Note:

(1) ACAF – Alexandria Contemporary Arts Forum; CPS – Chamber of Public Secrets; tranzit.org

(2) Cfr. AA.VV., Manifesta 9. The Deep of The Modern – A Subcyclopedia, Silvana Editoriale, Milano, 2012, pp. 33-288.

(3) Per ‘Zona Economica Speciale’ si intende una regione geografica con un’amministrazione e legislazione economica diversa rispetto quella vigente nel Paese di appartenenza, create per agevolare e attirare investimenti stranieri.

(4) Cfr. Interview with Manifesta 9 Curator Cuauhtémoc Medina and Associate Curator Katerina Gregos su http://manifesta9.org e l’intervista a Carolyn Christov-Bakargiev di Franco Fanelli su ‘Il Giornale dell’Arte’, numero 321, giugno 2012 consultabile su http://ilgiornaledellarte.com

Due anni fa Manifesta chiudeva la sua ottava edizione in Spagna, dislocata tra Murcia e Cartagena e dove, attraverso tre diversi collettivi curatoriali interdisciplinari e autonomi (1), si rifletteva non soltanto sul delicato rapporto tra Europa e Maghreb (precedendo di pochi mesi l’inizio di quella che sarebbe stata poi definita come “Primavera araba”), ma si cercava anche di restituire una complessità eterogenea di pratiche artistiche spesso in netta antitesi rispetto ai discorsi sociali e politici dominanti. Quest’anno la biennale d’arte contemporanea “nomade” per eccellenza torna nel centro dell’Europa, addentrandosi all’interno della provincia fiamminga del Limburgo – a Genk – crocevia industriale tra Belgio, Olanda e Germania.  E non lo fa con spirito reazionario, ma con la consapevolezza che, dopo aver esplorato realtà geopolitiche e culturali ai margini dell’Europa al fine di rintracciarne contraddizioni e possibili affinità, questa volta è il “cuore” dell’Europa stessa ad essere attraversato come realtà ai margini della propria identità storica e culturale, passata e presente.

Un cambio di prospettiva che si rintraccia chiaramente nella nomina di un solo curatore, il messicano Cuauhtémoc Medina (più due curatrici associate, l’inglese Dawn Ades e la belga Katerina Gregos) e nella scelta di un’unica sede, l’edificio Waterschei, ex miniera di carbone attiva dal 1924 al 1987 recuperata in maniera soltanto parziale, che conserva tutto il fascino di un relitto di archeologia industriale e che conferma la politica della Manifesta Foundation di restaurare sedi abbandonate in vista di possibili nuove destinazioni d’uso, pubbliche o private.
The Deep of the Modern, questo il titolo che percorre tutta la nona edizione, parte proprio dall’identità dell’ex miniera belga e dal carbone stesso come materie prime per intraprendere un viaggio che, da punti di vista più laterali o sommersi, provi a ripercorrere criticamente la produzione economica – e quindi anche sociale, culturale – dall’Ottocento fino all’inizio del XXI secolo. Una narrazione scandita attraverso tre percorsi principali dislocati sui tre piani dell’edificio attraverso un allestimento impeccabile e che si intrecciano attraverso correspondence tematiche (con concetti chiave come ‘Accumulations’, ‘Docu-Modernism’, ‘Epics of Redundancy’) (2) e visive (le ampie aperture e trasparenze dell’edificio).

17 Tons è la prima sezione che si incontra nel percorso espositivo; il titolo allude sia a 16 Tons canzone di Merle Travis sui minatori (1946) – sia al celebre Sixteen Miles of String di Marcel Duchamp (1942), nell’intenzione di suggerire un balzo in avanti nel recupero di memorie ed eredità culturali in parte ancora sommerse. Una costellazione che attraversa per frammenti la produzione culturale “nell’Era del Carbone” presentando materiali eterogenei: archivi e memorabilia, per lo più sulla vita degli immigrati nelle miniere belga, tra cui spiccano il poetico allestimento all’inizio del percorso dei tappeti di preghiera degli immigrati turchi, ma anche la raccolta di oltre settemila livret d’ouvriers dei minatori, così come documenti inediti provenienti dagli archivi della polizia belga e collegati agli scioperi dei minatori alla metà degli anni Sessanta (Zwartberg Drama: Police Files).

The Age of Coal è un percorso dove emerge maggiormente il punto di vista di Dawn Ades (esperta di arte surrealista, dada e dell’America Latina) e nel quale si presenta una selezione di opere d’arte storiche del XIX e XX secolo dove il carbone è stato utilizzato come materia prima per portare avanti una serie di riflessioni estetiche e concettuali sul fare arte, e il suo impatto sulla sfera politica e sociale. Dall’omaggio a Duchamp con la parziale riproduzione dell’installazione 1200 Coal Sacks (progettata in occasione della Exposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938) fino alla Bolivian Coal Line di Richard Long che domina scandendo per ventisei metri l’intero spazio della sezione, passando per i pioneristici documentari impegnati di Alberto Cavalcanti o per lavori più strettamente collegati al contesto belga come quello di Christian Boltanski (Les registres du Grand-Hornu del 1997), o alcuni lavori di Marcel Broodthaers della fine degli anni Sessanta dove il carbone diventa il filo conduttore per una serie di lavori critici sull’identità del suo paese, il Belgio (come Trois tas de charbon del 1967).

Poetics of Restructuring invece è la sezione più contemporanea, dove i lavori dei trentanove artisti invitati provano a focalizzarsi su una lettura critica dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni all’interno del sistema economico capitalista globale, concentrandosi spesso sulle nuove condizioni di lavoro o le conseguenze ambientali di tali cambiamenti.

Come si traducono queste riflessioni? Spesso non in maniera originale, ma certamente con un impatto visivo convincente come nella monumentale installazione di Ni Haifeng (Para Production, 2012) costruita da tonnellate di tessuti industriali di scarto da cucire insieme e collettivamente, per creare nuove destinazioni d’uso;  le macchine inutili di Tomaž Furlan (Wear series, 2006-2012) che eseguono con ossessione e ironia alcune azioni quotidiane dei cosiddetti lavoratori “colletti bianchi”; l’articolatissimo progetto Capitalismo Amarillo: Special Economic Zone (2011-2012) di Jota Izquierdo, che traccia lo spostamento di svariati beni di consumo dalla zona di produzione cinese di Guangdong (Zona Economica Speciale) (3) alle vendite clandestine in Messico e in Spagna.

Molto interessanti i lavori site specific di Rossella Biscotti Title One: The Task of The Community e Conductor, entrambi il risultato di un acquisto all’interno dell’asta per la centrale nucleare dismessa di Ignalina (Lituania), nella quale l’artista ha acquistato del piombo e del rame: il primo – materiale più pericoloso e meno smaltibile – viene riutilizzato per creare delle sculture piatte; il rame invece è stato installato all’interno dell’impianto elettrico costruito nell’ex miniera di Waterschei, in occasione della biennale.  

Detriti e relitti di un’utopia sbiadita – quella dell’energia nucleare – come sembra suggerire anche il lavoro di Claire Fontaine (The House of Energetic Culture, 2012), insegna luminosa difettosa che con i suoi caratteri cirillici rimanda alla città fantasma di Prypat, vicino Chernobyl.

Un complesso e delicato procedimento di estrazione, quello dei curatori, che inevitabilmente implica conseguenze in parte anche negative, a partire dalla quasi totale assenza – a differenza delle precedenti edizioni – di scouting su artisti emergenti contemporanei.

Ne è valsa la pena? Sicuramente sì: in un periodo in cui la grandi esposizioni internazionali sembrano essersi appoggiate su uno stesso schema prevedibile Manifesta prova a distaccarsene, mettendosi in discussione rispetto a un format che essa stessa ha contribuito a definire negli ultimi quindici anni.

Inoltre, come è sembrato emergere anche in dOCUMENTA (13), e a differenza dell’ultima Biennale di Berlino curata da Żmijewski, sembra emergere la volontà non soltanto di inserire l’arte all’interno di discorsi culturali sempre più ampi, ma anche quello di affermare che la sua politicità si dà sempre e comunque attraverso una forma, e con contenuti non per forza radicalmente espliciti. (4)

Dall’alto:

Veduta dell’ingresso al Waterschei, Genk

First generation Turkish immigrant prayer mats, 1950s-1960s (det.)

Livrets de ouvriers mineurs, 1845-1920 (det.)

Zwartberg Drama: Police Files, 1966 & 1980

The Age of Coal’ section, installation view

Richard Long, Bolivian Coal Line, 1992

Marcel Broodthaers, Trois tas de charbon, 1966-67

Ni Haifeng, Para Production, 2012

Jota Izquierdo, Capitalismo Amarillo: Special Economic Zone, 2011-2012 (det.)