La 50esima esposizione internazionale d’arte di Venezia che ha da poco aperto i battenti, è nata sotto l’egida di un titolo felice “sogni e conflitti” che sintetizza aspirazioni e realtà, ed un sottotitolo inadatto, “la dittatura dello spettatore”, poco rappresentativo dell’effettiva consistenza della realtà sistemica dell’arte e di quella localistica e circostanziata della rassegna, nella quale è semmai la dittatura del curatore ad imporsi come condizione. Si respira un po’ ovunque, sia nei padiglioni nazionali che all’Arsenale sede più effettiva del progetto di Bonami, un’aria di frantumazione di poliglotta eteronomia, di un eclettismo curatoriale che però più che aprirsi allo spettatore sovrimpone l’idea del critico chiamato a selezionare nelle diverse sezioni un certo numero di artisti chiamati a loro volta a dar forme e risposte alla mostra che li contiene. L’ipotesi dell’assemblaggio dei diversi lavori al fine di giustificare ed avallare l’idea del critico che ne ha autenticato e voluto la presenza contrassegna questa edizione della Biennale il cui punto di forza è probabilmente e paradossalmente da leggersi nell’apparente debolezza che ha spinto Bonami a delegare ad altri, ad una polifonia di critici curatori, i destini di questa rassegna. La frantumazione di cui si accennava non è però conseguenza di questa “apertura” , dell’inevitabile quindi articolarsi in più mostre distaccate e disgiunte seppur coordinate dal tema di fondo, quanto piuttosto insita nelle parti nelle quali non si è abdicato: in quel padiglione Italia così tristemente adibito a sede dell'”american way of art” affiancata anche e per fortuna ad altro ma sostanzialmente inneggiante ad una acritica esposizione di tutto quanto fa l’immagine USA, dal leggendario mondo cow boy di Richard Prince, alle sue spoglie nei frammenti di Cady Noland, ai nuovi misticismi neo new age di David Hammons. Tentativo forse di ricucire lo strappo che inevitabilmente gli ultimi eventi bellici hanno prodotto tra buona parte del vecchio e nuovo mondo? Desiderio di ristabilire un primato? Qualcuno aggirandosi nella canicola dei giorni della vernice ai Giardini osservava che a ben guardare il meno “americano” dei padiglioni quest’anno sembrava essere proprio quello americano affidato a Fred Wilson che ha voluto porre l’accento sulla questione della razza nera nella cultura occidentale e le sue adozioni discriminatorie esternando così il meno attuale dei problemi posti oggi sul piatto dell’identità americana minacciata da ben altre rappresaglie, riscatti e temerarietà. Ben ha colto quali debbano essere i termini in gioco Catherine David optando per uno sguardo più status quo, meno incline a far propria l’idea formattata di una realtà estranea con la quale piuttosto va cercato e perseguito il dialogo. La sua mostra “Rappresentazioni arabe contemporanee” concepita come un “work in progress” documenta un avvicinamento alla cultura araba allo scopo di pensare possibile una conoscenza, comprenderne le istanze profonde, non liquidabili tout court con formule semplicistiche. La complessità fenomenologia che il suo progetto pone in essere dilata oltre il cerchio ristretto dei luoghi deputati all’arte la questione dell’identità di luogo e di pensiero in tutte le sue possibili ed articolate intersecazioni e declinazioni. Un invito a non soccombere alla dittatura dell’identico della cultura sociale e politica globale, ma piuttosto a stringere alleanze con gli interstizi mutanti e sostanzialmente inclassificabili nella loro intrinseca refrattarietà e distanza dalle logiche estetiche comportamentali di timbro occidentale. Una messa a fuoco che si interroga sul significato da attribuire all’altro senza prescindere dal sé . Ipotesi dialogica che attende verifiche sul campo dell’effettivo scambio e impegno a misurarsi con l’alterità fissando come primo obiettivo l’istanza ineludibile della comprensione e conoscenza politico territoriale.
D’altra parte, smascherata la cultura globalista ed i suoi imperativi omologanti uno dei dati certi della surmodernità è quello dell’inestricabile contaminazione di culture che ha imposto vettori di ermeneutica inediti, surclassando metodi di approccio ormai obsoleti.
Basta a dar conto dell’irrefrenabile e differenziato universo della contemporaneità proprio e ancora in questa Biennale, la sezione Z.O.U. Zone d’urgenza curata da Hou Hanru, tesa a dare voce, immagine e spazio alla complessità estetica attuale, compressa in una sorta di cittadella reale, nella quale sfoghi, coercizioni, slanci ed instabilità acquistano corporeità fisica obbligando ad assumere su di sé , nella scomodità del percorso, il peso di una coesistenza tra culture che ne ha di ciascuna irrimediabilmente mutato i tratti definitori originari. La città spazzata dal soffio nella video installazione Sbuffiamo! di Yang Zhenzhong si fa metafora di necessità di ricambio e di accoglienza di ansimi e realismi più contemporanei, tanto più che questo avviene in uno spazio che sensibilizza ad un eccesso dal quale forse per il troppo di vita reale che lo caratterizza si sente l’urgenza proprio di fuggire. Fuori verso una dimensione di sogno che quei conflitti aiuti a contenere.
Yang Zhenzhong, Let’s puff / Sbuffiamo, installazione video in Z.O.U Zona d’Urgenza a cura di Hou Hanru, 2002/2003, Corderie dell’Arsenale, Biennale di Venezia 20036

Fred Wilson davanti al Padiglione Statunitense