Carlo Michele Schirinzi
(Tricase, Lecce – 1974. Vive e lavora ad Acquarica del capo, Lecce)

Mostre personali
Galleria Paolo Erbetta, Foggia, 2002
“Elegia del reduce”, Momarth, Matera, 2004
“Preludi / Forpleis”, Museo Laboratorio d’arte contemporanea, Università di Roma “La Sapienza”, 2005
Galleria d’arte moderna di Bologna – Spazio Aperto, 2005
Principali mostre collettive
“AccentoAcuto”, Centro Arti Contemporanee Pescheria, Pesaro, 2001
Quadriennale Anteprima, Napoli, 2003
Biennale Adriadica S. Benedetto del Tronto, 2004
“Riparte”, Ripa Hotel, Roma, 2004
“G.A.P.”, Bari, 2004 (premio per il video “All’erta”) “Crysalis”, Bari/Trani, 2005
Principali rassegne video-cinematografiche
Anteprimaannozero Film Festival, Bellaria, 2001
20° Torino Film Festival, 2002
21° Torino Film Festival, 2003 – Spazio Italia (menzione speciale per il cortometraggio “Il nido”)
40° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro – Sezione Spazio Video, 2004 (premio Short Village per il video “All’erta”)
41° Mostra Internazionale del nuovo cinema, Pesaro Film Festival, 2005

Carlo Michele Schirinzi,preludi/forpleis, e’ il titolo dellapersonale dell’artista ospitata al MLAC nel marzo 2005.

Il percorso artistico di Carlo Michele Schirinzi (CMS d’ora in poi) sta dando ragione a chi intravedeva un radioso futuro inscritto sia nel suo stile che nei suoi temi, sia nelle sue tecniche che nella sua sintassi. E quindi: “so far so good”; come si dice: fin qui tutto bene. Ma un autore, per giovane che sia, va misurato non solo sulla contemporaneità dei contesti artistici, sulle tendenze e sui linguaggi che usa, cita, sfiora e rifiuta, ma anche – e non di meno – sulla propria coerenza interna, verificabile nell’arco della produzione sui periodi brevi, e medi, e lunghi.
Se tutto questo è vero, allora forse per chi, come me, abbia già messo occhio, mano e penna sul lavoro di questo talentuoso foto-cine-videomaker salentino, l’unico tipo di ricognizione possibile è quella interna: la mappatura delle strategie del lavoro, dei passi avanti o meglio “di lato” (come amava dire Pistoletto nel ’68, parlando delle proprie strategie di liberazione). Dovrei, altrimenti, ripetere il già scritto e, non disponendo della grazia con cui Schirinzi tratta i materiali preesistenti, finirei per essere noioso. Credo quindi sia il caso di fare, quasi filmicamente, un flashback che condensi il personaggio e la poetica di CMS in pochi e compendiosi concetti: Schirinzi è infatti un giovane artista e videomaker (piace il termine? videomaker: è inutile, non c’è in italiano) il cui lavoro è impegnato in una continua dialettica con la storia e i luoghi comuni del vedere e del sentire. Nelle sue opere fotografiche – la cui tecnica definisce iconoclastia su(al) negativo – ritocca negativi fotografici d’archivio familiare, o costruiti appositamente, riportandoli a nuclei d’immagine scabri e provocatori. La lametta rimuove pazientemente tutto ciò che nel negativo fotografico risulti accessorio, isolando le figure, gli oggetti, i gesti e i segni. Tali presenze ruvidamente scontornate si inseriscono in ampie specchiature vuote o monocrome, memori dei ritmi arcaici del romanico, non di rado riassemblando in elettronico diverse comparse entro ambienti semplificati e lineari (e naturalmente evitando di fare tutto questo in Photoshop). Le cromie invertite dei negativi, stampati come fossero positivi, sottraggono realismo ad immagini di sapore altrimenti neorealista; merci visive ormai irricevibili sono rese, in questo modo, preziosamente nuove e sottilmente fraintendibili. 
Quella di CMS è una ricerca che procede tra neorealismi andati a male e filigranate interferenze tra grottesco e cultura classica; l’eredità del grande salentino: Carmelo Bene, trapela infatti nella continua negazione (o deflessione/sdoppiamento/rifrazione) delle identità, oltre che nella forte e matura volontà scenica del Nostro. Deliziosamente greve e sapientemente stolido, il personaggio che Schirinzi si è pazientemente costruito col tempo, riunisce, nel suo panciuto profilo, tratti di colta sguaiatezza rabelaisiana e ampi ammiccamenti all’Ubu jarriano. L’arroganza simbolista di questo carnefice/vittima di e su se stesso, nasconde un’impietosa indagine sugli umori profondi del soggetto contemporaneo, perduto nella foresta degli idola, disperso – non si sa se allegramente o tristemente – in una fascinosa ragnatela di rimandi tra già visto e già sentito, di ritornelli imparati a memoria, di icone stagnanti nell’ammuffito immaginario collettivo e personale. Ma anche, sorprendentemente, di illuminazioni che attraversano il tempo, la storia e le storie. Ciò che sorprende dei materiali usati da CMS infatti, è che non conta se siano d’autore o a un tanto al chilo, se peschino nel privato o nel cliché, se ci evochino dolci memorie o acidi rigurgiti del rimosso. Le due cose contano solo come facce opposte della medesima realtà.
Sono rari nel suo lavoro artistico alcuni enzimi apparentemente irrinunciabili per essere “in voga” attualmente: il sociologismo più o meno utopistico (senza cui si rischia di sembrare disimpegnati), l’estetica cartoon-pubblicitaria (senza cui si rischia di sembrare lo-tech) e il metalinguaggismo di ritorno (senza cui si rischia di sembrare naïve). L’arte di CMS ci mostra come si possa toccare la profondità dell’uomo, del racconto e dell’arte anche senza queste tre omologazioni linguistiche, spacciate, non di rado, per organi vitali dell’arte attuale.
Fingendo, a questo punto, di avere noi tutti cognizione del lavoro di CMS, insomma, non mi resta che domandarmi: cosa c’è di nuovo nelle sue opere più recenti? Prima di tutto sembra banale (ma non lo è) notare come in CMS – non meno che nei migliori artisti di cui si ricordi l’opera – ciò che è nuovo, inedito o rivoluzionario, è sempre la forma più attuale dell’antico. Per dirla in altro modo: in Schirinzi è nuovo il senso impresso alla fusione tra temi, tecniche e contesti, trascelti fra antichi, vecchi, inattuali, moderni, recenti e odierni. Ma ancora: in che direzione vanno i lavori di CMS datati attorno al 2005? Bene, a mio modo di vedere, sia nell’immagine statica (fotografica, installativa) sia in quella temporalizzata (cine-videografica) Schirinzi sta, come al solito, operando su due piani: uno nuovo e uno noto. Da questo lato continua a precisare i rimandi alla storia, come e più di quanto ha sempre fatto. Storia delle immagini come arte, storia della cultura della sua terra, storia della performance come azione o come annaspare del personaggio nel mare della vita, nell’oceano dell’opera. Ciò che non cambia nel suo atteggiamento è l’importanza accordata alla storia (ripeto: antica, recente, attuale) dalla quale recupera la fondamentale centralità della ritualizzazione dei segni e dei movimenti: i suoi personaggi eseguono infatti movenze araldiche, ciascuna guidata da un “disegno” che è spaziale, cromatico, dinamico, perfino ludico. Ma mai strumentale. Il personaggio che riassume il credo schirinziano è il “moro” che gira nelle giostre medievali, ripreso in un suo recente video: una macchina crudele e nello stesso tempo un simbolo apotropaico, un “personaggio impersonale” che funziona da meccanismo ludico che gira “a vuoto” ma colpisce il concorrente disattento della giostra. È, naturalmente, un ennesimo autoritratto che diviene insegnamento simbolico, perfettamente utile a chiunque, in qualunque momento della vita. Le citazioni dal passato in CMS sono altrettante liberazioni da un fardello inesauribile, e le contaminazioni trasversali (che so: tra Jarry, Mahler, Pasolini e Rita Pavone) ne sono il disinnesco: la storia è compresa, filtrata, ripercorsa, ma il suo valore facciale (in cui risiede la sua radicale falsità) è reso inattivo dal collage, dal pastiche, dalla farsa che nasconde la tragedia senza volto.
L’altra direzione di lavoro CMS l’ha imboccata nel proprio operato fotografico. È vero che alcune fisionomie e atteggiamenti grotteschi sono stati scelti e raffinati attraverso costanti interazioni creative con una cerchia di artisti pugliesi confratelli, cito fra tutti Pierluca Cetera. Ma è vero anche che, se Cetera li ha applicati creando un linguaggio di ritratti, montaggi e incubi sardonici esclusivamente pittorici, Schirinzi ha per le mani tutt’altri tipi di medium e li esplora. L’uso del negativo fotografico ha aperto infatti a CMS l’orizzonte della ricerca cromatica. Mi spiego: per noi di Roma – dove, è noto, piace tanto la pittura – questo vuol dire arruolare Schirinzi tra gli artisti da guardare con occhio “pittorico”, quindi potenzialmente offrirlo ad un mercato più ampio di quello foto-videografico. E va bene. Ora, il contesto della critica fotografica ha il suo modo di discriminare certe operazioni “troppo” pittoriciste ed effusive, ma l’opera di Schirinzi non vi rientra grazie al suo misto di ironia sottile e humour grossolano, ma sopratutto per il raffinato uso del repertorio iconico e di una tecnica “per via di levare”, aspra e tutt’altro che lirica. Resta però il fatto che in Europa, anzi: in Occidente, dicendo che un artista “si dedica alla ricerca cromatica” rischiamo di confinarlo in un formalismo che, quando non è invecchiato, comunque fa difficoltà a tener dietro ai tempi. Occorre dunque qualche precisazione per sottrarre CMS agli equivoci del formalismo, come abbiamo appena fatto per quelli del pittorialismo. Dai polittici dell’“Icaro” (2001) fino ai nuovi del “Trasloco” (2003) o dell’“Attrezzista” (2004) la strada segnata da Schirinzi poneva una nuova attenzione al dettaglio – dispiegata al massimo grado nel video “Dal toboso” (2005) – un’attenzione che si ricollega ancora una volta alle tradizioni visive. CMS infatti continua a indossare o usare tessuti o fondali che, al negativo, producano gli stessi “off-colours”, i colori terziari che si trovano tanto spesso negli affreschi di Piero o nella tradizione muraria italiana. Non le sgargianti baldanze delle lacche, delle dorature o delle biacche, ma i sordi cangianti dei colori minerali: le terre, i rossi, gli azzurri macinati a mano; stabili e poco ossidabili, accostati tra loro con lentezza sapiente, come pietre: come le “cento pietre” di cui è composta una celebre architettura preistorica salentina. Poche, stabili, essenziali geometrie, materie e cromie a sottolineare per sottrazione ciò che è essenziale: il dibattersi/sbattersi umano. Voluttà e rigore, anima e animalità. E più conta ciò che più manca: il rito nel vuoto disegnato dall’arte. Se priva di ricerca, sete di verità, senza volizione e dedizione, senza slancio etico (con tutte le difficoltà implicite in tutto ciò) l’arte non è che preziosa e vacua crisalide: monumento senza popolo, cornice senza quadro, moto senza movimento, personaggio senza identità.
E noi tutti – affacciati ad una delle sue finestre fatte di linee scalfite nell’emulsione fotosensibile – attendiamo le prossime movenze di Carlo Michele Schirinzi, questo fool shakespeariano che rinuncia a commentare il suo tempo, certo com’è di dire parole che non hanno tempo. Troppo retorico? Ok, proviamo con questo: Schirinzi, questo bravo artista del nostro sud, le cui sublimi opere d’arte… (voce sfuma; crescendo: Ennio Morricone, tema guida da “Giù la testa!”).

Dall’alto:

Trasloco, 2003, (particolare del polittico)
stampa lambda da negativo trattato montata su alluminio, cm 43 x 341, 3 edizioni.
Courtesy Galleria Paolo Erbetta, Foggia. 
L’attrezzista, 2005, (particolare del trittico)
stampa lambda da negativo trattato montata su alluminio, cm 50 x 190, 3 edizioni.
Courtesy Galleria Paolo Erbetta, Foggia.
Toboso, 2005, (3 frames da video), dvd 4/3 pal colore, 14’09”, 6 + 1 edizioni.
Courtesy dell’Artista.