Nell’assoluta poliedricità di questa 53esima Biennale di Venezia, tra il fare mondi e il fare code – come è capitato a chi ha frequentato la mostra nei giorni della vernice – è sempre difficile tirare le somme, identificare un percorso o tema che aiuti a riflettere su ciò che si è visto. Perché allora non provare a filtrare il tutto attraverso i premi conferiti dalla giuria? Dimmi chi ha vinto e ti dirò che Biennale sei, può essere il motto per tentare di scoprire qualcosa di più sull’esposizione di Daniel Birnbaum.

Innanzitutto i Leoni d’Oro alla carriera, già annunciati da tempo e conferiti a Yoko Ono (protagonista anche di una mostra personale alla Fondazione Bevilacqua La Masa) e a John Baldessari. Scrive Birnbaum: “I Leoni d’Oro alla carriera celebrano due artisti il cui lavoro all’avanguardia ha aperto nuove possibilità di espressione poetica, concettuale e sociale per gli artisti di tutto il mondo, che si esprimono attraverso ogni linguaggio”. Concettuale, appunto. Lo splendido lavoro di Yoko Ono, Instruction pieces, consiste in semplici istruzioni battute a macchina che richiedono messa in atto o partecipazione immaginativa da parte di chi guarda e legge. Istruzioni per performance che riappariranno in tutta l’esperienza Fluxus, nonché nei lavori propriamente concettuali della fine degli anni Sessanta. Anche Baldessari rientra nella rosa dei conceptual artists, con i suoi lavori storici quali Commissioned Paintings (1969) e Baldessari sings LeWitt (1972), sintomo di un’arte che andava sempre più verso la delega, la spersonalizzazione, la smaterializzazione. In occasione della Biennale l’artista è intervenuto sulla facciata del Palazzo delle Esposizioni, disegnando un paesaggio californiano che si presenta come panorama insolito nello scenario veneziano.
Fin qui, niente di eclatante. Se non fosse che la premiazione dei due artisti trova riflessi interessanti in tutta la mostra di Birnbaum, soprattutto quella allestita ai Giardini. Si segnalano quindi lungo il percorso espositivo Blinky Palermo, Gilbert & George, l’intera sala dedicata ai Gutai e André Cadere disseminato in vari angoli della mostra al Palazzo delle Esposizioni con le sue tipiche barres de bois rond, oggetti minimal ma realizzati a mano e con voluti, microscopici errori.
Non che si voglia sostenere uno storicismo a tutti i costi: le presenze giovani ci sono e sono anche ben scelte. La serialità “contro l’ossessione dell’aura attribuita all’originalità dell’opera” viene identificata dal curatore come uno dei temi portanti, riscontrabile tanto negli artisti storici che in quelli mid career: Yoko Ono, Öyvind Fahlström, Thomas Bayrle e Aleksandra Mir i nomi che Birnbaum fa a questo proposito. Solo vien da pensare a quell’”osare” annunciato da Paolo Baratta che un po’ fatica a rivelarsi. Scrive il presidente: “[Birnbaum] è il più giovane direttore del Settore Arti Visive della nostra storia, e chi ha più futuro davanti a sé, forse sa analizzare meglio il presente, può assumersi maggiori rischi, all’insegna della qualità e della libertà”. E ancora: “Lo abbiamo scelto perché lo sentiamo dalla parte degli artisti”. Qualche conto comincia a tornare. Sì, perché lo stare dalla parte degli artisti è approccio chiaramente szeemaniano e ci riporta dritti a cavallo tra quei Sessanta e i Settanta, palcoscenico delle esperienze processuali e concettuali. D’altronde Birnbaum non nasconde l’enfasi posta sul processo creativo, sulle cose nel loro farsi, che non esclude – sempre a detta del curatore – una ricca esperienza visiva. Ne è emblema il titolo stesso dato alla mostra, Fare mondi, con un chiaro accento alla processualità, al definirsi in itinere. “Un’opera d’arte è più di un oggetto, più di una merce. Rappresenta una visione del mondo e, se presa seriamente, deve essere vista come un modo di “costruire un mondo”. Così – e a questo punto non è un caso – nel testo in catalogo del curatore vengono citati sia Pontus Hulten – il cui approccio nell’allestimento “dava risalto alla collaborazione tra artisti e curatori, all’interattività, all’interdisciplinarietà, alla spontaneità”, sia lo stesso Harald Szeemann, “con la sua idea sciamanica dell’artista latore di una mitologia personale”.

Pure il catalogo in qualità di oggetto appare molto ‘svedese’ e molto ‘concettuale’, con rilegatura a vista, copertina in cartone grezzo e inserto cartonato per testi critici. Dunque i riferimenti non mancano. E, guarda un po’, chi va a vincere il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale? Bruce Nauman, fattosi trino nella mostra Topological Gardens, divisa tra il Padiglione Usa, la Ca’ Foscari e lo Iuav. Un percorso entusiasmante, che porta alla scoperta di lavori storici e recenti, confermando l’assoluta poliedricità di un autore che tanta influenza ha avuto sulle generazioni a seguire. Grande merito al commissario Carlos Basualdo, soprattutto per la splendida e ben riuscita collocazione della spirale al neon The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (Window or Wall Sign), installata secondo le originarie riflessioni dell’artista che si dichiarava attirato dall’ambiguità delle insegne commerciali leggibili dall’interno e dall’esterno. Rilevante anche l’installazione di Giorni (Days allo Iuav) e Flayed Earth Flayed Self (Skin Sink) alla Ca’ Foscari, accompagnate dalle tracce di Nauman sottoforma di calchi.
Non si mette in discussione la forza di un artista che ha saputo attraversare trasversalmente tutte le pratiche neoavanguardiste, dal video alla performance, dai lavori processuali alle installazioni sonore. Tuttavia vien da pensare che forse anche la giuria avrebbe potuto, in questo caso, osare un po’ di più anziché andare sul (seppur meritevole) sicuro.

Altro premio, altra corsa: a Tobias Rehberger il Leone d’Oro come miglior artista della mostra Fare mondi. Rehberger ha realizzato, nell’ambito della richiesta di nuove strutture per il Palazzo delle Esposizioni, un bar caffetteria che si accompagna al bookshop di Rirkrit Tiravanija e allo spazio Educational di Massimo Bartolini. L’artista ha creato un complesso schema di forme geometriche dai colori contrastanti, attingendo alla pittura Razzle Dazzle utilizzata sulle navi soprattutto durante la prima guerra mondiale. Al di là del progetto, il premio è esemplificativo di un’altra questione fondamentale, sollevata anche nel corso della conferenza stampa: quanto la Biennale d’Architettura assomigli sempre più alla Biennale d’Arte e viceversa. Baratta si è difeso sostenendo che compito della Biennale è mantenere le specificità delle singole discipline ma anche mostrare i punti di incontro. Resta il fatto che molte delle installazioni hanno ricostruito ambienti o strutture architettoniche vere e proprie: la stanza degli specchi di Michelangelo Pistoletto, il corridoio praticabile in polistirolo di Carsten Höller, il villaggio africano contaminato con riferimenti occidentali di Pascale Marthine Tayou, la stanza buia di Chy Yun, popolata dalle spie degli elettrodomestici che mappano lo spazio disegnando un notturno scenario casalingo.
Anche al di fuori della mostra, alcuni padiglioni hanno mostrato maquette e progetti urbanistici, come quello della Turchia o degli Emirati Arabi.

Sempre un lavoro ambientale – seppur sensibilmente differente da quelli citati in precedenza – è l’intervento della vincitrice del Leone d’Argento per il più promettente giovane artista, Nathalie Djurberg.
Senso di ansia e claustrofobia attraversano una selva di fiori minacciosi, un inquietante giardino dell’Eden nel quale è collocato il video animato da personaggi di plastilina. Giocando sulla morbosità dello sguardo, la Djurberg mette in scena giochi sessuali accompagnati dalla colonna sonora di Hans Berg, provocando un costante stato di paura. A ben vedere, è forse proprio l’opera dell’artista svedese a svincolarsi dal panorama generale, evidenziando le possibilità di un’arte non solo autoreferenziale. Così come nel The Fear Society, Pabellón de la Urgencia, curato dall’artista Jota Castro e situato all’Arsenale Nuovissimo, dove compaiono l’intenso film di Alfredo Jaar, il disturbante video di Regina José Galindo e la performance di Tania Bruguera, lavori nei quali la paura che titola l’esposizione emerge con violenza.
Per chiudere il quadro generale dei premi conferiti, ecco le menzioni speciali: Lygia Pape (Rifare mondi), Ming Wong (Mondi emergenti), Roberto Cuoghi (Tradurre mondi). Last but not least, la menzione Curare mondi al duo Michael Elmgreen & Ingar Dragset, autori dell’ambizioso progetto The collectors nei padiglioni riuniti di Danimarca e Paesi Nordici, uno spazio domestico ridisegnato dagli artisti e designer invitati a svolgere un’indagine sul tema del collezionismo. L’operazione ha riscontrato grandi consensi da parte del pubblico, oltre ad ottenere la menzione speciale dalla giuria. Che ci volessero dire che la cura è meglio affidarla agli artisti stessi, piuttosto che stare dalla loro parte?

Dall’alto:

John Baldessari, Ocean and Sky (with Two Palm Trees), 2009. Courtesy: the Artist

Yoko Ono, Instruction Pieces, 1964. Photo Alessandra Troncone.

Blinky Palermo, Graue Scheibe, 1966. Syntethic resin on fabric, wood, 13.5 × 26.5 × 2.5 cm. Courtesy: Museum für Moderne Kunst, Frankfurt am Main

Bruce Nauman, The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (Window or Wall Sign), 1967. Neon, 149.9 × 139.7 × 5 cm. Collection of the Philadelphia Museum of Art. Photo Alessandra Troncone

Tobias Rehberger, Site-specific intervention, mixed media, Palazzo delle Esposizioni, Giardini della Biennale, Venice 2009

Nathalie Djurberg, Experimentet (detail), 2009, Installation, clay animation, digital video and mixed media, dimensions variable. Music by Hans Berg
© Nathalie Djurberg, Courtesy: Giò Marconi, Milan, Zach Feuer Gallery, New York

Regina José Galindo, Confesión, 2007, Video from the performance at La Caja Blanca (Mallorca, 2007), 2:25 minutes. Courtesy the artist and prometeogallery, Milan/Lucca

The Collectors, The Danish Pavilion and The Nordic Pavilion. 53rd International Art Exhibition, La Biennale di Venezia, 2009