Diamo un po’ di numeri: 3 sezioni ufficiali –Esposizione internazionale, Esposizioni individuali (Africa, Diaspora e Mondo) e Design. Trentasei artisti esposti nella sezione principale di Dak’Art 2004, l’Esposizione Internazionale dedicata ai soli artisti di nascita Africana (ma residenti anche in altri continenti).
Centotrentasette spazi aperti all’arte contemporanea, in tutta la città, oltre agli spazi ufficiali: negozi, alberghi, gallerie, caffé, case private, ex industrie, centri culturali e studi di artisti hanno accompagnato le iniziative di Dak’art Off, il contenitore delle attività parallele alla kermesse.
Circa 925.000 euro di budget messi a disposizione dal Ministero della cultura senegalese e da vari enti internazionali per l’organizzazione dell’evento.
Quest’anno la gestione dell’intera manifestazione è stata affidata a un Comitato Internazionale di selezione, costituito da critici e direttori di musei e centri d’arte contemporanea africani e non, e presieduto da Sara Diamond, la direttrice del Banff New media Institute di Banff, Canada. Il comitato, che si è riunito a Dakar già da gennaio scorso, ha selezionato i dossier di più di trecento candidati che hanno risposto all’application form di partecipazione aperto ad artisti di nascita Africana: pochi forse considerando l’intero continente africano ed anche tutti gli “africani della diaspora”, residenti nel mondo; un numero ragionevole constatando il limite costituito dalla scelta dell’application form in un continente in cui l’accesso ai mezzi di comunicazione è così limitato.
Nonostante le critiche latenti sull’organizzazione, sulla metodologia scelta per selezionare i partecipanti e sull’imponente presenza di artisti che usano media iper-tecnologici, avvantaggiati “forse – da una scelta fatta a tavolino che ha sfavorito a detta di molti artisti del continente davvero interessanti, la Biennale di Dakar si presenta come la manifestazione più significativa dell’Africa Sub Sahariana dedicata all’arte contemporanea. Significativa soprattutto per la volontà programmatica di diventare il simbolo, anche politico, di un’unità Africana che passa per la cultura.
Lo dimostra anche l’interesse occidentale, ben riconoscibile per l’importante presenza di finanziamenti europei (che sin dai primi anni hanno spinto affinché Dak’Art diventasse una Biennale prettamente panafricana) ed alla grande partecipazione di critici provenienti da tutto il mondo, che vedono in Dak’Art uno degli sfoghi principali del dibattito sull’africanità della cultura del continente.
Esiste, ed è corretto parlare di una cultura Africana? In caso affermativo, da cosa è rappresentata? Che ruolo hanno gli artisti africani residenti all’estero? Che ruolo ha la cultura coloniale? Chi veramente può occuparsi, in maniera scientifica e distaccata delle culture contemporanee del continente? Perché l’Occidente si ostina a interpretare la produzione culturale del continente come un prodotto da mostrare nei musei etografici? Sono più africani quei fortunati che hanno avuto la possibilità di studiare all’estero, ed apprendere quindi un modello culturale altro rispetto all’originario, o gli africani che vivono nei villaggi, fanno ogni giorno chilometri e chilometri per riempire una brocca d’acqua e non hanno la possibilità di girare per il continente?
Il percorso parte da un incontro – illuminante – con Simon Njami,Mr. Revue Noire, il periodico edito a parigi che dal 1989 al 1999 ha contribuito a delineare un profilo della creazione africana contemporanea. Mi muoverò poi alla mostra Afrika, curata alla Biennale di Dakar dal critico ivoriano Yacouba Konaté, per arrivare a scoprire, dopo un concerto universitario, uno degli universi del continente africano urbano: PBS, il primo gruppo rap del Paese – e del continente – a raccontare un’altra Africa a noi occidentali.