[É]facilis descensus Averno;
noctes atque dies patet atri ianua Ditis;
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est.*
Eneide, libro VI, vv. 125-129

(“facile è la discesa nell’Averno: notte e giorno è aperta la porta dell’oscura Dite,  ma ritrarre il passo ed uscire all’aria superna, questo è il problema, qui sta l’impresa”)

 

Straziante e irritante. In ugual misura. Questa è, direi, la prima e più forte impressione che genera l’arte di Tracey Emin, arcinota artista inglese (una dei principali rappresentanti di quella Young British Art che è un pò il marchio di fabbrica di Mr Saatchi, tanto per intenderci).
Irritante, perché volutamente cruda ed insistente nel mostrare le proprie ossessioni, i propri pensieri più intimi, perché costringe chi guarda, come ha scritto Barbara Casavecchia a misurarsi col proprio voyeurismo; ma anche straziante, per il coraggio che ha di fare della propria vita un’opera d’arte in fieri, anche se, come lei stessa ammette, persino nelle sue opere apparentemente più autobiografiche, c’é una forte componente di calcolo, di costruzione, di citazioni colte e riferimenti ad opere ed artisti del passato. Dice di sè “io sono un’espressionista”, ma in ogni sua opera, che siano disegni, dipinti, ricami, scritte al neon, sculture o installazioni, Tracey Emin attinge ai linguaggi di tutta l’arte del Novecento, da Monet a Schiele, da Munch a Kosuth.
Nella sua prima personale italiana, alla galleria Lorcan O’Neill di Roma, sono raccolti alcuni suoi lavori dal 1993 al 2004, raggruppati sotto il titolo significativo di Meet me in heaven“, a costruire una sorta di ascesa dagli inferi al paradiso: dalle immagini più crude dei disegni e applique su tessuto della fine degli anni ’90, con riferimenti espliciti allo stupro subito da Emin all’età di 13 anni (Weird sex, ricamo con fili colorati su tessuto rosa, 2002), la rappresentazione a volte violenta dell’ emotività lacerata dell’artista, delle sue ossessioni sessuali, si arriva alle opere più recenti, che lasciano intuire un desiderio di purificazione, un tentativo di innalzamento, quasi una disperata invocazione di salvezza. L’ascensione si conclude idealmente con le due scritte in neon rosa “Meet me in heaven” e “I will wait for you ed il grande dipinto ad acrilico su tela, che rappresenta un abbozzato sol levante nelle tenui tinte del rosa e dell’azzurro, semicoperto da una macchia bianca che potrebbe – forse – essere un corpo femminile (Meet me in heaven, acrilico su tela, 2003-2004). A sottolineare il faticoso tentativo di risalita, frequenti riferimenti al volo, agli uccelli: un passero di bronzo tenta di librarsi sopra una bottiglia di birra (o forse vi si è appena posato?), altre opere rappresentano uccelli sui rami e nel nido se non, esplicitamente “lezioni di volo” (Flying Practice, inchiostro e matita su carta, 1993). È tuttavia un percorso, questo, affatto lineare: nell’ allestimento all’interno della galleria le opere sono accostate senza progressione, ma con salti e rimandi emotivi da una all’altra, ascensioni e ricadute improvvise, in un andirivieni continuo ed antitetico tra perdizione e salvezza.
Ad una ideale equidistanza fra inferno e paradiso sta invece la grande tela “Dolly“, sulla quale, sotto la scritta che dà il nome all’opera, è ricamato un contorto corpo femminile che ha un pò di Picasso e un pò di Schiele, ed una grande orchidea di stoffa al posto della vagina: quale migliore rappresentazione dell’artista stessa, un infantilismo velato di crudeltà, una richiesta d’aiuto che si tinge di umor nero e gioca, infatti, continuamente, Tracey Emin su questo registro finto-adolescienziale, spingendoci a credere che la sua arte sia uno sfogo immediato, diretto, come di ragazzina sulle pagine del diario e poi lo nega, mostrandosi abile tessitrice di riferimenti colti, spietata venditrice di sè stessa, fino a farci confondere arte e vita, fino a cancellare il limite tra grido di dolore esistenziale e cinica operazione di marketing.