Risale al 1996 la prima edizione della Manifesta, Biennale Europea di arte contemporanea, Fondazione con sede ad Amsterdam unica nel suo genere perché itinerante.

Ed è il suo “status” nomade a tracciarne i caratteri specifici di base: creare nuove topografie artistiche lontane dai grandi centri e sempre in zone di confine tra culture diverse, operare in stretta collaborazione con la comunità locale ospitante, promuovere artisti e curatori giovani provenienti da tutto il mondo che possano delineare nuovi modelli del fare artistico, avvalersi di un comitato scientifico costituito da critici di diverse nazionalità.

Manifestazione concepita in un’Europa post muro di Berlino, i suoi intenti affondano le loro radici proprio nella situazione socio-politica configuratasi nei primi anni ’90. La condizione di distanza tra est e ovest dell’Europa, ma più in generale fra Oriente e Occidente del mondo, esigeva la costituzione di piattaforme, di “luoghi” fisici e ideali che potessero ridurre i divari e favorire la comunicazione, il dibattito e la collaborazione tra le diverse culture.

Fin dalle origini, quindi, la Manifesta è stata particolarmente attenta nel ricercare una combinazione equilibrata nel coinvolgimento di artisti internazionali, provenienti, più o meno alla pari, tanto dall’est quanto dall’ovest. Inoltre, aspetto fondamentale dell’evento è che sia da sempre stata l’Organizzazione stessa (comprensiva degli enti locali ospitanti) a finanziare direttamente o meglio a reperire i fondi per realizzare le opere degli artisti. Ovvia conseguenza di tale impostazione è stato che anche artisti provenienti da Paesi meno ricchi, così come artisti molto giovani o quasi ignoti, abbiano avuto la possibilità di partecipare. Ciò ha prevedibilmente favorito la sperimentazione e la ricerca da parte di artisti e curatori, per i quali l’esposizione si è spesso rivelata trampolino di lancio nel mondo dell’arte contemporanea.

Dopo Rotterdam (1996), Lussemburgo (1998), Lubiana (2000), Francoforte (2002), San Sebastian (2004), Nicosia (2006 – poi cancellata), la settima edizione di Manifesta è giunta in Italia nel 2008, occupando per la prima volta un’intera regione – il Trentino-Alto Adige – e coinvolgendo quattro città lungo un asse di circa 120 chilometri: Rovereto, Trento, Bolzano e Fortezza.

Intuibile la difficoltà organizzativa rappresentata da un evento di tale calibro, suddiviso nei territori di due diverse province autonome quali Trento e Bolzano, caratterizzate da identità culturali completamente diverse: la cultura mitteleuropea e quella latina, la lingua tedesca e quella italiana. Ma è proprio il tentativo di congiungere storie e realtà diverse a costituire il fascino stesso dell’evento.

Ciò che caratterizza quest’ambiziosissima Biennale è infatti la volontà di cooperare a tutti i livelli con la comunità locale, che proprio da questo trae, a mio parere, il vantaggio più proficuo e duraturo.

Manifesta non s’installa semplicemente su di un territorio utilizzandolo per realizzare i suoi obiettivi; piuttosto, questo territorio lo analizza, lo coinvolge, lo valorizza, lo arricchisce.

Non è il mero conteggio d’ingressi, di ritorni d’immagine sui media, d’incassi monetari, a costituire il reale valore dell’evento. La sua “preziosità” risiede nel trasferimento di “know how” che realizza, nel suo costituirsi come ponte tra realtà – non da ultimo burocratiche – non abituate alla collaborazione, nel proporre un modello quasi utopico d’integrazione e valorizzazione.

La Fondazione Manifesta, inoltre, grazie al forte sostegno economico della comunità locale, dell’Unione Europea e di altri sponsor più piccoli, talvolta ristruttura e rende agibili gli edifici che utilizza per le esposizioni. Nel caso specifico di questa edizione: una fabbrica di tabacchi a Rovereto, un ufficio postale a Trento, una fabbrica di alluminio a Bolzano ed un forte asburgico a Fortezza.

Altro aspetto di non facile messa a punto nell’edizione del 2008 è stato il coordinamento fra tre unità curatoriali diverse sia per provenienza sia per background culturale e lavorativo, che hanno autonomamente lavorato in ogni città, con un’azione congiunta solo nel centro abitato più a nord, Fortezza/Franzenfeste.

Il risultato è stato inevitabilmente eterogeneo per temi, scenari, allestimenti e selezione degli artisti, che ha reso la mostra nel suo complesso un’interessante panoramica dei più recenti approcci curatoriali e strategie espositive.

Moltissimo è già stato scritto su questa settima edizione italiana, nel bene e nel male, molto visitata nonostante il periodo di apertura in un certo senso svantaggiato (l’inaugurazione si è svolta a metà luglio 2008); vorrei quindi focalizzare l’attenzione sulle tematiche affrontate dai curatori, di particolare interesse per la loro relazione con l’attualità (non solo europea) e per la loro complessità concettuale.

Partiamo dal principio o, per sistematizzare l’analisi, dal sud della regione verso le sue propaggini più nordiche, quasi in terra austriaca.

 

Rovereto – Principle Hope

A Rovereto, la mostra curata da Adam Budak – nato in Polonia e attualmente curatore presso il Kunsthaus di Graz – si snodava attraverso diversi spazi post industriali: la novecentesca fabbrica di cacao Ex Peterlini, l’ottocentesca Manifattura Tabacchi e finanche la Stazione dei Treni. Il percorso espositivo articolava attraverso le opere di circa 50 artisti un discorso che ruotava intorno a due principi di base, tratti da altrettanti scritti: Principle Hope (che titolava la mostra) di Ernst Bloch del 1959 e Towards a Critical Regionalism di Kenneth Frampton, del 1983. Volendo sintetizzare un concept decisamente vasto e particolarmente sfaccettato nelle sue diverse diramazioni, si potrebbe dire che la nozione di “Speranza” concepita come forza primigenia insita nell’essere umano e spinta generativa dell’esistenza si fondeva nella volontà di sistematizzare e formalizzare le contraddizioni dicotomiche recentemente delineatesi nell’Unione Europea tra globalizzazione e localismi, tra mercificazione degli spazi privati e necessità di luoghi pubblici, tra enfasi posta sull’emotività individuale e ricerca di un “sentire” collettivo. Il progetto del curatore si plasmava molto bene sia alla morfologia che alle implicazioni storiche degli spazi coinvolti. Il “non-luogo” della stazione era in un certo senso “occupato” da opere volutamente accampate che giocavano sulla sua natura di ambiente di transito e inevitabilmente multiculturale. L’Ex Peterlini è rimasta aperta 24 ore su 24 per tutta la durata dell’esposizione grazie ad un atto sovversivo del rumeno Daniel Knorr, che ri-attualizzava il suo passato d’importante centro anarchico oggi abbandonato e avviava una riflessione sul bisogno, e sulla mancanza in definitiva, di spazi pubblici in un mondo ormai (quasi) totalmente privatizzato. Il centro più vasto era invece la fabbrica di tabacchi, dalla conformazione labirintica e costituita di un grande cortile centrale e di spazi dalle diverse grandezze articolati intorno ad esso. Tutto è divenuto ambiente espositivo della metà dell’edificio a disposizione per la mostra, dai bagni ai vecchi centri amministrativi. Qui le opere giocavano su tutte le possibili declinazioni o meglio diramazioni della tematica affrontata. Dalle percezioni risonanti (molte e bellissime le installazioni sonore, nonostante il caos della loro disposizione) all’equilibrio percettivo in relazione ai luoghi, agli odori, agli esseri viventi e finanche al nostro peso corporeo. Dai rimandi alle tendenze vernacolari alle ambizioni futuriste (non a caso ovviamente, Rovereto fu città natale del nostro Fortunato Depero) e aspirazioni futuristiche. Dalle strategie di definizione di confine, di limite, di ciò che è libertà e ciò che è dovere, di ciò che consideriamo nostro e ciò che rappresenta lo “straniero”. Dalla nostalgia per un passato romantico e sublime agli aspetti positivi e negativi del mondo del “file sharing” e della “apparente” condivisione. Lo spazio era suddiviso in un certo senso in pseudo-tematiche sensoriali, agli artisti non era assegnato un posto specifico e delimitato, le opere dialogavano le une con le altre, a volte finanche sovrapponendosi (anche quasi fisicamente) e avvolgendo lo spettatore in una miriade di possibili rimandi e relazioni. Di non semplice ricezione per un pubblico non abituato a così tanti e non facilmente definibili stimoli, l’esposizione necessitava senza dubbio di una lunga sosta per essere apprezzata a pieno.

Della stessa natura in fondo dei valori, emozioni e principi che essa mirava a rappresentare e definire. E poi, che c’è in fondo di male nella necessità di dedicare tempo e attenzione nell’esperire una mostra? Non dovrebbe sempre essere così?

Trento – The Soul (Or Much Trouble In The Transportation Of Souls)

Questo il titolo e la chiave di lettura dell’esposizione di Trento, cui hanno contribuito circa 45 partecipanti tra artisti e intellettuali.

A cura del tedesco Anselm Franke (direttore artistico dell’Extra City Center for Contemporary Artdi Anversa) e Hila Peleg (curatrice indipendente) si è svolta all’interno del vecchio edificio delle Poste nel cuore di Trento, progettato nel 1929 dall’architetto razionalista Angiolo Mazzoni, su di un precedente ufficio postale austro-ungarico ottocentesco, a sua volta costruito su di una villa rinascimentale. L’esposizione, dalle parole dei curatori, si richiamava “all’identità di Manifesta quale evento dedicato alla dimensione europea concepita come un momento d’introspezione”. Dimensione europea analizzata dunque non nella sua morfologia geopolitica, ma nella sua dimensione interiore, a partire da un evento considerato cardine dell’avvento della modernità: il Concilio di Trento. Per i due curatori, la serie d’incontri indetti dalla Chiesa cattolica nel XVI secolo – che riformularono il contenuto dei sacramenti, in particolare della confessione –, divengono punto di partenza per un’analisi delle strategie del potere finalizzate al dominio sulla psiche dell’individuo realizzatesi nel corso della storia moderna. L’esposizione si proponeva quindi come narrazione dei numerosi modi in cui, per riprendere le parole dei curatori, “il potere si dispiega e agisce attraverso l’esperienza soggettiva (fatta di desideri, emozioni, memoria e immaginazione) e la vita”.

Anima intesa come “oggetto culturale”, dunque non qualcosa di naturale ma un perfettamente studiato artefatto, costruito e plasmato dall’autorità, o meglio dai poteri vigenti.

L’interessante sottotitolo Dei molti guai nel trasporto delle anime derivava da un disegno di Sergej Ejzenštejn, il quale sperimentò prima di ogni altro il tentativo di cogliere la psiche del soggetto attraverso il montaggio cinematografico. Non si trattava di un mero omaggio ad un grandissimo artista e intellettuale, ma anche del rinvio a quanto realizzato da una buona parte degli artisti in mostra al Palazzo delle Poste di Trento, che non a caso utilizzava il video come medium espressivo. Anche qui la tematica affrontata derivava dalle specifiche del territorio ospitante, sede peraltro di un cattolicesimo ancora molto sentito (un esempio lampante ne fu senza dubbio il caso “rana” di Kippenberger al Museion a Bolzano). Molto diverse le strategie espositive, dovute alla particolarità della location a disposizione, e la selezione degli artisti evidentemente legati al percorso professionale dei curatori. Il tragitto si snodava attraverso diverse piccole stanze collegate da lunghi e stretti corridoi. Ogni artista aveva quindi a disposizione uno spazio ben definito e delimitato, una stanza, che lo isolava, almeno a livello percettivo, da tutto il resto. Francamente adeguato per le proiezioni video (alcune peraltro lunghe, anche fino a 50 minuti) lo era forse meno per le installazioni, in effetti poche e non proprio riuscite (fatta eccezione per l’immersione nei rimandi storico artistici di Pietro Roccasalva e la straniante costruzione di Beth Campbell).

Ma in fondo era la struttura stessa ad aiutare l’articolazione del discorso dei curatori. Un palazzo amministrativo, che nel complesso riusciva a trasmettere l’idea di un qualcosa di apparentemente unitario e molto chiaro che invece si componeva di tanti piccoli ambienti, angusti e asettici, ognuno più o meno veicolante un discorso diverso (dalle “questioni” religiose, passando per la morte, arrivando alla politica, alla storia, alla tradizione).

Innovativo stratagemma pseudo-didattico nel percorso espositivo è stata la realizzazione di 5 mini-musei affidati a 5 diversi team, costituiti da artisti e intellettuali di vario genere. Queste “Istituzioni” in miniatura affrontavano in maniera specifica e circoscritta alcune delle tematiche cui era dedicata l’esposizione ed in particolare: l’analisi della “Normalità Europea” attraverso gi occhi di chi storicamente ha rappresentato l’alterità culturale (nello specifico i popoli per secoli colonizzati); l’opera del famoso psichiatra Franco Basaglia e quindi i trattamenti riservati ai cosiddetti “anormali”; i metodi e le implicazioni delle didattica e dell’insegnamento nella psiche dei bambini, partendo da uno scritto di Walter Benjamin e dalle teorie surrealiste; le diverse e obsolete strategie di analisi della psiche nel corso dell’800 e del primo ‘900; il controllo esercitato dal potere attraverso le più diverse strategie di sorveglianza e di catalogazione degli esseri viventi.

Riuscita nell’impresa di rendere uno spazio formalmente poco consono ad un’esposizione artistica fruibile, lo è stata anche nel veicolare i contenuti proposti. Un percorso intenso e particolarmente eterogeneo, proprio per questo di forte stimolo nell’avviamento di riflessioni personali, riguardo l’immagine e la definizione del nostro corpo, della nostra “cultura” intesa in senso lato e, soprattutto, del nostro “essere”.

Bolzano – The Rest of Now

Ambientata nello scenografico contesto di una ex fabbrica di alluminio costruita a Bolzano in periodo fascista, l’esposizione curata dal collettivo artistico indiano Raqs Media Collective. Di rilevanza nel titolo particolarmente evocativo, ed intraducibile perfettamente nella lingua italiana, era la parola “rest” intesa in inglese nella sua doppia accezione di residuo e pausa. Ciò su cui i curatori volevano soffermarsi era l’importanza o, per meglio dire, l’ipotetica rilevanza di ciò che seguendo la logica comune siamo abituati a lasciare da parte. Il generalmente non utilizzato, il dimenticato, lo scarto, quella parte di materia (fisica e ideale) considerata “inutile” e dimenticata diveniva protagonista. Richiedeva un momento di riflessione.

Le storie che narriamo, gli eventi che ricordiamo, le cose che osserviamo, i suoni che sentiamo e decifriamo, tutto quello che buttiamo o conserviamo sono frutto di un’accurata selezione, influenzata dalla nostra formazione culturale, dalle nostre tradizioni, dagli insegnamenti che riceviamo. Ma prestare attenzione ad altri eventi, ad altre memorie, potrebbe cambiare il nostro ricordo del passato? E ciò non muterebbe inevitabilmente la nostra percezione del presente e le proiezioni del futuro? Se queste non sono altro che convenzioni culturali potremmo forse davvero provare a ri-scrivere la “storia”? Questi, a mio parere, i quesiti aperti con il progetto dei curatori.

Una vecchia fabbrica di alluminio adibita alla produzione di materia prima per gli armamenti durante il ventennio e per lungo tempo in completo stato di abbandono, diveniva scenario per nuove “immagini”, per una moltitudine di rappresentazioni, che espressamente enfatizzavano il bello, il poetico, l’essenziale dello “scarto”.

La fabbrica fu costruita negli anni ‘30 per incrementare il processo di “italianizzazione” allora in corso in un luogo abitato in maggioranza da persone di lingua tedesca e per lo più contadine. Sulle distese di alberi di mele furono costruite gigantesche macchine produttive. Questo luogo simbolo di astio e di guerra, bellissimo e austero, abbandonato e accantonato, nella zona industriale e poco frequentata della città acquistava, attraverso l’arte, una nuova possibile funzione, una vitalità insperata (non così originale forse come idea, ma davvero riuscita come proposta).

Anche in questo caso coinvolti erano sia artisti che intellettuali di diverse nazionalità, molti dei quali ignoti al mondo dell’arte, tra cui alcuni addirittura alla loro primissima esperienza espositiva. Le opere selezionate per questa mostra, per lo più site specific, interpretando variamente il concept – chi in senso strettamente letterale chi in maniera più vaga, metaforica o poetica – rendevano l’intero percorso espositivo di una chiarezza e trasparenza fulminante.

Decisamente la più comprensibile, immediata e senza dubbio scenografica mostra delle 4 realizzate è stata anche la più apprezzata dal pubblico dei non addetti ai lavori. Premiata insomma la, in un certo senso, semplicità e linearità di un discorso curatoriale (nella selezione delle opere stesse) quanto espositivo.

Davvero intelligente attività svoltasi all’interno era anche “Tabula rasa”, ulteriore brillante tentativo di incrementare i rapporti con la comunità locale. Nel senso letterale del termine, tabula rasa ripartiva ogni giorno da zero. Una stanza vuota attrezzata di tecnologia di base e un lungo tavolo munito di molte sedie era tutto ciò di cui si componeva questo spazio. Una serie di eventi quali lectures, performance, mostre lampo, concerti, feste, workshop e molto altro avevano luogo lungo l’intero periodo di apertura della mostra e a entrata gratuita. Esperienza ben riuscita nel coinvolgere non solo i classici frequentatori delle mostre d’arte o i turisti di breve permanenza, ma la comunità locale nel suo complesso. Esperimento senza dubbio da riprendere e riproporre, a cura del torinese (ma trentino e alto atesino di adozione) Denis Isaia.

Fortezza – Scenarios

Nel Forte asburgico di Fortezza costruito nel 1830 sulla scia degli attacchi Napoleonici, come detto, si sono invece concentrati tutti e tre i team curatoriali insieme. Fortezza gigantesca, ingegneristicamente di altissimo livello, poggiata su tre diversi livelli e mai visivamente inquadrabile per intero, immersa nelle montagne e attraversata da binari e un’autostrada, non fu mai attaccata. Inevitabile l’associazione al Deserto dei tartari di Dino Buzzati; migliaia di soldati rinchiusi nelle sue sobrie e severe mura in attesa di qualcosa che non venne mai.

Scenarios era il titolo di questa esposizione, la più sperimentale e più azzardata forse di tutte le altre. Quasi nessuna opera palpabile. Uno spazio sgombro, pervaso solo di suoni.

Dieci autori tra scrittori, giornalisti, filosofi, storici, drammaturghi, artisti erano stati chiamati a scrivere dei testi che potessero accompagnare la visita di questo luogo maestoso che doveva, sarebbe potuto essere, ma non fu mai. Testi poi tradotti in italiano, tedesco e inglese, interpretati da un regista teatrale, recitati da attori e diffusi attraverso sofisticate postazioni di ascolto che ricreavano atmosfere sonore di incredibile diversità, legate ai materiali stessi dello spazio e alle storie narrate. L’intento era quello di stimolare l’immaginazione. Questa volta quella dello spettatore.

Un contesto libero e vario come quello di Fortezza, privo di immagini ma pieno di leggende, storie reali e immaginarie, volatili e impalpabili, avrebbe potuto annullare anche solo per un attimo le nostre barriere strutturali, lasciar vagare la nostra mente lungo nuovi percorsi?

Questo, per me, l’esperimento dei curatori. Utopico forse nei suoi intenti. Non totalmente riuscito per diverse motivazioni. Una era che il pubblico, specializzato o no, non è più abituato a non vedere. Ci si aspetta sempre qualcosa. Si è in attesa d’istruzioni, di scorgere questo o quello, di leggere un comunicato. Lasciarsi trasportare e strutturare un proprio percorso su poche tracce, per quanto stimolanti non è più cosa facile. Non voglio soffermarmi nell’indagare le motivazioni di ciò, che richiederebbe un’analisi complessa, ma certo è che non siamo più abituati a navigare senza guida, ad immaginare. Altro limite forse era la complessità dei testi stessi. Piuttosto lunghi ed in gran parte filosofici, decisamente non di facile ricezione.

In ogni caso uno spazio veramente meraviglioso (da sottolineare a questo proposito la ottimale ristrutturazione) ed un progetto ambizioso e di avanguardia.

Summing Up

Rassegna coinvolgente e profonda. Un lavoro di ricerca intenso e vero. Riflessivo e riflettente, lo si potrebbe definire. Sotto diversi punti di vista: il richiamo ai luoghi espositivi, l’analisi ponderata del presente, l’accurata selezione di artisti in gran parte “nuovi” ed energici, gli allestimenti coraggiosi. L’intero team della Manifesta ha davvero osato con cognizione. E oggi questo non è assolutamente cosa da poco. Definirsi e caratterizzarsi, lasciare un’impronta in un panorama di eventi internazionali ormai sovraffollato, non è cosa da poco. Non lo è soprattutto la volontà di farlo con piena e “professionale” consapevolezza del rischio.

L’altra assoluta particolarità di Manifesta, enfatizzata dalla difficoltà (frequente) e dalla non ovvietà (costante) dei contenuti trasmessi a un pubblico indifferenziato, è stato anche l’avvalersi di un sistema didattico ben progettato e particolarmente economico (spesso anche gratuito) che ha coinvolto tutte le fasce di età (con workshop organizzati finanche per le scuole elementari) all’interno di tutte le mostre. La possibilità di “ricezione” quindi (meritoria considerata la mera autoreferenzialità dilagante oggigiorno) era tra gli obiettivi primari dell’organizzazione.

Che aggiungere?

Forse il consiglio di visitare la prossima manifesta(zione), che aprirà i battenti nel 2010 in Spagna, in dialogo con l’Africa del nord.

Sicuramente alte (almeno le mie) aspettative…

Dall’alto:

Ex-Peterlini, Rovereto, 2008. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen.

Fortezza/Franzensfeste. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Wolfgang Traeger.

Manifattura Tabacchi, Rovereto, 2008. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen

Palazzo delle Poste, Trento, 2008. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen.

Manifestation, Stazione Ferroviaria, Rovereto, 2008, Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen.

Ex-Alumix, Bolzano/Bozen, 2008. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen.

Francesco Gennari, Come se (As if), 2001. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen

Piratbyrån (The Bureau of Piracy), Please Join The Party, 2008. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Yoeri Meessen.

Palazzo delle Poste, Trento. Courtesy of Manifesta 7. Photos © Wolfgang Traeger.