La Sots – art (o anche Soc) nacque in Russia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, nel cosiddetto periodo della stagnazione.
Il termine pare sia stato coniato dallo storico dell’arte Vladimir Papernyj nel 1972 per indicare un nuovo movimento di artisti che si muovevano al di fuori dell’arte ufficiale, nell’ambito di quei gruppi che si erano espressi negli anni Sessanta attraverso l’Apt – art (“apt” da appartamento, luogo di esposizione non ufficiale) pur distinguendosene progressivamente. 
Se dunque nella definizione di Sots – art il suffisso Art era collegato al carattere “clandestino” dell’Apt-art, il termine sots /soc era invece legato al concetto sovietico di “realismo socialista” ovvero di socjalisticeskij realizm o soc (sots) realizm. Questa nozione aveva sintetizzato dal lontano 1934 tutta la dottrina dell’estetica sovietica di qualsiasi ambito artistico, che fosse letterario, pittorico, architettonico, teatrale, cinematografico e persino musicale. In tal senso dunque la definizione del movimento degli anni Settanta fondeva due concetti in opposizione: la clandestinità e l’ufficialità in URSS.
Il termine stesso art era assolutamente ambiguo nelle sue reminescenze estetico-borghesi ed individualistico-controrivoluzionarie. D’altra parte il concetto di sots (soc) esprimeva una visione del mondo costruita a sua volta intorno ad un’unica idea: quella del “Noi” rivoluzionario e dell’utopia socialista che attraverso artisti apologeti aveva saputo indicare il “radioso avvenire” dei popoli dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Ciò nonostante la denominazione aveva una valenza in parte anche ironica, posta a sottolineare da una parte che la nuova arte restava indissolubilmente legata al repertorio di immagini ed alla simbologia del socialismo reale, e dall’altra che tuttavia rielaborava questa eredità, spinta da nuove necessità. Ed infatti dal punto di vista dinamico – strutturale venivano ripresi in versione sovietica alcuni dei presupposti caratteristici della Pop art d’oltre cortina.
Così, ciò che in Occidente era pop, nel senso del termine di “banale, quotidiano, a buon mercato”, in Unione Sovietica era sots. E dove in Occidente la cultura del supermercato idolatrava le zuppe precotte o i capelli biondo platino di attrici – mito (limitandoci a dare una definizione certamente non esauriente), dall’altra parte in Unione Sovietica, dove l’iconografia di regime era in primo luogo coscienza collettiva, il riferimento erano le retoriche immagini delle “guide”, i roboanti slogans di propaganda e gli oggetti-feticcio del sistema.
Si veda ad esempio il famoso quadro di Erik Bulatov dal titolo Orizzonte (1972). Qui l’autore, ha raffigurato, secondo le modalitˆ canoniche della scuola realista sovietica, un gruppo di persone di spalle, davanti ad un orizzonte marino. Il concetto di orizzonte, da sempre caro alla propaganda sovietica ed accoppiato a quello di avvenire, nell’opera viene però “marcato” in modo estremamente forte da un accorgimento dell’artista, tanto da spostare di campo semantico il senso dell’opera stessa. Infatti Bulatov ha posto sulla linea dell’orizzonte un nastrino dell’ordine di Lenin, annullando completamente il senso di “infinito” espresso dal concetto di orizzonte marino e chiudendo dunque l’opera in un mondo di riferimenti contingenti e senza vie d’uscita, raffigurato attraverso un procedimento che a questo punto sembra più vicino all’iperrealismo. Qui dunque la prospettiva ideologica del realismo socialista, che doveva rappresentare la realtà vera, esprimendo comunque un afflato romantico verso il futuro, è stata capovolta utilizzando la stessa base di riferimenti ideologico – iconografici che le erano propri. 
Gli stessi temi furono rielaborati in chiave dissacratoria ed al limite del parodismo nell’opera di due artisti considerati i caposcuola del movimento: Vitalij Komar ed Aleksandr Melamid. Riguardo costoro Boris Groys, in Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, ha osservato “…Essi non solo smascherano il mito staliniano, non solo lo de-mistificano, ma al contrario lo ri-mistificano, esaltando Stalin in elemento di un sogno surrealista realizzato accademicamente. I loro quadri sono l’equivalente di una seduta di psicoanalisi sociale che riporta in luce la mitologia nascosta nell’inconscio dell’uomo sovietico, che egli stesso non può riconoscere. […] La psicoanalisi di Komar e Melamid […] lascia che i segni di diversi sistemi semiotici si commutino, si combinino, si ordinino liberamente, per rivelare, per quanto è possibile tutta la rete di associazioni in tutte le direzioni e a tutti i livelli”. Così le loro opere rappresentano Stalin in varie fogge ed atteggiamenti “classici” in contesti però assolutamente parodistici o assurdi, come per esempio nel Doppio autoritratto come giovani pionieri (1982-83) in cui i due artisti si raffigurano mentre suonano la tromba al busto della Guida col volto virile ma vestiti da pionieri, il corrispettivo del balilla italiano in ambito sovietico. 
Ma sbaglieremmo a fare della Sots – art una forma di espressione impegnata politicamente. Il primo impulso del movimento era piuttosto di amplificare la percezione di un’atmosfera particolare, vissuta da tutti gli intellettuali sovietici a diversi livelli ed in modalità differenti, attraverso un gioco di riferimenti ed interrelazioni che avrebbero in alcuni casi sconfinato nel concettualismo (per esempio nel caso di Prigov). Ciò esprimeva per una parte di quegli intelligenty emarginati dal sistema il raggiungimento di una nuova forma di autocoscienza e di un nuovo livello di analisi del sistema culturale russo-sovietico, che fu allora incarnata anche dalla c.d. scuola strutturale sovietica capeggiata da Jurij Lotman. Costui, allora esiliato dalle grandi accademie, dall’università di Tartu scriveva che “l’opera d’arte è un testo”. E come il testo letterario poteva essere inquadrato attraverso una serie di riferimenti intertestuali ed extratestuali, a maggior ragione potevano esserlo le opere degli artisti appartenenti alla Sots – art.
Così i lavori di questi autori servirono a compiere nel momento della crisi dell’URSS, della dissidenza, di ciò che dal punto di vista delle relazioni internazionali portò alla fallimentare invasione dell’Afghanistan, una sorta di anamnesi collettiva. 
Ed ancora una volta quel binarismo identificato da Jurij Lotman e Boris Uspenskij alla base del sistema culturale russo si poté manifestare nell’opera di una corrente artistica che proprio intendeva riflettere sul rapporto tra utopia-realtà, muovendo consapevolmente passi di valzer tra kitsch, propaganda e vita quotidiana. In parole povere la Sots – art smascherava l’utopia sovietica utilizzando i suoi stessi miti, per rappresentarla come una realtà senza avvenire.


Dall’alto:
Komar e Melamid, Autoritratto come giovani pionieri, 1982-83

Erik Bulatov, Orizzonte, 1972