Robert C. Morgan, curatore e critico d’arte di rilievo internazionale. Tra i suoi scritti più noti, The End of the Art World (Allworth Press, 1998). Recentemente ha curato libri su Gary Hill (2000) e Bruce Nauman (2002) per la Johns Hopkins University Press. Insegna alla School of Visual Arts di New York.

Mi interessa il lavoro di Maurizio Bolognini, artista che rifiuta l’arte come sistema di valori immutato nell’accelerazione della nostra cultura globalizzata e basata sull’informazione. Mi interessano la sua implicita critica dell’arte, il suo desiderio di prendere le distanze da ciò che oggi sostanzia un’insulsa, sebbene apparentemente integra, agenda commerciale in cui i nomi di alcuni artisti blue-chip occupano costantemente la prima linea della nostra attenzione, diventando oggetto di discorsi compiacenti. Non posso non interrogarmi sulle rivendicazioni, utili quanto eretiche, di Bolognini riguardanti la scomparsa dell’arte. La sua posizione non-artistica disconosce il territorio riservato al soggetto, all’energia creativa che si arresta e riprende a seconda delle circostanze psicologiche e contestuali delle emozioni. Ancora, sono interessato alla fine dell’arte come fenomeno, emergente un’altra volta nell’Italia settentrionale, un secolo dopo che Marinetti contestò il ruolo della natura nell’arte come fattore mimetico, a favore della macchina. Considero l’appeal concettuale di Bolognini come un rifiuto allargato di questo fattore – dall’industria alla post-industria, all’età dell’informazione.

Da quando ho scritto un breve saggio per la rivista italiana “Tema Celeste”, The Investment Power of Amnesia (1992), che più tardi è diventato la base di un libro pubblicato a New York con il titolo The End of the Art World (1998), tutti i segnali vanno nella direzione di un’arte al servizio dell’investimento, sostenuta da una retorica fatua e ripetitiva, interamente programmata e pilotata dai media, al punto che gli artisti non sono più in grado di fare gli artisti. La borsa valori si è rivelata il modello adatto a usurpare il territorio della consapevolezza dell’arte, e gli artisti oggi, sempre che abbiano qualche aspirazione commerciale, possono lasciarsi catturare in un netscape di immagini di sintesi, di bit e di bite. Non posso che vedere il lavoro di Bolognini SMSMS (Short Message Service Mediated Sublime) come una provocazione necessaria per contrastare la macchina dell’industria culturale, così come fu descritta da Adorno, che è entrata ironicamente in competizione con la nascita del multi-culturalismo e della globalizzazione culturale. Considero un merito di fondo nel lavoro di Bolognini l’aver rimesso a fuoco la problematica dell’arte in relazione alle tecnologie dell’informazione, che sembrano rendere le idee convenzionali dell’arte avanzata – sia nella produzione che nella distribuzione – irrilevanti (almeno nella prospettiva di dominio pubblico che è, naturalmente, quella dei media commerciali).

Bolognini si è reso conto, come aveva fatto Allan Kaprow tre decenni fa, che forse la soluzione a tutto questo è di trasformarsi in un anartista (unartist) e non pronunciare la parola “arte” rispetto a quanto si sta facendo o – nel caso di Bolognini – rispetto a ciò che il software pensa di fare. Nell’ambiente digitale contemporaneo, i riferimenti che caratterizzano la cultura, la politica e l’economia, sono piuttosto diversi da com’erano quando Kaprow pubblicò i suoi famosi saggi con il titolo “The Education of the Unartist” (1971-74). Negli anni Settanta, si riteneva che le persone non comunicassero per la maggior parte del tempo. Ora si ritiene sbagliando che grazie a Internet e ai computer si comunichi meglio che mai. In realtà non è così, semplicemente vengono scambiate informazioni cui si dà il nome di comunicazione. Questo scambio essenzialmente fatuo di informazioni si traduce a livello di massa in una specie di seduzione che spinge a prendere le distanze dalla soggettività e dall’immaginazione a favore della panotticalità e dell’accesso sociale al mondo onnisciente e virtuale dell’informazione!

Penso che qualsiasi idea autenticamente innovativa nell’arte – come nella politica e nell’economia – non possa sussistere senza qualche forma di critica interna, e che le forme più efficaci di questa critica possano essere suscitate dall’esterno del ciclo; cioè dall’esterno del contenitore in cui il programma è immagazzinato. Attraverso un processo di mediazione, l’interno riflette l’esterno. Se capisco correttamente questo fenomeno, è denominato ecologia dei media: non c’è effetto senza una causa. Così quando Bolognini immagazzina i suoi algoritmi nei Computer sigillati, questo ci dice che le informazioni stanno funzionando con variazioni temporali e numeriche ma che le costruzioni lineari non sono visibili. Sono chiuse all’interno, negate alla visibilità.

Il metodo, in un certo senso, assomiglia a quello dei primi lavori del concettualista americano Robert Barry, che nel 1968 esponeva il suo 90 mc Carrier Wave (FM), segnali radio in una galleria vuota, e nel 1969 metteva le radiazioni del Cesium 137 (0.51 MEV Beta Energy) in un’altra galleria. In ciascun caso non c’erano segni visibili del lavoro. Sia che parliamo dei Computer sigillati di Bolognini – più di 200 in funzione dal 1992 – o delle Carrier wave e dei lavori con le radiazione di Barry alla fine degli anni Sessanta, il concetto è un aspetto importante. Qui siamo messi in condizione di rimettere a fuoco la problematica dell’arte, l’arte al più alto livello sottratta ai suoi sistemi di produzione e distribuzione commerciale, e possiamo riesaminarla – nella sfera del pensiero impercettibile. Quando ci occupiamo della realtà invisibile come arte – sapendo che qualcosa viene prodotto automaticamente – pensiamo all’arte in un modo differente. In termini convenzionali, questa è la fine dell’arte così come la conosciamo; ma ciò non esclude la possibilità di pensare all’arte, o di indicarla, in modo diverso.

Come Witoild Rybczynski ha chiarito nel suo libro Taming the Tiger: The Struggle to Control Technology (1983), non è la tecnologia in se stessa a usurpare la cultura. Piuttosto è la mente che osserva e delega la propria funzione. Così quando Bolognini parla di un nuovo ruolo dell’artista, come qualcuno che osserva e che delega, lo trovo interessante. Si avvicina al Light-Space Modulator di Moholy-Nagy (1922-30) – schemi astratti prodotti attraverso gli effetti di luce che rimbalzano dalle cromature e dall’acciaio, riempiendo la stanza di una specie di estasi e di effervescenza distesa e tranquilla. Perchè no? Il piacere è così estraneo all’arte? Bolognini ha parlato del suo “zoo tecnologico”. Mi piace questa definizione. Suggerisce che a un certo punto gli animali di questo zoo possano essere liberati. Ma quel tempo non può essere oggi. Sigillare i computer, naturalmente, è un’operazione più filosofica, ma anche questo è importante. Questa è la base per suscitare una critica dall’interno dell’arte, necessaria in certi momenti – oggi più che necessaria, di importanza vitale. Quando i computer sono sigillati il contesto che circonda la loro visibilità normativa è messo in discussione. Quel tempo è oggi.