Box3 – La città che muta
Da un’idea di Salvatore Mauro e Anna Milano Carè
A cura del collettivo Agita (Lincoln Dexter, Diego Marchi, Laura Laruffa, Simona Raho, Valentina Trisolino)
Artisti: Anna Milano Carè, Elnosworld, Gabriele Girolami, Gianfranco Grosso, Lanvideosource, Franco Losvizzero, Salvatore Mauro, César Meneghetti, Matteo Peretti e Alessio Facchini, Pietro Ruffo, Daniele Spanò, Daniele Statera, Sten e Lex, Danilo Torre, Zo-Loft Architecture.
Dj-set e live visual in occasione dell’inaugurazione: Dversion, Okapi, Mir, Nicola Linfante e Federico Casagrande featuring Francesco Giannico, The 2 Mellow Boys.
MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea
6-22 luglio 2010

Note:
(1) P. P. Pasolini, Ragazzi di vita (1955), ed. cons. Garzanti, Milano, 1994.
(2) P. Pascali, Lo spettatore, poesia scritta in occasione della mostra personale alla Galleria l’Attico, Roma 1966.
(3) G. Celant, Ad Amalfi ho intuito che, in Arte povera più azioni povere, catalogo della mostra, Amalfi, 4-6 ottobre 1968. Rumma Editore, Salerno, 1969.
(4) Sun Tzu, L’arte della guerra, ed. cons. Mondadori, Milano, 2003.
(5) P. P. Pasolini, Ragazzi di vita (1955), ed. cons. Garzanti, Milano, 1994.
(6) H. P. Lovecraft, The Whisperer in Darkness (1930), trad. it. Colui che sussurrava nelle tenebre, in I racconti del Necronomicon, Newton, Roma, 2010.

A proposito della mostra Box3 La Città che Muta a cura del collettivo Agita (Master-Curatori del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università “La Sapienza”, a.a. 2008-2009)

“Tutta Roma era un rombo: solo lì su in alto, c’era silenzio, ma era carico come una mina”.
P.P.Pasolini (1)

La città muta, cambia in continuazione, registrando e contenendo le evoluzioni di tutti i suoi abitanti. Ma questa è Roma, la Città Eterna, ed il fatto che stia cambiando fa riflettere: ci fa restare fermi a fotografare per non dimenticare, o al contrario ci fa girare come trottole nei suoi paradossi logistici. Talvolta ci fa fantasticare sul mitico mondo sommerso dal tempo che sta ancora lì sotto i nostri piedi.

“Io sono come un serpente
Ogni anno cambio pelle
La mia pelle non la butto
Ma con essa faccio tutto
Quel che ho fatto di recente
Già da tempo mi repelle”

Scriveva Pino Pascali (2), uno degli artisti più importanti nel movimento dell’Arte Povera: eclettico e veloce per antonomasia, iper-creativo fino all’insofferenza. Non faceva in tempo a finire un lavoro che subito gli passava un’altra idea per la testa e delegava agli altri il completamento delle cose iniziate. Sandro Lodolo stava a lì a raccogliere le sue idee, a rendere la sua furia creativa qualcosa di intellegibile anche per gli altri.

Germano Celant individua nel fare critica d’arte un “evento in divenire con la realtà attuale e contingente […] il fare non offre ricette o dettagli rassicuranti, ma si identifica solo con l’avvenimento in corso” (3). Aggiunge inoltre che “nel lavoro del critico bisogna non trovare più un valore rassicurante ed unitario, ma ricercare il mutamento, la contingenza, la precarietà e l’instabilità del lavoro”.

La distruzione e la destrutturazione sono la prima parte dell’azione creativa. Bisogna distruggere per creare. Questa è l’arte di Murakami che sfonda le porte di carta con il suo corpo. L’opera d’arte era proprio quel momento di distruzione. E così la comunità artistica dell’espressionismo si unì intorno agli amici di Pollock e celebrò il ricordo dell’artista americano morto in un incidente d’auto.
Distruggere è necessario. “Non si può riempire una coppa che è già piena”, disse inizialmente Neytiri all’Avatar di Jake Sully, rifiutandosi di insegnare all’ingenuo esploratore le regole e i costumi della sua società.

De-strutturare – Self-portrait empty.
È la prima parte dell’opera di Anna Milano Carè. Nella prima stanza del suo quadro da attraversare c’è uno specchio ridotto in mille pezzi. Nella parete opposta c’è un’illustrazione di un bambino mal vestito, sporco, evidentemente infelice. Il bambino avrà circa cinque anni, il suo lavoro è andare in miniera a stanare smeraldi: “La vita non vale uno smeraldo”, recita il titolo. Lo specchio va in frantumi, non possiamo crearci un’identità in una società così crudele e stupida che pensa solo al profitto e non al benessere delle persone. Nemmeno dei bambini! Resta, accanto a quello che rimane dello specchio, qualche ritratto dei nostri familiari a ricordarci chi siamo e a darci qualche traccia da seguire per trovare la nostra funzione in questo pianeta.

Non è rassicurante stare e darsi da fare al museo, il museo è totalmente destrutturante, pone interrogativi più che dare delle risposte. Se ne esce più confusi, più instabili di quando ci si è entrati. È proprio questa la sua funzione: destrutturare, mandare in crisi e lasciare la possibilità di ricostruire un’identità diversa. Migliore, sicuramente più pensata, più vicina alla nostra volontà e non soltanto il riflesso di come gli altri ci vogliono.

Il museo non rassicura, non è come la televisione che massaggia, conforta, conferma ed inchioda gli spettatori in una stasi fisica e mentale. Lascia nelle loro menti impoverite la non-idea che le cose non si possano né cambiare né creare, ma che la realtà sia qualcosa di dato a cui bisogna adattarsi senza farne parte.
Questo subdolo meccanismo è denunciato dall’opera di Matteo Peretti: Synthetic Brains. L’opera è composta da cinque televisori al tubo catodico, svuotati dalle componenti elettroniche e riempite con del materiale plastico espanso. Il nostro cervello non ci appartiene più: è la non-azione di guardare la televisione che lo plasma.
La realtà viene sottratta alla nostra potenza creativa; il mondo ci viene “servito” come se non potessimo farne parte e cambiarlo. Nell’opera di Gianfranco Grosso Servito è anche un riferimento al gioco del poker. La carta che rappresenta è un Jolly: il matto per eccellenza. In realtà osservando bene l’opera possiamo dire che non c’è nemmeno disegnata una carta, in quanto i limiti non ci sono: la carta non è delimitata da alcun argine. Questo è il meccanismo del jolly: non è niente. La sua identità è svelata esclusivamente dalle carte che gli stanno accanto. Questa connotazione funzionale viene ulteriormente enfatizzata nell’opera di Gianfranco Grosso perché Servito non è solo un jolly ma un jolly senza volto. Nel particolare deduciamo che la carta mutabile sta a significare un asso di cuori: proprio perché è l’unico asso mancante.

Il jolly come l’acqua:

“Impercettibile! Impercettibile!
Nella piena assenza di forma.
Divino! Divino!
Nella piena assenza di rumore.
In questo modo si diventa padroni del destino del nemico” (4)

Ed è l’acqua la protagonista assoluta dell’opera di Salvatore Mauro. Seascape è un light-box composto da tre schermi ognuno dei quali, oltre alle immagini, contiene acqua che viene messa in movimento dall’aria portata da cannucce flessibili. Il risultato è quello di creare delle bolle d’aria che muovendo l’acqua generano un suono piacevole e rilassante, simile a quello di un bagno turco.
Senza acqua non possiamo vivere, il nostro corpo come il nostro pianeta è composto al settanta percento circa di questo elemento. È l’elemento cangiante per eccellenza: non ha forma ma allo stesso tempo ha tutte le forme possibili.

Il traffico sul LungoTevere scorre perenne ed il fiume è ormai diventato silenzioso. Muto. Il suono delicato e giocoso dell’acqua in movimento è perennemente coperto da un altro fiume di luci colorate e di chiassosi gas di scarico. Quel serpente rumoroso e mal organizzato che uccise Pino Pascali mentre cavalcava la sua amatissima moto. Era il 1968 e lui aveva solo trentatré anni quando perse la vita su quella strada a sonagli del Muro Torto.

Come il serpente perde la propria pelle, la città muta e nel momento in cui abbiamo definito il paesaggio cittadino attraverso fotografie, disegni, descrizioni e racconti di vita; la città già è cambiata e quella che abbiamo raccontato o imprigionato nei nostri ricordi e nelle fotografie non è più la stessa città che in questo momento si muove e vive.

La muta è la pelle del serpente, il rettile se ne libera stagionalmente o per sfuggire alla presa dei cacciatori. L’incauto cacciatore lo stringe nella propria morsa, ma quello che gli rimane è solo la sua pelle morta, lui è scappato via, elegante come solo un animale a sangue freddo sa essere.

Muta. Eppure è sempre la stessa. Mai il paradosso di Eraclito di Efeso ci fu più chiaro: “Nulla è permanente tranne il cambiamento”. Panta Rei.
La Via Donna Olimpia descritta da Pasolini nel suo Ragazzi di vita quant’è diversa dalla Via Donna Olimpia di oggi. E così il Tevere e l’Aniene in cui il Riccetto e compagni si fanno il bagno. Quanto ci sembra lontano, sembra così irrimediabilmente passato.
Sembra archeologia potersi bagnare nei fiumi urbani e invece sono passati solo sessant’anni: un tempo inferiore all’arco della vita umana. Il riferimento ai fiumi romani non è affatto casuale: Eraclito usa il fiume per spiegare la sua teoria del divenire: “Ci bagniamo nello stesso fiume, eppure non ci bagniamo nello stesso fiume” e la più celebre: “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”.
Nel romanzo che l’ha reso celebre, Pasolini dedica un intero capitolo, verso la fine del libro, al bagno nell’Aniene ed è il più emozionante: descrittivo, dolce, feroce e malinconico allo stesso tempo.
“Venivano ancora cricche di ragazzini da in fondo alla curva, tra le stoppie che qua e là bruciavano lentamente sulle scarpate della Tiburtina, sul ciglione del fiume, scoppiettando sotto le piccole lingue di fuoco. Venivano due o tre alla volta, baccajando e zompando contro la campagna vuota con in fondo le pareti bianche del Silver Cine e la gobba del Monte del Pecoraro”. (5)
Il racconto diventa ciclico, il Riccetto non è più un “pischello” come nella prima pagina del romanzo, quando per arrivare “da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare per il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al Viale dei Quattro Venti”. È diventato grande e ora lavora con i grandi. Gli altri, Mariuccio e Genesio, sono troppo piccoli per reggere il confronto e rispondere a tono alla sue battute. Il periodo della sua formazione come il romanzo si sta avviando alla conclusione.

Come l’arco ha bisogno di tendersi all’indietro per scagliare la propria freccia più lontano, così l’architetto che abbia voglia di fare un progetto nella città eterna guarda all’archeologia e alla storia, al sostrato terreno e alle sue stratificazioni che nascondono i secoli come i nodi di un albero rivelano i suoi anni.
Di questa energia è fatta l’opera d’arte di Pietro Ruffo Nuovo Paesaggio Italiano. Si tratta di tre strutture di legno messe su un “white cube” avente degli specchi nella parte superiore. Tutt’e tre le strutture si poggiano su pilastri piuttosto esili se confrontate con la struttura stessa. Se dall’esterno queste miniature di edifici sembrano molto semplici e spoglie, guardando gli specchi posti sulla parete superiore del cubo espositivo si può vedere al loro interno. Noteremmo allora che gli edifici sono molto più complessi di quello che sembrano dall’esterno; a uno sguardo più lento ed attento rivelano cose che a prima vista non avremmo notato.
Spesso ai visitatori sfugge il riflesso del white cube, soltanto dopo averglielo fatto notare se ne accorgono, e rimangono meravigliati. Questa gradualità della scoperta è parte integrante dell’opera d’arte. È un invito che l’artista ci fa a guardare con più calma e più nei dettagli la nostra realtà quotidiana. Perché se la riteniamo semplice è il nostro sguardo che è frettoloso e superficiale e non rende giustizia alla complessità dell’archeologia e dell’architettura che ci circonda.

Se dicessi “gruppi di colline e valli” indicherei un oggetto al di fuori dell’osservatore. Ma paesaggio è un concetto relativo, non esiste paesaggio senza osservatore. Il paesaggio è il raccordo del mondo esterno ai nostri sensi, è animato dalla vita di chi lo guarda e lo ascolta.

Il paesaggio è vivo e vivibile a tutti gli effetti, si rivolge a tutti i sensi e alla vita vera e propria del viandante.

L’arte esce sempre di più dalle sale espositive per mischiarsi alla vita fino a cancellare la differenza tra arte e vita. L’opera di Elnosword è una cornice dorata che al proprio interno non incornicia nulla lasciando vedere il muro bianco dietro di sé; tutti i disegni sono all’esterno della cornice e alcuni escono addirittura dalla sala espositiva. Il quotidiano è troppo interessante, troppo carico di vita per poterlo chiudere in una sala espositiva: il tempo libero con le sue suggestioni ci invita a fare sport, ad andare in vacanza a comprare il nuovo stecco gelato a tre gusti. I disegni sono variegati e divertenti: una racchetta da badmington, la scritta “zimmer frei” (camera libera in tedesco), gomme caramelle, gelati e mocassini.

Le sculture di Franco Losvizzero sono immobili come statue, ma in costante divenire. Sono delle creature mutanti che uniscono nei loro corpi la biologia di organismi diversi. In Box3 ne vengono esposte sei. La seconda opera Cow-Clown fa vivere così tante specie nel proprio corpo da essere inidentificabile. È di genere femminile. Sdraiata sulla schiena, i suoi seni non si adattano alla gravità come quelli in plastica delle Barbie Mattel. Ha le cosce di pollo, una gamba recisa all’altezza del ginocchio sembra aspettare di essere sostituita come una componente bionica. L’altra gamba si piega all’indietro come quella dei fenicotteri. Ha un braccio fatto ad ala di pollo, l’altro braccio è umanoide ma termina in una zampa di gatto, di cui sono evidenti i cuscinetti. Non rassicura affatto, terrorizza.
In Pan-Pax il mutamento ripercorre la storia degli organismi viventi che, generati dalle acque, hanno mutato la propria pinna in gambe per poter camminare sulla terra. Pan-Pax è la quarta opera; si tratta di una scultura in vetro con la faccia e il braccio sinistro in cernit, è sdraiata sul dorso e si tiene in equilibrio grazie a due piedistalli tondi inseriti sulla schiena; anche la pinna laterale destra è funzionale al mantenimento della posizione. Somiglia ad una foca anche se alla fine la coda si divide in due zone più ampie; come se la pinna caudale si stesse trasformando in gambe. Il braccio destro è rivolto verso l’alto, terminando in una mano umana che sta aperta ed ha il pollice opponibile girato verso il viso. La bocca non è disegnata e gli occhi sono due piccoli buchi, le orecchie si inseriscono nella parte superiore della testa, sono più grandi di quelli di un gatto ma non abbastanza grandi per essere quelli di una lepre.

Sono inquietanti e ricordano le creature paleogeniche di Lovecraft.
“Erano delle cose rosate, lunghe circa un metro e mezzo, con corpi da crostaceo dotati di grandi pinne dorsali, o ali appaiate, con numerose serie di membra articolate e una specie di ellissoide complesso ricoperto da una moltitudine di antenne assai corte, lì dove normalmente ci sarebbe dovuta essere la testa”. (6)
Lovecraft morì di cancro all’intestino tenue. L’organo più creativo per eccellenza è proprio il nostro intestino. Trasforma il cibo in energia, muta quello è destinato alla decomposizione in azioni, pensieri: in noi stessi. Scriveva che “il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto” e nonostante questo non aveva capito che il suo razzismo era solo un riflesso della paura, o forse l’aveva capito ma sfuggiva al suo controllo. Era cristiano e credeva che ci fosse Dio a giudicarci dopo la morte, un Dio buono che ci avrebbe redento da qualsiasi peccato. Tranne uno: il cannibalismo. Mangiare carne umana è troppo grave, non c’è perdono, non c’è redenzione da un’azione del genere. Nessun perdono; nessuna trasformazione, nessuna trasmutazione di cibo in energia; così il cancro si prese il suo intestino. Il corpo ha seguito la mente nei pregiudizi di forma ed infine ha generato la malattia.

Il cambiamento è continuo, perpetuo: ogni giorno qualcosa della nostra città e delle persone che frequentiamo cambia in maniera impercettibile, così impercettibile da sfuggire alla nostra coscienza. Tutti abbiamo provato questa sensazione frequentando delle persone, che siano colleghi o amici: vedendole giorno dopo giorno non ci accorgiamo di quanto queste stiano cambiando, ci sembrano sempre uguali a se stesse fino alla noia.
Facendo la stessa strada per andare a lavoro o all’università o frequentando gli stessi luoghi tutti i giorni, non ci accorgiamo di quanto questi siano in continuo mutamento. Ma se partiamo per un viaggio, dando un taglio alle nostre abitudini, nel momento in cui torniamo alla nostra routine ci rendiamo conto in un colpo d’occhio di quanto le cose siano cambiate. Così, rivedendo i nostri amici o i luoghi che prima frequentavamo quotidianamente e sovrappensiero, tutto ci sembra nuovo e talvolta il dubbio ci assale: cos’è cambiato? È veramente cambiato quello che ci sembra diverso, oppure semplicemente non ci avevamo fatto caso poiché assorbiti dagli impegni quotidiani? Oppure siamo noi ed il nostro sguardo ad essere cambiati? Forse il viaggio che abbiamo fatto ci ha aperto gli occhi, ci ha fatto crescere ed in qualche modo non siamo più quelli che eravamo prima di partire. Di conseguenza è inevitabile che, essendo diversi, vediamo le cose in maniera diversa, il nostro sguardo e il rapporto con le cose che osserviamo è mutato facendoci scoprire altri punti di vista.

È proprio di questo che l’opera d’arte di Anna Milano Carè ci parla nel suo De-Strutturare-Self Portrait Empty– De-Cantare …Sofia…. Nel passaggio da una stanza all’altra avviene il mutamento. Come dice il titolo dell’opera, basta lasciar decantare per far sì che la magia del cambiamento prenda forma. I vetri pericolosi e aridi sono diventati biglie colorate e levigate; e questo non grazie alla fatica, al sudore, ma soltanto grazie al tempo e alla natura che, attraverso i suoi elementi, come il vento e l’acqua, mitiga e trasforma lo spiacevole per farne qualcosa di godibile. Il cambiamento avviene, come il vento soffia e piega gli alberi in un modo così peculiare da farli sembrare opere d’arte, come la goccia continua a cadere fino a formare una colonna calcarea ed infine una meravigliosa grotta sotterranea. Così il cambiamento avviene in noi, in maniera edonistica, dolce, come l’odore di un vino buonissimo si mescola all’aria circostante, rendendo il suo sapore più rotondo e invogliando i presenti a bere quel delizioso nettare.
Basta lasciar decantare.

 

Dall’alto:

Anna Milano Carè, De-Strutturare. Self-portrait empty, 1999-2010. Particolare delle lattine che gridano

Elnosworld, Plexiglass di Fustagno. Sulla destra si intravedono le sculture di Franco Losvizzero, sulla destra il lightbox di Salvatore Mauro.

Gabriele Girolami, Colpa di stato. Allestimento nella sala espositiva al piano inferiore del MLAC.

Pietro Ruffo, Nuovo Paesaggio Italiano, particolare.

Salvatore Mauro, Seascape, particolare.

Gianfranco Grosso, Servito. Street Version: la foto è stata scattata per le strade del Pigneto.

Franco Losvizzero, Pan-Pax, particolare.

Photo: Barbara Coviello