A pochi mesi dalla ultima edizione di “Documenta”, l’undicesima, dopo che recensioni e interventi ne hanno analizzato diversi aspetti da molteplici punti di vista, restano di questa grande esposizione le questioni principali che ha messo in atto, questioni che non soltanto sono state presentate e affrontate ma poste al centro di un dibattito teorico che riguarda lo stesso statuto dell’arte contemporanea: le sue attuali modalità teoriche e pratiche di presentazione.
È stata una mostra che ha prodotto un continuo decentramento di spazi, luoghi, città, punti di riflessione e che, contro la pervasività della globalizzazione culturale oltrechè dei suoi sistemi di presentazione e rappresentazione, ha strutturato il proprio progetto su: la diversità culturale, l’ipotesi e l’apertura di nuovi orizzonti di riflessione, l’incertezza ideologica come spazio per un rinnovamento progettuale, il ripensamento della identità storica e geografica. La mostra è stata realizzata come un immenso “laboratorio” in cui le opere presenti si sviluppavano (vedi l’enorme numero di opere-video, anche talvolta solo di documentazione di realtà storiche e sociali particolari) in una misura spazio-temporale sincronica. Un grande montaggio, in cui opere e riflessioni sono state giustapposte, in spazi molteplici, per determinare nell’osservatore/visitatore la sensazione di non riuscire a vedere tutto, interamente, di stare lì per “vedere” e “visitare” mentre contemporaneamente molte altre situazioni erano in corso. Non c’è stato alcuno scopo didattico: di far capire o presentare in successione pensieri o opere.
Le “Piattaforme” si sono presentate come molteplici spunti, dislocati e organizzati come un immenso “ipertesto”, concettualmente realizzato, con continui rimandi e ritorni per l’approfondimento o la messa in parallelo di diverse situazioni tuttavia affini, e non solo come risultato delle tecnologie comunque presenti. La percezione nelle sale di questa immensa mostra, già tra l’altro iniziata, con le prime “Piattaforme” nel marzo dell’anno precedente, è stata quella di partecipare ad un complesso “work in progress”, con la difficoltà, per la concezione e l’articolazione programmatiche della mostra, e l’impossibilità di afferrare qualcosa di definitivo, completamente, una volta per tutte. Si è continuamente rimasti “a metà”, in una condizione di indefinibilità e di interrogazione che tuttavia costituivano il senso di un progetto articolato intorno alla idea che è oggi impossibile tentare di definire e rappresentare una omogenea e unificata realtà artistica e culturale.
La “Documenta” ha posto come perno centrale, intorno al quale ha ruotato l’intero progetto espositivo, il pensiero di una differente relazione dell’arte con il mondo, ovvero con il contesto in cui l’arte realizza e produce se stessa. In un’epoca di profonde trasformazioni e di cambiamenti storici globali, i parametri dai quali si è partiti per l’organizzazione del progetto espositivo sono scaturiti da alcune fondamentali priorità: prima tra tutte la constatazione dell’impossibilità di pensare un’esposizione d’arte contemporanea se non in parallelo della situazione storica e sociale ad essa attuale. Inoltre ci si è posti criticamente nei confronti della “spettacolarità” e “unitarietà” dell’evento artistico decentrando la stessa organizzazione del progetto: in spazi e tempi diversi, su una durata complessiva di circa un anno, all’interno di cinque “Piattaforme”, a partire dal marzo 2001, che hanno concettualmente posto e affrontato alcuni dei nodi che si riconoscono nell’attuale panorama dell’arte contemporanea, per finire con una ultima fase (la “Piattaforma 5”), vera e propria realizzazione della parte espositiva del progetto. Le “Piattaforme” sono state l’articolazione di dibattiti, conferenze, workshop, durante i quali temi e questioni relativi all’arte e alla situazione storica attuali sono stati considerati da diversi punti di vista: filosofia, economia, politica, storia sociale, estetica, new media, arte e immagini, al tempo di un ripensamento radicale della contraddittorietà lasciata in eredità da modernità e postmodernità, ovvero e in particolare, in relazione al tentativo di avanzare conclusioni definitive, onnicomprensive e generalizzanti per interpretare i fatti della storia, dell’arte e della cultura. L’ipotesi che questa “Documenta” ha messo in atto è stata quella di “mostrare”, nel senso di presentare al pubblico, quanto mai vario e allargato (se in esso si comprendono gli studiosi che nelle varie “Piattaforme” hanno preso parte al progetto), una accumulazione di dati e passaggi, di un montaggio di punti di vista e riflessioni, come base di un diverso approccio all’arte e alla sua funzione critica.
Questo succedersi di ipotesi e riflessioni dislocate in tempi e spazi diversi ha inoltre introdotto una dimensione “narrativa” nuova, secondo la quale il racconto della storia e dell’arte ha seguito un andamento “discorsivo” ovvero fatto di pensieri e ripensamenti, continui zoom e prese di distanza dalla realtà, inserimento non solo nell’esemplarietà dei fatti ma anche nelle pause, negli interstizi, nelle marginalità sia della storia che dell’arte.
La premessa dell’impossibilità di poter arrivare a conclusioni o risposte definitive si è tradotta in una mostra “aperta”, la cui struttura ha privilegiato le relazioni tra le varie fasi del progetto oltrechè tra le differenti e molteplici presenze che ha messo insieme. Dunque in una articolazione che continuamente rimandava ad altro, a cercare al di fuori dai confini di ogni ambito una risonanza e un confronto, ad estendere lo stesso sistema dell’arte dal panorama geografico delle gallerie e dei musei a situazioni extra-artistiche e extra-territoriali, si sono svolti progetti, ipotesi, presentazione di documenti, interventi.
Arte contemporanea e storia del contesto sono state dunque ripensate alla luce di una medesima premessa: una differenziata mappa di orientamenti, secondo le tecniche e le procedure usate, tuttavia accomunati in un impegno che è quello di esprimere un punto di vista sul mondo. Insomma, in questa “Documenta” opere e situazioni presentate, incluse espressioni visive, performative, sonore, di scrittura, hanno indagato alcune questioni fondamentali. La domanda non è stata tanto incentrata su “cosa sia l’arte”, per cercare nuove risposte o nuove conclusioni, ma piuttosto “chi siamo”, “dove siamo”, in cosa si caratterizza e differenzia “l’epoca in cui stiamo vivendo”, riportando la stessa misura dell’incertezza, del dubbio e della domanda alle radici di un diverso approccio alla riflessione e al ripensamento sull’arte e la sua funzione.

LE MARGINALITA’ INVADONO IL CENTRO
Prima di tutto si è partiti da una riconsiderazione della “storia”: del paradigma con cui la storia si costruisce e delle funzioni che mette in atto.
Il fallimento della promessa delle democrazie liberali, il melting pot culturale, le differenti fisionomie dell’identità culturale nell’epoca del postcolonialismo, tutte quelle procedure che si affermano come marginalità in azione contro la centralità di alcune figure storiche dominanti (la nazione, la cultura, la città), lo spostamento della popolazione mondiale sotto il profilo di nuove forme di emarginazione e l’ “aterritorialismo” (secondo un termine di G. Agamben) che ne deriva, sono divenuti le radici di un nuovo, radicale progetto per l’arte: un progetto che, in quanto fondamentalmente critico, ha assimilato in una identica unica misura la teoria e la pratica dell’arte. Inoltre da questo generale turning point, da questa svolta totale, in cui tutte le vecchie certezze e gli antichi punti di riferimento sono abbandonati, è emersa una differente configurazione della ricostruzione della storia, delle sue modalità di strutturazione oltre una diversa presentazione/esposizione di essa. Se la storia, per costruire il proprio processo, da sempre allinea, separa, marginalizza i fatti, secondo uno schema epistemologico parallelo a quello che produce gli standard su cui si definiscono gli orientamenti dell’economia, della cultura più in generale, della politica, a partire dalla crisi di certezze sulle quali questi differenti ambiti avevano edificato i propri sistemi (economico, culturale, politico), la storia stessa, come sistema unificante e centralizzante dei fatti, vede messi in questione confini e allineamenti che ne orientavano lo svolgimento. Le marginalità invadono il centro. Si assiste ad un rovesciamento che ripropone la differenza e la marginalità (culturale, economica, sociale) come aspetto sostanziale della storia, sua specularità senza finzione, sua alterità disincantata in grado di porre in crisi le sue stesse fondamenta. La differenza si configura come uscita dallo schema delle opposizioni che avevano prodotto la demarcazione tra contesti dichiarati incompatibili: tradizione e modernità, economie semplici e alte economie produttive, artigianato contro industrializzazione, regimi agricoli e contadini della società vs urbanizzazione. Ma disincantata perchè?
L’emergenza di realtà storiche e sociali che mettono in crisi le radici e i fondamenti dell’Occidente si delinea come diversitàche da lateralità geografiche, a lungo mantenute entro confini definiti, si spingono al di fuori, per spostarsi verso il cuore stesso di un sistema sociale e culturale che da sempre le aveva escluse. In questo processo di lenta espansione verso differenti situazione geografiche e culturali, ciò che si sottolinea è proprio una radicale peculiarità di non convenzionalismo, di non subordinazione, di vitalità e di energie “estranee”, che si insinua per infrangere dall’interno fisionomie credute incrollabili.
La “Democracy Unrealized”, come Okwui Enwezor, direttore artistico di questa “Documenta”, ha chiamato la prima delle cinque “Piattaforme”, che hanno costituito la griglia teorica e di articolazione del suo progetto, è dunque l’introduzione di un dubbio, di un interrogativo radicale rispetto a quanto sembrava aver costituito il leitmotiv dell’epoca del postcolonialismo o anche dell’epoca che dal secondo dopoguerra (l’epoca della “guerra fredda”) ha centrato la propria fisionomia sulla “distribuzione” non tanto di sostanze materiali a tutto il globo ma di un concetto: quello appunto di una “democrazia”, come concetto chiave di un orientamento da raggiungere, in linea con la veloce crescita di un sistema capitalistico, con il quale si è andata sempre più assimilando nella sostanza e nel senso di cui era portavoce. Anzi venendo alla fine da esso sopraffatta. Un concetto dunque, quello di “democrazia” che ha poi trovato sinonimi, differenti fisionomie con le quali identificarsi. Come la nozione di “globalizzazione” che ha velocemente invaso il pianeta per trovare e sostenere le ragioni della strutturazione e del significato di un panorama socio-economico come quello della seconda metà del XX secolo. Una spiegazione “globale” per un mondo “globalizzato”.
Queste questioni sono state alla radice della “Documenta” 2002. Una “Documenta” dunque politica, ideologica, troppo “documentaristica” (come è stato detto)? Direi che nessuna risposta alle domande che si potrebbero porre sia sufficiente. Piuttosto questa edizione di “Documenta” ha tentato un’operazione più complessa, più insolita e, con ciò, più difficile da comprendere.
La “democrazia non realizzata” è secondo Enwezor la fase critica di un punto d’arrivo della storia della modernità per cui non si tratta di trovare nuove forme di oltrepassamento della stessa ma di rovesciare la stessa fiducia in una oramai considerata realizzata democratizzazione del mondo. Troppe realtà premono da diversi parti del pianeta, con peculiarità storiche, sociali e culturali inassimilabili.
Da ciò si è quindi sviluppato il progetto artistico che ha cercato nell’arte e nei suoi sistemi di presentazione, negli artisti, nelle opere, punti di vista per affrontare con diverse peculiarità teoriche e pratiche queste questioni. Come la stessa co-curatrice di “Documenta”, Ute Meta Bauer, ha puntualizzato “il ruolo che può avere al giorno d’oggi la pratica artistica, e come gli artisti possono prendere parte attivamente nella società e possibilmente rivestire il ruolo di “intellettuali organici”, come suggeriva Gramsci diventa una questione fondamentale. In particolare, in un’epoca di grande instabilità politica e sociale come quella attuale, l’interesse si è concentrato nell’osservare come gli artisti possono assumere una posizione critica e impegnata attraverso i loro lavori al di là dei linguaggi usati: video, fotografia, pittura, scultura, installazione, azione. Come gli artisti attraverso questi linguaggi possano esprimere e comunicare delle posizioni e dei commenti sulla attuale situazione politica e sociale, è stato dunque uno degli interrogativi intorno ai quali si sono andate costruendo le scelte delle opere, il decentramento dei luoghi, le tematiche affrontate.

UNA SECONDA MODERNITA’?
Si affaccia l’ipotesi di una “seconda modernità” (come io stessa vorrei a questo punto sottolineare) nel momento in cui la profonda svolta degli ultimi decenni rovescia ma anche ripensa i caratteri esemplari intorno ai quali la prima modernità (alla metà del secolo XIX) e poi la postmodernità erano state enunciate. La modernità, prima con C. Baudelaire poi nella ripresa e nella riproposizione di alcune sue concezioni ad opera di W. Benjamin, è stata la fase di un passaggio fondamentale, sul quale il secolo a noi più vicino, ha posto le radici. Contraddizioni e lungimiranti intuizioni sull’identità (individuale e sociale), sulla storia e la concezione del tempo, della “narrazione” di tali temporalità in cui i sensi assumevano un posto fondamentale (un tempo “sensibile” come quello, ad esempio di M. Proust) sono state avviate contemporaneamente. Tanto in parallelo che poi diverse strade sono partite dalla medesima radice, arrivando alla diversità (posizioni estreme) di punti di vista, che la postmodernità ha recuperato, talvolta distorto, ripensato, riallineato. Il rifiuto dell’assoluto e l’instaurazione di un regime del pensiero fondato sull’ambiguità, sulla relatività (Baudelaire), l’ipotesi di un orientamento della storia al di là della spinta ad essa impresso da concezioni radicate sull’idea di progresso, ovvero sulle premesse di una concezione di evoluzionismo storico dello stesso genere di quello della biologia o della scienza (Baudelaire, che già criticava il diffuso “americanismo” del suo tempo e poi Benjamin con la sua straordinaria allegoria del tempo e della storia come “attesa” radicata nell’istante), la messa in questione della dialettica come sterile riproposizione di opposti, di termini (tesi e antitesi) inconciliabili e la lucida intuizione di un superamento di questa modalità del pensiero (il “relativo” e l'”assoluto” e la loro incompletezza, se considerati, separatamente, come già per Baudelaire) attraverso la messa in atto di una nuova ipotesi in cui sono l’errore, la deformazione, il non senso ma assimilato al senso, la spinta verso il “male”, la negatività, il “nichilismo” come esplorazione di realtà incognite, “altre”, da sempre escluse ed invece da recuperare, erano divenuti i segni di un innovativo paradigma critico e di conoscenza del mondo, sui quali ancora la riflessione non si è spenta. Inoltre una profonda crisi di identità lacerava il “soggetto” e con esso certezze e riferimenti. Baudelaire e Nietzsche introducevano uno dopo l’altro le nozioni di “dandy” , di “superuomo”, ovvero di nuovi uomini “eroi” sottratti per˜ ad ogni banale logica fondata su esteriori “eroismi” superficiali.
Se da una parte il postmoderno ha tentato poi di radicarsi proprio su tale ambiguità facendola divenire però un nuovo perno di ancoramento (quasi che all’assenza di certezze e all’eterogeneità in luogo dell’omogeneità potessero essere sostituite la “certezza dell’incertezza” e la celebrazione del “caos” per giustificare ogni tipo di trasversalità ed eclettismo), proprio sul finire del XX secolo, dopo il 1989 e dopo ciò che quell’anno ha portato via per sempre, in un’ epoca in cui si rifiutano le facili e superficiali semplificazioni, si sono andate costruendo le basi per una nuova svolta: quella a cui stiamo tuttora assistendo, che potrebbe essere considerata come l’avvio di una “seconda modernità”.
L’edizione 2002 di “Documenta” ha puntato dunque su molti di questi problemi. Gli artisti pensano la funzione dell’arte fuori e dentro i suoi sistemi e modalità di presentazione. Considerano l’opera come strumento di indagine, che si allinea alla vita e alle sue questioni fondamentali (storia, politica, relazioni umane) ma per forzare di esse il senso. L’opera non viene pensata come risultato definitivo di un pensiero preesistente. L’artista pensa l’opera, dal progetto alle sue fasi di realizzazione, come passaggi “in progress” di un ripensamento sull’identità individuale e collettiva, sui rapporti di potere, sui sistemi che organizzano la vita e la cultura. L’impegno e l’azione nel mondo diventano punti fondamentali di un progetto essenzialmente critico.
Questa “Documenta” si è spinta a fondo in questioni che lungi dall’essere risolte riguardano la peculiarità della contemporaneità a noi più prossima: come l’uomo può riproporsi critico e impegnato all’interno di un “ordine mondiale” il cui epicentro rinsalda continuamente le medesime relazioni, come gli uomini possono ripensare diverse relazioni tra di essi al di là delle diversità e dei confini storici e geografici tradizionali. Ciò in un mondo sempre più complesso, esteso, impossibile da gestire e regolare con gli strumenti tradizionali del potere politico, economico e culturale.

Cerith Wyn Evans, I take my desire for reality because I believe in the reality of my desire

Kendell Geers, Title withheld (score), Situation,1995 – 1997

Carlos Garaicoa (Cuba), Cuban Garden, 1997, installazione – performance

Kutlug Ataman (Turchia), Never My Soul, 2001, video installazione

Zarina Bhimji (Uganda), Hundred Petals, 1997, proiezione di diapositiva

Tania Bruguera (Cuba), Angola, 1997, installazione

Georges Adeagbo, South Africa Year One of the Democracy, 1997, installazione