I primi anni del nostro secolo sono stati fondamentali per la storia della penisola messicana.
La lenta evoluzione da paese agricolo a stato moderno ed industrializzato; i brusca e logorante rivoluzione (1910- 1920); l’ascesa delle classi borghesi alla guida del Messico post-rivoluzionario; la scoperta di un mondo sommerso e dimenticato: le radici pre-ispaniche e la cultura popolare. La nascita del muralismo messicano è profondamente calata in questo contesto. Come per i conquistadores del Cinquecento lo sbarco sulla costa messicana coincide con “…la scoperta che io fa dell’altro…”, così anche per l’élite intellettuale messicana la rivoluzione è l’occasione di conoscere un mondo rimasto per anni nascosto. Le masse che durante la rivoluzione entrano in scena in modo imponente sono osservate e interpretate dagli artisti, la loro storia e le loro tradizioni (identificate da quegli anni in poi con le tradizioni dello Stato Messicano) sono narrate sui muri degli edifici delle grandi città. La cultura ufficiale fa propria questa scoperta. In primo luogo a scopo didattico: il nuovo Messico nato dalla rivoluzione deve conoscere le proprie origini. Ancora oggi un abitante della capitale o di una delle ricche città industriali del nord riconosce a malapena di essere concittadino di uno degli indios che abita le verdi regioni del sud e che segue ancora il modello di vita comunitario che proviene dall’antica cultura maya.In secondo luogo questa scoperta viene finalizzata alla costruzione di un’identità nazionale. Solo nei primi anni i due fattori si mantengono in equilibrio, e le ricerche espressive e le sperimentazioni degli artisti sono ancora libere da vincoli ufficiali troppo stretti. Dagli anni Quaranta il muralismo diventa un’arte di regime. Per questo motivo si prenderanno in considerazione solo gli anni Venti e Trenta, analizzando la prima commissione pubblica, la Escuela Nacional Preparatoria decorata dal 1922, e gli sviluppi successivi tenendo conto soprattutto delle relazioni che Orozco, Rivera e Siqueiros manterranno con l’estero.
Gli Stati Uniti in primo luogo, in cui tutti e tre vivranno negli anni Venti, ed il resto dell’America Latina che si rapporterà all’esperienza messicana in fasi storiche particolari. 

 

La scoperta che “io” fa dell’ “altro”
di Lucrezia Cippitelli

Durante i primi tren’anni del XX secolo, il Messico è una meta particolarmente ambita tra gli intellettuali occidentali. Già dagli anni Dieci è la rivoluzione ad attrarre giornalisti e scrittori; il Messico di questi anni possiede un altro innegabile fascino, quello del paese in lotta per la propria emancipazione. “…The Mexican Revolution was the first in this century of revolutions; Mexicans the firs people in this era to break through, tear apart the old constricting structures, and literally pull themselves up by the roots, to make a more just, humane and rational society…”, recita l’introduzione del saggio di Anita Brenner, Idols behind altars, che porta come sottotitolo: Storia dello spirito messicano.
Il saggio, scritto negli anni Venti dopo un lungo periodo di permanenza in Messico, è stato pubblicato a New York nel 1929. Percorrendo le tappe storiche della regione messicana, viene individuata l’esistenza di un’identità culturale messicana (lo spirito messicano), latente, che attraversa tutte le epoche manifestandosi nell’arte, nelle tradizioni popolari, nelle espressioni culturali e tradizionali di tutti gli abitanti della regione. L’autrice sottolinea come la rivoluzione del 1910 abbia avuto un ruolo fondamentale nel disvelare questo spirito messicano, che diverrà poi il nucleo centrale per la costruzione di un’identità nazionale.

Il saggio, scritto quasi contemporaneamente agli avvenimenti che cambiano il corso della storia messicana, si basa su una visione interdisciplinare della storia culturale messicana e per la prima volta nella storiografia sottolinea il ruolo centrale della rivoluzione. Quest’assunto importante verrà ripreso negli anni successivi da Octavio Paz che parlerà di Révolution come Révelation: “…La Révolution du Mexique ne fut rien que la dècouverte du Mexique par les mexicains…”, rivelazione delle radici culturali dello stato messicano, che affondano nella recente storia coloniale e soprattutto nelle cultura precolombiana, che improvvisamente appaiono in tutta la loro importanza agli occhi dei messicani. Della rivoluzione messicana ci parla John Reed che tra il 1913 ed il 1914 è, come giovane inviato del New York Post, in Messico al seguito degli insorgenti di Pancho Villa che accompagna in guerra. Gli articoli che scrive per il suo giornale sono l’ossatura centrale su cui si basa il libro Insurgent Mexico, pubblicato a New York nel 1922. Di tutt’altro genere la visione dello scrittore David Herbert Lawrence, in Messico dal 1923 per lavorare ad un romanzo sull’incontro tra la cultura europea- statunitense con quella messicana (qui rappresentata con la sopravvivenza degli Aztechi nel Messico moderno). Sguardo molto diverso da quello di Reed, nel Serpente Piumato Lawrence ci immette in una realtà esotica e spirituale, che pare non aver risentito della cultura occidentale. I documenti esaminati in seguito appartengono ad un periodo particolare della storia europea: gli anni del crollo della Repubblica di Weimar e dell’ascesa del nazismo, della sanguinosa Guerra Civile Spagnola, dell’autoritarismo stalinista in Unione Sovietica. Per gli intellettuali europei dissidenti, il Messico incarna in questi anni l’idea dell’isola democratica in cui rifugiarsi “…Nel periodo tra le due guerre il Messico esercita una grande attrazione per gli intellettuali francesi. Durante i sette anni della presidenza di Lázaro Cárdenas (1934- 1940) il Messico è un’isola democratica in un mondo che va alla deriva. L’asilo politico che Cárdenas concede a Trotskij è una piccola, ma importante, manifestazione della liberalità e dell’indipendenza di un governo…”. Dopo la rivoluzione del 1910, infatti, il Messico è governato da un partito che si dice successore della rivoluzione; a fasi alterne questo partito porta avanti una serie di riforme finalizzate a rendere il paese uno stato moderno e dotato di una propria identità culturale. Majakovskij è in Messico nel 1924. La mia scoperta dell’America, è il diario del viaggio che compie tra il 1924 ed il 1925 nel continente americano. Messico è il titolo del capitolo dedicato all’unico stato dell’America Latina che “scopre”. Appassionato della storia recente del Messico e dei suoi abitanti, il reportage del poeta russo apre anche una riflessione sul rapporto tra l’avanguardia europea e la cultura messicana di quegli anni: non era possibile la comprensione reciproca, rappresentando entrambe troppo peculiarmente due tipi di società molto differenti. In Messico la via del rinnovamento dell’arte e della rottura con le regole passa inevitabilmente per il fatto politico (la rivoluzione); non può che esserne espressione un’arte che cerchi di coinvolgere la maggioranza delle persone (gli abitanti degli stati più poveri e lontani dal centro, Città del Messico, esclusi fino a quel momento dai circuiti culturali). La pittura sui muri degli edifici pubblici assume, dopo la rivoluzione, una funzione comunicativa e didascalica, funzione che negli anni avev precedenti aveva già assunto anche la stampa popolare, diffusa in tutti gli strati della popolazione, di cui José Guadalupe Posada è stato il personaggio più rappresentativo insieme a José Clemente Orozco negli anni successivi. Nel 1927 Max Ernst e la sua compagna visitano il Messico, decidendo di stabilirvisi per un breve periodo. Tra il 1931 ed il 1932 anche Ejzenstejn percorre il Messico da “nord a sud, da est a ovest” (come viene spiegato nell’introduzione del film- documentario Que viva México!) guidato da Rivera, Siqueiros ed Orozco, alla ricerca di materiale per il suo film americano che non vedrà mai montato.
Antonin Artaud, rotti ormai da dieci anni i legami con il gruppo surrealista, nel 1936 va nella zona desertica centro- settentrionale del Messico per studiare i riti legati all’assunzione del peyote tra la popolazione tarahumara e per cercare “…una nuova idea dell’uomo”. Quando nel 1936 Diego Rivera chiede asilo politico per Leon Trotskij, il presidente Lazaro Cardenas, fautore di una politica di modernizzazione economica e leader del Parito Rivoluzionario Nazionale tornato al governo dopo gli anni della dittatura militare di Plutarco Calles, non esita a concederglielo. Il viaggio di Andrè Breton in Messico coincide con il periodo in cui Trotskij vi è ospite. L’incontro con “…l’uomo che fu la testa della rivoluzione del 1905, una delle due teste di quella del 1917…e le cui opere fanno più che istruire poiché spingono a drizzarsi…”, la redazione del Manifesto per un’arte rivoluzionaria e indipendente e la fondazione del F.I.A.R.I. (“Federazione Internazionale dell’Arte Rivoluzionaria e Indipendente”), l’inaugurazione di un’Esposizione Internazionale del Surrealismo a Città del Messico nel 1940 sono i fatti salienti di questo viaggio. Tornato in Francia, Breton parla del Messico come “paese surrealista” in ogni suo angolo, ricorda e loda Frida Kahlo definendola pittrice surrealista.

Méssages messicani di Antonin Artaud
di Lucrezia Cippitelli

Una chiave di lettura fondamentale per avvicinarsi al Messico è l’esperienza messicana di Antonin Artaud, di cui ci sono rimaste numerose testimonianze scritte: le lettere al suo amico Jean Paulhan, gli articoli pubblicati durante la permanenza nel paese comparsi sui giornali messicani, la cronaca del viaggio nella Sierra degli indios Tarahumara. “Je suis venu Au Mexique chargé d’une mission du Secrétariat de l’Éducation nationale française. Cette mission a pour objet d’etudier toutes les manifestations de l’art théatral mexicain; […] Et c’est l’art indigène du Mexique qui m’interesse ici par- dessus tout. Pour moi, la culture de l’Europe a fait faillite et j’estime que dans le develloppement sans frein de ses machines l’Europe a trahi la véritable culture…”; in queste poche righe è forse sintetizzato il pensiero di Artaud riguardo il viaggio, le sue motivazioni e le sue aspettative. Viene infatti toccata la questione di fondo che lo spinge ad allontanarsi dall’Europa: la sua sfiducia nei confronti della cultura e della civiltà europea (che come vedremo in seguito nel pensiero di Artaud sono nettamente distinte) e nella possibilità di cambiarla. La sua testimonianza si inserisce nel filone della letteratura di derivazione più propriamente etnografica ed antropologica, che si sviluppa in Francia tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta. Seguendo le orme di Marcel Mauss e del suo Institut d’Ethnologie di Parigi, vediamo infatti in questi anni alcuni fuoriusciti dal gruppo di Breton dedicarsi a studi di carattere etnografico: Michel Leiris pubblica nel 1934 L’Afrique Fantôme, diario di viaggio e studio etnografico sull’Africa; sulla rivista “Documents”, diretta da George Bataille, compaiono saggi di etnografia di Malinowsky, dello stesso Leiris, di Mauss e di altri etnografi e ricercatori dell’Institut d’Ethnologie quali Levy- Bruhl e Rivet. Un cambio di prospettiva questo, che pone la testimonianza di Artaud ad un livello maggiore di coerenza scientifica rispetto ai racconti di viaggio della fine del secolo scorso, avvicinandolo di più agli studi antropologici e sociali che si affermeranno qualche anno dopo. Una coincidenza da sottolineare è un saggio di Bataille del 1930 intitolato L’Amerique disparue dedicato al Messico azteco, rievocazione della Tenochtitlan pre-cortesiana fastosa e decadente e dei riti sanguinari degli Aztechi. Questo articolo faceva parte del catalogo della prima mostra popolare sull’arte precolombiana in Francia, tenuta a Parigi nel 1930 e curata dall’Institut. Non è improbabile che Artaud conoscesse l’esposizione ed in qualche modo si fosse avvicinato all’argomento prima del 1936, tenuto anche conto del fatto che il primo spettacolo progettato per il Teatro della Crudeltà era intitolato La conquista del Messico. Per alcuni mesi Artaud vive a Città del Messico tenendo le sue conferenze all’università e scrivendo articoli che vengono pubblicati sui maggiori quotidiani messicani. Tutti questi scritti, secondo la sua volontà, dovevano essere raccolti e pubblicati in Francia con il titolo Messages Révolutionnaires; sono invece giunti in Europa grazie alla raccolta pubblicata in Messico nel 1962 tradotta dallo spagnolo e pubblicata in Francia nel 1971. I temi proposti dalle conferenze e dagli articoli riguardano sostanzialmente il confronto tra la cultura europea e quella messicana, ma alcuni argomenti ricorrenti sono il filo conduttore di tutta la riflessione. In primo luogo il totale coinvolgimento con la vera cultura messicana, che secondo Artaud è quella pre- colombiana, alla quale l’occidente dovrebbe rifarsi visto il suo fallimento. “…Là ou le Mexique actuel copie l’Europe, c’est pour moi la civilisation de l’Europe qui doit demander Au Mexique un secret. La culture rationaliste de l’Europe a fait faillite et je suis venu sur la terre du Mexique chercher les bases d’une culture magique qui peut encore jaillir des forces du sol indien.” La critica di Artaud alla cultura da cui proviene è totale e radicale: non basta cambiare le basi economiche e sociali per sanare una società malata, ma bisogna trasformare l’uomo. Aztechi, Toltechi, Maya, sono i custodi di questa tradizione e la loro cultura è patrimonio per l’umanità; Artaud li chiama la Razza Rossa e parla della loro Cultura Rossa come il sole e come la terra in cui vivono e non come la rivoluzione messicana che avrebbe preferito più indianista e meno marxista. Una parte degli articoli è dedicata all’analisi di alcuni artisti messicani contemporanei che, avendo vissuto e lavorato durante la rivoluzione del 1910, ne hanno anche capito la portata fondamentale, quella cioè di avere fatto “…surgir l’inconscient oublié de la race,…”. La riscoperta delle tradizioni e della cultura delle civiltà pre- colombiane è stata, come è stato accennato e come si vedrà in seguito, la conquista più importante degli intellettuali messicani d’inizio secolo; Artaud riconosce che solo pochi tra questi ci sono riusciti pienamente. A questo proposito parla dello scultore Ortiz Monasterio e della pittrice Maria Izquierdo. Ogni carattere che in Messico Artaud riconosce legato alla cultura europea malata e decadente è da abbandonare, anche le esperienze messicane troppo vicine ad essa; “…Je suis venu Au Mexique pour fuir la civilisation européenne, issue de sept ou huit siécles de culture bourgeoise, et par haine de cette civilisation et de cette culture. J’esperais trouver ici une forme vitale de culture et je n’ai plus trouvé que le cadavre de la culture d’Europe…”. Una posizione così radicale porta necessariamente a delle scelte intransigenti: è per questo che dopo alcuni mesi di soggiorno a Città del Messico Artaud si allontana dalla città e prosegue la sua ricerca nella sierra dei Tarahumara, situata nel Chihuahua, la regione desertica centro- settentrionale del Messico. I testi che ricostruiscono l’esperienza dagli indios Tarahumara, sono stati scritti nell’arco cronologico di circa dodici anni; pochi risalgono al periodo passato in Messico. La maggior parte sono racconti ed interpretazioni postume, scritte durante il periodo di internamento nell’ospedale psichiatrico di Rodez. La ricostruzione di questo periodo è talmente incerta e frammentaria che si è avanzata l’ipotesi che Artaud non abbia mai messo piede nella Sierra, tenuto conto soprattutto delle difficoltà per arrivarci, e che l’intero racconto fosse un sogno del poeta. Tralasciando quest’ipotesi, in questa sede è più importante capire quale sia stato il senso di quell’esperienza. La risposta è, forse, nel testo Le rite des rois d’Atlantide in cui viene descritto un rito sacrificale a cui l’autore assiste dopo il lungo viaggio fatto da Città del Messico ed il sofferto periodo di disintossicazione dall’oppio necessario per prepararsi al peyote. Ricordando che nel Critia, Platone descrive un rito molto simile a questo, Artaud giunge ad ipotizzare che esiste un sostrato culturale comune a tutte le civiltà, anche lontane nello spazio e nel tempo, tesi che del resto ha ampiamente ribadito nei suoi Messages. L’esistenza di questa “…sorgente favolosa e preistorica…” comune a tutti gli uomini è ciò che Artaud stava cercando nel suo allontanamento dall’Occidente. Ciò di cui il mondo moderno ha bisogno per colmare la perdita della dimensione spirituale e magica, perdita dovuta al progresso ed alla volontà della civiltà contemporanea di ancorarsi strettamente alla vita fisica e materiale. Il viaggio di Artaud si esprime dunque come ricerca, in cui si risolvono le riflessioni condotte negli anni precedenti sull’uomo e sulla società; il Messico rappresenta il solo luogo in cui questa ricerca può essere condotta. Gli indios rossi, i custodi del rito del ciguri (il peyote), la Razza- Principe, come essi stessi si chiamavano, sono per Artaud l’ultimo tramite tra l’occidente e la natura; la sola possibilità di salvezza per la società europea degli anni Trenta che sembrava intenta all’autodistruzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andé Breton, Diego Rivera e Leon Trotskij a Città del Messico nel 1937