concettualismo e della materia controllata ” classicamente” (pensiamo agli achromes di Manzoni, ai concetti spaziali di Fontana,ai legni di Burri), che pure lo aveva attratto lontano dal suo paese.
Tuttavia l’interesse per le “cose” persiste in Takahara ma per “cose” diverse. L ‘artista “cosalizza”, trasforma in “cose”, figure geometriche, volumi plastici elementari (il cilindro, il parallelepipedo, il cubo), il “quadro” stesso, immagini standard della comunicazione sociale (carte geografiche), attraverso una ideazione di “complessi plastico-concettuali” nei quali enuncia il gioco ambiguo e contraddittorio del rapporto tra immagine e oggetto e tra noi e la realtà: privilegiando l’arte come via alla conoscenza di tale ambiguità del reale e facendo dell’illusionismo della pittura una arma per districare tale ambiguità.
Due cilindri e un quadro astratto (1990, legno, cotone,acrilico) è un’opera costituita da un oggetto/bicilindrico (legno “dipinto” di bianco ) e di un quadro/oggetto (ma in tutto e per tutto “quadro “) nel quale è dipinta una croce irregolare, come se fosse una proiezione in sezione dei due cilindri collocati accanto.
Dico “in tutto e per tutto quadro”, poiché Takahara non usa mai la dizione “acrilico su tela” per indicare la tecnica,ma elenca sempre le “materie” con cui realizza l’opera, come se “assemblasse” un oggetto, una scultura, escludendo la denotazione di pittura.
Inoltre i quadri che fanno parte dei complessi plastico / concettuali di Takahara sono costituiti di una tela di cotone di trama molto fitta e grossa e tirati su un telaio fatto di quadrello di legno a sezione di dimensione inconsueta (4 o 5 centimetri) e incorniciati da una struttura tettonica anch’essa fatta di legno naturale sempre di quel grosso spessore: in modo tale che nel suo insieme il quadro è una combinazione plastica ed ottica fatta di una struttura plastico/ottica lignea (convenzionalmente : la ‘cornice’), che racchiude un altro oggetto plastico, il grosso cotone intelaiato, dentro il quale è una immagine: una figura geometrica nera, che in questo caso Takahara ha eccezionalmente ha definito “astratta”. La immagine non è in verità una figura geometrica astratta, ma è la figura concreta, rappresentata prospetticamente ma come in “assenza di luce”, dei due cilndri sovrapposti disposti accanto.
Immagine ed oggetto (cosa e elaborazione visuale ) entrano in tensione ed associazione integrata che avviene mentalmente e percettivamente, in un continuo slittamento da un piano all’altro.
Takahara vorrebbe, alla fine, riaffermare i diritti dell’illusionismo pittorico, anche – al limite – come “generatore” dell’oggetto plastico, e viceversa. Le due realtà separate appaiono collegabili sono attraverso l’operazione mentale che le associa: il “quadro astratto”, e in genere l’immagine dipinta, l’arte, è insomma realtà “concettualmente istituita”, che necessita di tale relazione con mondo delle “cose”, ma che si può realizzare solo in assenza delle condizioni materiali di tale realtà (immagine senza luce).
Lo sguardo trascorre sui due elementi di cui è costituita l’opera, li identifica in quanto immagine (croce) e in quanto oggetto (cilindro), finché il nostro guardare non viene intercettato dal processo mentale, distolto dalla materialità delle cose, liberato in una dimensione quasi dechirichianamente metafisica.
Così avviene anche in Cubo e prisma si somigliano,(1992), acrilico su cotone, carte stampate e legno, 230 x 190 x 41). Cubo e prisma sono dipinti in prospettiva ma senza luce, come è sempre in Takahara. Tanto è vero che dobbiamo attivarci per “leggerli ” nelle figure dipinte, che visualmente sono un ettagono e un esagono. La dichiarazione di somiglianza, già incentrata sulla apparenza della doppia dissimiglianza dell’immagine e della parola che la denota (anch’essa dipinta) e delle due immagini tra loro, si attua nel trasferimento dell’immagine nel foglio, smarginata su due lati e un angolo.
L’immagine – oggetto (il foglio con dentro l’immagine, o della sezione del cubo o della sezione del prisma) viene “incolonnata” e il colore incorporato nel supporto diventa un volume elementare, un corpo plastico che è effettivamente tale. In questa dimensione ben convivono gli ambigui statuti dei due elementi dell’opera: il quadro che tuttavia è anche oggetto plastico (diremmo scultura nel senso della ‘tradizione’ dell’avanguardia storica), l’immagine nel quadro (il rettangolo) che oltre che figura geometrica è pensabile come sezione del cilindro, il cilindro che tuttavia, oltre che oggetto plastico evolume semplice, è anche pittura, nell’accezione della manifattura artigianale ma anche della perfezione tecnica quasi meccanica della stesura.
Anche in questo ciclo di opere sottintende un concetto di energia, che sovrintende tanto alla creazione quanto alla percezione dell’opera d’arte, come Takahara la intende, un’idea di energia che riunisce in sé tanto la concezione dell’arte inscritta in Giappone nei due ideogrammi della parola “arte” che significano “bellezza” e “tecnica” quanto quella occidentale inscritta nella storia dell’arte europea del XX secolo, svoltasi a partire da Marcel Duchamp e da Giorgio De Chirico sulle linee combinate della esperienza concettuale del mondo e dello spaesamento metafisico della condizione dell’uomo nell’età della tecnica. Che la questione dell’immagine e della sua ingannevolezza rispetto al reale e la segnalazione dell’ambiguo processo di scambio sempre in atto tra realtà e immagine sia questione centrale nella storia di Takahara e del suo relazionarsi al mondo della tecnica e della apparentemente “certa ” comunicazione per modelli, ha ancora evidenza in opere come Cubo e prisma si somigliano (1992, acrilico su cotone, carte stampate e legno) o in Senza titolo (1991, cotone, acrilico, carta, tecnica tipografica).
Quest’ultima opera è composta di cinque elementi, un quadro e due aggregati plastici ciascuno di due elementi (due pile di fogli di carta A4 di diversa quantità e altezza, poggiati ciascuno su una colonna – cilindro trasparente di perspex con base di perspex a forma di corona di cerchio o di sezione orizzontale di un cilindro e con piano rispettivamente di perspex o di metallo).
Il pentagono rettangolo dipinto sulla tela è fatto stampare, in formato minore, dall’artista su fogli di carta: 7000 fogli in blu e 6000 in nero, in modo tale che i due lati ortogonali del pentagono siano scontornati e corrispondano a due lati di ciascun foglio corrispondendo con uno dei suoi angoli.
I fogli disposti l’uno sull’altro, con la corrispondenza dei lati scontornati, danno luogo a un parallelepipedo di carta che presenta su due delle pareti due rettangoli rispettivamente blu e neri.
In sostanza il sovrapporsi delle immagini orizzontali del pentagono danno luogo a un parallelepipedo, cioè a un oggetto plastico, che ci segnala di contenere in sé un solido irregolare dalle pareti perpendicolari, che scopriamo avere per base un pentagono rettangolo solo guardando sull’immagine stampata sul foglio superiore della pila di carta.
Tale immagine è anche la sezione del solido.
Ancora una volta è affermato, ambiguamente e metafisicamente, il ruolo dell’immagine dipinta per istituire una realtà fisica e plastica virtuale e reale nello stesso tempo.
Nel ma, come abbiamo visto, la pittura c’è, il quadro mai: dunque questa eliminazione della pittura (ancora in Isole nel mondo e Laghi nel mondo: acrilico su carta) è l’approdo alla relazione di sé col mondo, non solo tramite la percezione visuale (che ha integrato con la azione energetica e metafisica concettuale), non solo tramite il rapporto illusionistico-mentale (che ha integrato con perfezione meccanico-artigianale della stesura e della esecuzione, nel perenne gioco di ambiguità che caratterizza questo artista) ma anche con una specie di invisibile movimento dell’immagine verso/dentro l’oggetto oppure dell’oggetto verso/dentro l’immagine, una specie di concettualismo “metafisico”. E qualcosa di “metafisico”, anzi di “neo-metafisico”, come un gioco della casualità e dell’assurdo vigente tra denominazioni e immagini apparentemente indiscutibili, è all’opera nei lavori degli ultimi anni di Naoya Takahara, come in Isole nel mondo del 1992 (acrilico su carta, 70 x 100) e in Laghi nel mondo del 1992 (acrilico su carta, 70 x 100).
Sono due opere abbinate.
Naoya Takahara ha scelto le isole e i laghi dalle sagome più simili e le ha collocate come astratte figure sulle sagome sovrapposte e ritagliate anch’esse dei continenti dell’emisfero orientale e dell’emisfero occidentale.
Tassonomie assurde, che rimandano alla irriconoscibilità delle differenze e delle uguaglianze peculiari della cosa pensata (i laghi, le isole). Nell’arte la figura o l’immagine, che non si vuole più riproduttiva e non può essere geografica, annulla le differenze.Il pensiero del mondo non è pensiero delle sue “categorie” o definizioni geografiche, ma vuol dire, nel messaggio più segreto di Takahara, essere cittadini del mondo – e non di una Nazione o Stato e o Religione.
D’altronde cercare la similitudine tra cose dissimili non è forse la via di uscita dalle tensioni nazionalistiche e fratricide?
Questo carattere araldico della forma e del figurare è d’altronde un’altra memoria della cultura recente: non dimentichiamo che i percorsi nel monocromatismo e nella figurazione araldica, senza spessore di fattura o di gesto pittorico, rappresentarono per la generazione importante di artisti europei della fine degli anni Cinquanta-inizi degli anni Sessanta l’uscita dalle inquietudini dell’ informel ed anche il definitivo congedo da una arte di contenuti e di significati che nel recente passato era stata indirizzata retoricamente a fini extra libertari ed extra artistici.
Cioè a fini di condizionamento della personalità sin dal primo apparire dei mezzi di comunicazione di massa.
Lo svuotamento di tali trappole del consenso è stato il gesto più significativo dei giovani di allora che, seppure privi della esperienza diretta delle dittature, avevano intuito la necessità di questa liberazione delle forme, senza per questo ripercorrere i sicuri e annoianti sentieri dell’astrazione geometrica.
Purificazione, semplificazione, svuotamento aveva voluto dire (e vuole dire per Takahara) anche la esibizione dei grandi percorsi mentali del piccolo, ma mentalmente ben attrezzato, uomo post-moderno ed anche la tensione di gesti semplici e non retorici, che sono oggi “la misura di tutte le cose”.
Con Conoscenza del mondo, del 1994, la parola e il concetto sono identificati con una Enciclopedia, nel cui corpo, nella cui oggettualità, viene ‘scavata’ un’altra conoscenza del mondo: in quanto artista, scava e ritaglia nella carta del volume la sagoma convessa, piena e in rilievo delle terre e la sagoma concava, vuota, dei mari. È un ritagliare,incavare, sagomare che, come forma di “sapere” peculiare quale quello dell’arte, non intacca le pagine fino al punto della scrittura, cioè si ferma lì dove si dà una diversa forma di conoscenza.
Nell’ultimo anno, Novecento e Doppia, rinviano a ciò che oggi divide ed angoscia l’identità dell’artista e della sua opera: ansia e desiderio di una conoscenza universale, spaesamento, affermazione di una conoscenza individuale, soggettiva, limitata, che possa tuttavia essere universalizzabile.
Doppia, del 1995 (legno,macchina da scrivere,135 x 71 x 80) è un insieme costituito di due sedie, di cui una di dimensioni comuni, l’altra sovradimensionata, fino a trasformarsi in “tavolo” dell’altra. A confermare questa sua funzione, su di essa è posta una macchina da scrivere, un po’ antica, con dentro un foglio sul quale è dattiloscritto:
“Ho fatto una sedia
L’ho ingrandita fino a diventare il mio tavolo ideale.
Era alta quasi doppia .
Naoya Takahara “.
Perché una sedia al posto di un tavolo, a fungere da tavolo?
Perché quella approssimazione – dice infatti: “alta quasi doppia”, proprio nei dati tecnici, dimensionali? Un po’ di ironia, di leggerezza. I materiali sono sempre gli stessi perfettamente e secondo loro natura lavorati. È sempre quel pallido legno di abete, che serviva per il telaio delle prime tele dipinte, che fuoriusciva nei “legni ” dell’ ’88, che faceva da cornice (o da ‘non-cornice’) al cotone dipinto e che ora serve per la creazione di un oggetto, funzionale al mondo limitato dell’azione di un individuo e che l’artista genera come da dentro la sua arte, da dentro la sua tecnica, da dentro la sua azione, da dentro una quotidianità spaesata.
Come Mobili nella valle di Giorgio de Chirico, o un ritorno agli anni dell’infanzia, quando, come dice Breton, ancora si può sognare?
Scrive De Chirico nel 1927 [3]:
“Si è notato sotto quale aspetto singolare si mostrano letti, armadi a specchi, tavoli quando si vedono all’improvviso… in un ambiente in cui non siamo abituati a vederli. I mobili ci appaiono allora in una luce nuova, sono rivestiti di una strana solitudine; una grande intimità nasce tra loro. Mobili abbandonati in mezzo alla grande natura, è l’innocenza, la tenerezza… in mezzo a forze cieche e distruttrici”.
Doppia è nella grande “natura” del mondo tecnologico e informatico, con una sua strana solitudine “in mezzo a forze cieche e distruttrici”.
Pezzi di un palazzo futuro.
** Saggio pubblicato in Naoya Takahara, Avivson, Londra, 1995.
NOTE
1. Lee U Fan, Bijutsu Shuppan-Sha, Tokyo, 1986.
2. Toshiaki Minemura, Che cosa è stato il Monooha?, in AA.VV., Monoha. La scuola delle cose, Mondatori_De Luca, 1988, pubblicato per la mostra al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza” diretto da Simonetta Lux.
3. Giorgio De Chirico,Statues, Meubles et gènéraux, in “Bulletin de l’Effort Moderne”, Parigi, 1927.