Gli ultimi anni disegnano abbastanza lucidamente un “milieu” della contemporaneità in cui il teorema della differenza e della ripetizione hanno dato particolari contenuti all’analisi critica. Sicuramente il collante di un’assidua esegesi dei contenuti del contemporaneo va ricercato nella sua formula di base, quella dell’estetica dislocata, tale da permettere un punto di vista sfibrato, quando non addirittura inconciliabile. Le analisi critiche sono state poste in secondo piano dall’arrembaggio tattico delle strategie curatoriali, come nel caso della generazione tekno o proto cibernetica. Le tematiche poste dalla tecnologia sono state inoltre portatrici di nuovi stilemi sempre più codificabili all’interno della disciplina artistica. Come nel caso della web-art, net-art, computer art, arte elettronica, new media arts; diversamente dagli anni precedenti però si assiste alla resistenza di pratiche critico curatoriali che hanno in definitiva il semplice scopo di sottolineare da un campo di differenze una medesima ripetizione, contabilizzata sia nello stile, sia nella prassi attuativa. La libertà degli Anni Novanta ha trovato in un certo modo il suo diritto d’asilo grazie all’avvenuta simbiosi fra questa e l’istituzione. Quanto visto alla Biennale del 2003 è in qualche misura altamente indicativo di quello che succede. Schematicamente la critica ha vettorializzato le sue pretese coniugandole con il referente immediato in un altalenare di segni e di riferimenti quasi del tutto epurati dallo spirito critico. Il problema derivato dalla lettura schematica delle opere, così come viene fatto operativamente in questo periodo, deriva dal fatto che le informazioni sulla contemporaneità hanno acquisito quasi definitivamente una solida base fondamentale di dati: in questi dati non possono essere preclusi quegli esperimenti estetici che hanno dato vita alla sperimentazione. Di conseguenza tutte le operazioni schematiche non hanno, e non possono altrimenti avere, uno stato di contraddizione nei termini stessi del discorso, proprio perché di prassi fenomenologica – quale lo spunto iniziale di “differenza” e “ripetizione” -. A questo punto basterà osservare come la ripetizione e la differenza siano state accomunate nell’incondivisibile pariteticità estetica di questa impossibile Biennale. La critica vettoriale si é spinta sino al limite della soglia di un altro modello compulsivo del giudizio, totalizzante, e per questo pericoloso. Ma la pericolosità di questa interiezione fra differenti estetiche, quali quella vissuta nei corridoi delle Corderie, non risiede nel fatto che queste costituiscano di per se stesse una frattura con il consenso storico, piuttosto il contrario, perché vi si adeguano troppo blandamente. Naturalmente va da sé che ciascuna posizione “nucleo” del sistema dell’arte contemporanea cerca e propone di vedere se stesso come origine e non come fine di un discorso; proprio in questa confluenza dell’inizio si ha semmai il vero collante dell’estetica attuale. Ed è un inizio altamente propositivo che non va a coincidere con il sistema utopico messo in piedi dalla politica, dalle istituzioni. La conseguenza disarmante è che questi nuclei compulsivi esteticamente complessi marciano in diretta contraddizione teorica ma in estrema sicurezza; hanno sistemi appropriati per garantirsi una sopravvivenza comunque e solo per “incidente” vanno a costituire il contesto esterno – che come sappiamo è quasi del tutto ciclicamente anche interno – dell’arte, per creare la necessità di consenso o dissenso. In questa falsità d’azione va a situarsi il pericolo, l’ombra di una relativamente facile strumentalizzazione del discorso dell’arte. Si è certi d’altra parte che il salone Illy sia un’opera d’arte, allo stesso modo e agli stessi termini di giudizio, che sono freddi e distaccati. Il problema a questo punto è pensare che non lo siano ma che anzi costituiscano loro stesse il vero ed ultimo signficato dell’arte. Il pericolo risiede anche nel fatto che la voracità d’esibizione e d’analisi ha inglobato anche istanze distruttive, fondamentaliste e comunque disinteressate ad un contesto esteso. Dipenderà dalla forza di queste fazioni nucleate, e spesso protette da un sistema di segni che in termini antropologici si direbbero tribali, contraddittorie per la loro stessa esistenza. Simili realtà costituiscono il rischio reale che l’azione artistica venga a confluire in azione dirette e coordinate da nuclei inscindibili di forze che praticano la separazione e l’inconciliabilità come unico modo di rapporto con il mondo ed il sistema istituzionale.
Ma allora, poiché il sistema dell’arte è diventato così complesso, tanto da non poter essere compreso e discusso da un’unica lettura, quale importanza potrà avere un’arte che non ha né i mezzi né tanto meno la volontà di darsi un modello criticamente funzionale? Oppure, come potrebbe quest’arte marginale assumere in sé la forza di rappresentare l’unica marginalità, il suo concetto stesso? Di certo si può pensare che l’esercizio critico relativo al sistema a “nucleo” porta inesorabilmente alla critica polinucleata, ovvero quella posizione che fa da elemento relazionale fra differenti moduli estetici. La critica manageriale lo ha fatto senza porsi il problema teorico della sua posizione postponendo ad ogni discorso l’inalienabilità del “fare” e della sua funzionalità economica. Potrebbe anche essere un ottimo modello da sviluppare, ma a quel punto forse si obietterà che in una società specialistica ciascuno dovrebbe fare ciò che è nella sua specializzazione; potremmo affermare che un manager incallito non sappia capire meglio di un organizzatore di mostre quali strategie prendere per affermare il suo “prodotto arte”? Naturalmente no. Allo stesso modo la critica polinucleata ha praticato la strategia del dilettantismo – che è un voluto assuefarsi alla ripetizione – con il calcolo critico di stabilire differenti luoghi in cui poter esercitare il giudizio critico. La critica polinucleata stabilisce i rapporti paritetici ma restituisce un contesto dell’azzeramente teorico in cui l’ipotesi fondamentalista ha una sua possibile praticità d’attuazione. La debolezza della critica polinucleata è la sua professionalità e non la sua incapacità teorica, critica, storico, manageriale; è nella sua inautenticità tatticamente professionale

Lo studio di Mauro Folci, 2003

Rappresentazioni arabe contemporanee, a cura di Catherine David

[Damiàn Ortega, Cosmic thing, in “Il Quotidiano alterato”, di Gabriel Orozco. Venezia, 50¡ Biennale di Venezia, 2003