Arrivata alla sua undicesima edizione, la Biennale dell’Avana (10 maggio – 11 giugno 2012) allarga definitivamente i suoi spazi e orizzonti, diffondendosi da un quartiere all’altro della capitale cubana come mai era successo finora: dai vicoli dell’Avana Viejia alle spiagge di Playa e Miramar, dalla Fortezza del Morro Cabaña al moderno quartiere Vedado, passando – come è inevitabile – per il Malecòn, in ogni zona della città il logo della Oncena Bienal segnala la presenza di mostre ufficiali ed eventi collaterali. Tale “disseminazione” della Biennale già risponde ad un preciso intento del team curatoriale, come sottolinea Jorge Fernández Torres nella conferenza stampa di apertura: ampliare gli spazi in vista di un coinvolgimento degli abitanti dell’Avana e di una integrazione con il contesto locale.

Anche il titolo di questa edizione, Prácticas artísticas e imaginarios sociales, insiste sull’idea di un’arte calata nelle problematiche di ordine sociale, un’arte che dopo il site specific e il time specific approda al public specific, scrive Fernández Torres in catalogo. Obiettivo principale è dunque quello di rendere il pubblico partecipe dell’atto creativo, sottraendo le pratiche artistiche al circuito elitario nel quale spesso, a conti fatti, queste rimangono imprigionate.

La richiesta di una partecipazione energica e attiva da parte del pubblico non è rimasta inascoltata; complice la vivacità congenita della città e la sua attenzione a 360 gradi per tutto ciò che è cultura nel senso più ampio del termine, la Biennale ha visto, nei giorni d’apertura, un grandissimo afflusso di gente, sparpagliatasi tra i numerosi eventi giornalieri. Tra pura curiosità e partecipazione consapevole, i visitatori hanno accolto l’invito e le porte dei più importanti spazi espositivi della città si sono aperte a tutti.

Alla frammentazione della Biennale – occasione, tra l’altro, per chi non conosce la città di scoprirne gli aspetti più nascosti, spesso al di fuori del circuito prettamente turistico – si è accompagnata la scelta di pubblicare un catalogo in forma di giornale, gratuito e distribuito nelle sedi principali. Insieme a quello istituzionale (edito da Maretti e non acquistabile nei giorni della vernice se non nel pacchetto-accredito), il catalogo prêt à porter è stato concepito non come una guida sintetica ma come un supporto critico, nel quale Fernández Torres introduce alla struttura della biennale delineandone il concept curatoriale.

Ripercorrendo a grandi tappe la storia della Biennale dell’Avana, nata “con el presupuesto de mostrar las voces pertenecientes a geopoliticas totalmente silenciadas”, il curatore si sofferma su alcune questioni interne alla mostra principale che potrebbero essere quelle di una qualsiasi biennale: il rapporto centro-periferia, l’identità individuale e nazionale, non ultimo l’impatto delle nuove tecnologie e dei mezzi di comunicazione, Twitter e Facebook in primis.

La dicotomia tra regionalizzazione e globalizzazione è sempre sullo sfondo, pronta a venire alla ribalta come già successo nella precedente edizione (cfr. Simonetta Lux, Integración y Resistencia en la era global, speciale, in Luxflux.net, n. 37/2009). Tuttavia, se le problematiche che attraversano le pratiche artistiche nell’era globale sono ormai ben note – e guardando le opere degli invitati “stranieri” è facile intuirne la diffusione e condivisione – che il palcoscenico di tutto ciò sia Cuba non può fare di questo evento una biennale qualsiasi. Cuba non è un paese qualsiasi. Cuba è Cuba. Basti pensare alle difficoltà per l’accesso ad internet, che ormai diamo per scontato in ogni parte del globo. E basti fare due chiacchiere con la gente del posto per avere un’idea, seppur vaga, di come funzionano le cose da queste parti. Anche Fernández Torres, dopo l’introduzione da curatore globalizzato, non può non rilevare le difficoltà (ma anche gli stimoli) per gli artisti forestieri derivanti dal doversi relazionare con L’Avana; in molti hanno voluto soggiornare in città prima dell’inaugurazione, racconta il curatore, nel tentativo di coglierne le contraddizioni, l’alma nascosta. Per tutte queste ragioni, il concetto di “imaginarios sociales”, applicato al contesto cubano, sembra acquistare ancora più forza, lasciando intravedere una vena utopistica nel Paese dove il Socialismo trova la sua più concreta attuazione.

Tracciate le coordinate generali, la scelta degli artisti è stata fatta all’insegna dell’equilibrio generazionale: artisti più giovani e artisti già consacrati a livello internazionale si dividono piuttosto equamente la scena. Sulla provenienza geografica degli invitati non stupisce la netta predominanza sudamericana, come già nelle passate edizioni; stupisce un po’ di più l’assenza di Tania Bruguera, protagonista indiscussa nel panorama artistico cubano, che ha impresso il suo marchio a più di un’edizione passata, tra performance e workshop (ad esempio la VII Bienal de La Havana, 2000 e la IX del 2006; cfr. Simonetta Lux, Tania Bruguera: ingegneria dell’anima, in Luxflux.net, n. 20/2006 e anche Simonetta Lux, Alcuni appunti di storia sulle Biennali dell’Avana, in Luxflux.net, n. 37/2009).

La sua presenza sembra essere stata “sostituita” da performers di grido quali Marina Abramovic (con la proiezione del film The artist is present al Teatro Miramar di Playa) e Hermann Nitsch, autore della Aktion 135 nel campo di golf dell’ISA – Instituto Superior de Arte, dove la stessa Bruguera ha istituito la Catedra de Arte de Conducta. Un dato che decreta la definitiva vittoria del global sul local?

Sorvolando sulla questione inviti, resta da constatare la complessa articolazione della Biennale; l’offerta è talmente ricca che si fa fatica a distinguere mostre ufficiali e mostre collaterali, senza contare performance, installazioni temporanee, dibattiti e presentazioni. Nel tentativo di offrire un quadro generale seppur schematico, ci muoveremo su tre versanti principali: le mostre negli spazi ufficiali della Biennale (Gran Teatro de La Habana, Centro de Arte Contemporáneo Wifredo Lam, Casa Guayasamin); i Proyectos Colectivos (Cifo: una mirada múltiple, Museo Nacional de Bellas Artes / Edificio de Arte Universal; Creaciones compartidas, Pabellón Cuba; Open Score, Centro Hispanoamericano de Cultura; La caza del éxito, Centro de Desarrollo de las Artes Visuales; La ética antes de la forma, Galería Galiano; Detras del muro, Avenida Malecón; Cinema remixed & reloaded 2.0, Galería Collage Habana); le Exposiciones colaterales.

 

La Oncena Bienal de La Habana

Epicentro della XI Biennale dell’Avana è il Gran Teatro de La Habana in Plaza Parque Central, spartiacque tra i quartieri di Centro Habana e Habana Viejia. Qui a catalizzare l’attenzione c’è la monumentale Babele di Gabriel Valansi, argentino classe 1959, che per la biennale ha costruito un’enorme città utilizzando schede madre di computer dipinte di nero. Il colpo d’occhio è impressionante, così come il senso di soffocamento dato dal ripetersi apparentemente identico di finte architetture e agglomerati urbani. Installata sul pavimento del Gran Teatro, emblematicamente al centro del percorso espositivo, l’anonima città di Valansi potrebbe essere una qualsiasi delle grandi metropoli sudamericane. Iván Navarro (Santiago del Cile, 1972) presenta uno dei suoi pozzi, strutture nelle quali lo sguardo si perde precipitando verso l’infinito. Rispetto all’installazione realizzata quest’anno alla Fondazione Volume! di Roma mancano però le parole, che simulavano un’eco visiva nella suggestiva mostra capitolina, dove il progetto era site-specific.

Restando in America Latina, Rafael Lozano-Hemmer (Mexico City, 1967) con Ultimo suspiro crea artificialmente il respiro umano, tramite un apparecchio che viene attivato 10.000 volte al giorno, quanta è la frequenza respiratoria tipica per un adulto a riposo, tra cui 158 sospiri. Il “respiro” circola attraverso un tubo di plastica e va a riempire un sacchetto di carta, che si contrae e ritrae emettendo un suono ritmico. Nel caso specifico dell’installazione presentata alla Biennale, questa si presenta come il “ritratto biometrico” della cantante Omara Portuondo, ripresa in video nell’atto di soffiare all’interno dello stesso sacchetto che dà il ritmo a tutto il lavoro.

Dall’America Latina all’India: T.V. Santhosh (Kerala, 1968) presenta una sorta di monumento ai caduti di Hiroshima, settando cronometri di un minuto che evocano l’avvicinarsi dell’impatto della bomba atomica e quindi della catastrofe. Scritte rosse corrono veloci con il racconto di uno dei sopravvissuti al disastro.

Questi pochi esempi, estrapolati per il loro grande impatto sul pubblico, mostrano come il discorso sociale e politico non sia mai esplicito ma sottoposto ad un processo di sublimazione, così che “l’immaginario” sembri avere la meglio sul “sociale” stricto sensu. Ad agganciarsi ad avvenimenti contemporanei è l’egiziano Khaled Afez (Il Cairo, 1963) che in The video diaries sceglie di raccontare i moti rivoluzionari che hanno attraversato il suo paese nei primi mesi del 2011, montando il girato in una proiezione che mostra contemporaneamente tre scene diverse, tra gesti dei manifestanti e rivolte soffocate dalla polizia. Il conto alla rovescia segna stavolta i secondi che mancano alla fine del video, quasi una scalata verso un momento di quiete. Tra le immagini scorrono anche quelle dell’artista e blogger Basiony Ahmed, ucciso a Tahrir Square e rappresentante, nell’estate 2011, del Padiglione Egiziano alla 54. Biennale di Venezia.

Lasciamo quindi il Gran Teatro (dove va anche sottolineata la difficoltà di fruire dei video, chiusi in piccoli ambienti dove il caldo diveniva insopportabile) e spostiamoci al Centro de Arte Contemporáneo Wifredo Lam, cuore pulsante del contemporaneo cubano. Qui, il giorno dell’inaugurazione, la meeting-performance di Maria Magdalena Campos e Neil Leonard, Llegooo! FeFa, ha riportato l’attenzione sui rapporti Cuba-Stati Uniti, mettendo al lavoro insieme 10 panettieri cubani e 10 panettieri americani, offrendo poi il pane al pubblico come risultato di un processo di integrazione e collaborazione. La distribuzione di generi alimentari – ma non solo – era accompagnata dall’invito a fare in modo che questi circolassero in città, diffondendosi dal Centro Wifredo Lam per tutte le strade de La Habana Viejia.

Al piano superiore, l’installazione di Carlos Garaicoa (L’Avana, 1967), Fin de silencio, da fruire obbligatoriamente a piedi scalzi; una successione di tappeti simula la pavimentazione in marmo dei marciapiedi sui quali si cammina sotto i portici della città, dove sono riportati i nomi di alcuni negozi di una vecchia zona commerciale de L’Avana, il cui significato originario è però spesso alterato dall’artista. Una videoproiezione a pavimento mostra il traffico pedonale in cui non è difficile imbattersi nella capitale cubana.

A poca distanza dal Centro Wifredo Lam, muovendosi verso la Plaza Viejia, si incontra un’altra sede della Biennale, Casa Guayasamin, casa-museo del pittore ecuadoregno Oswaldo Guayasamín. Tra il patio interno e il piano inferiore della splendida casa coloniale sono installate le opere dei messicani Marcela Armas e Saul Villa, associati ai nostri connazionali Renato Mambor e Gino Marotta, prima apparizione italiana che sarà poi felicemente integrata dalla mostra La ética antes de la forma alla Galería Galiano, su cui torneremo tra breve.

 

Proyectos Colectivos

Sono forse i Proyectos Colectivos a dire qualcosa di più su questa Biennale, in particolare la mostra Creaciones compartidas al Pabellón Cuba, architettura in pieno stile sovietico nel quartiere Vedado. L’ingresso avviene qui all’insegna del “controllo”; metal detector sono installati in vari punti del padiglione da Cuco Suárez (Pola de Laviana, 1961) e suonano ad ogni passaggio, chiedendo al passante di fermarsi perché deve essere controllato. Il titolo dell’intervento è Suspect ed è proprio con fare sospettoso che i visitatori, colti di sorpresa, si guardano intorno cercando di capire da chi debbano essere controllati. Sul sentirsi osservati e controllati insiste anche la giovane cubana Susana Pilar Delahante Matienzo (La Habana, 1984). Il titolo dell’opera è, manco a dirlo, Paranoia; un sistema di trasmissione a circuito chiuso riprende i visitatori inquadrandoli con un mirino, come se qualcuno fosse pronto a fare fuoco sul pubblico.  

Tra gli altri interventi al Pabellón Cuba vanno anche citati quelli di altre due donne, la cilena Nury Gonzalez e la brasiliana Lia Chaia; la prima con Cuerpo hay hai invita a conoscere il proprio corpo tramite una serie di specchi installati sui pilastri del padiglione che recano delle scritte su questo tema. Lia Chiaia, invece, invita a fruire delle numerose paia di sandali da geisha a forma di freccia e quindi a mettersi “nelle scarpe di qualcun altro”, muovendosi in direzione opposta a quella segnalata dalle frecce indossate per sperimentare una forma di disorientamento fisico e concettuale (Setamanco, 2011).  

Fa parte dei Proyectos Colectivos anche la mostra Cifo: una mirada múltiple al Museo Nacional de Bellas Artes – Edificio de Arte Universal, impostata però su tutt’altri criteri. Le opere esposte sono infatti tutte provenienti dalla Ella Fontanals-Cisneros Collection e pertanto l’esposizione si propone come uno sguardo trasversale e trans-storico, seppur sulla base di cinque nuclei tematici predefiniti. Emerge sin da subito la forte presenza del concettuale “storico”, con opere di Vito Acconci (Step piece, 1970), Ed Ruscha (Parking Lots, 1968-1997) e Dan Graham, in buona compagnia di Jenny Holzer, Barbara Kruger, Gordon Matta Clark. Grande spazio è riservato alla fotografia oggettiva tedesca, che vede succedersi lavori dei coniugi Becher, di Thomas Struth, Thomas Ruff, Frank Thiel, Candida Höfer. Anche qui ricorre il tema del “controllo”, in particolare nelle opere di Rafael Lozano-Hemmer e Francis Alys, ispirate/basate su sistemi di vigilanza. Di assoluto rilievo la collezione di fotografie e video che documentano le performance di Ana Mendieta, tra cui Volcano series, Sin titulo (Venus negra) e Corazon de roca con sangre; un tocco di arte veramente cubana all’interno di una collezione che più international non si può.

Altre mostre collettive offrono spaccati interessanti sul rapporto tra pratiche artistiche e immaginario sociale, in tema quindi con il concept generale della Biennale: l’America Latina è ancora di scena al Centro Hispanoamericano de Cultura, nella mostra dal titolo Open score. La galleria Collage Habana presenta invece una collettiva tutta di video e film (Cinema remixed & Reloaded 2.0), il cui concept è ben specificato nel sottotitolo: Artistas negras y el movimiento de la imagen desde 1970. Deludente la mostra La caza del éxito al Centro de Desarrollo de las Artes Visuales, dove l’arte locale è rappresentata da un linguaggio naif che sa più di botteghe per turisti che non di Biennale, tra immagini pop (Jordi) e citazioni quasi letterali di artisti del passato (Mirelis Mendez Leon, Mercedes Cobas Gelis). Bellissima invece la passeggiata al tramonto per godere delle installazioni e performance sul Malecón per l’evento Detras del muro al quale gli habaneri hanno partecipato numerosissimi, affollando vivacemente il lungomare.

Chiudiamo infine questo veloce report sui progetti collettivi della Biennale con la mostra La ética antes de la forma presso la Galería Galiano, curata da Raffaele Gavarro. Invitato da Jorge Fernández Torres, il curatore italiano ha sviluppato un progetto dotato di un preciso concept che in qualche modo vuole rispondere ad un’unica, ma fondamentale, domanda: “cosa ci attendiamo tutti noi oggi dall’arte?”. Superata infatti la funzione decorativa e puramente estetica, il senso della ricerca artistica in epoca contemporanea vuole essere, come scrive Gavarro, “quello di creare delle modalità di comprensione del mondo in cui viviamo attraverso dinamiche non dominate da una logica sequenziale di causa-effetto. Una comprensione che nel suo stesso compiersi si attua come azione etica per l’effetto di modificazione definitiva del mondo che l’opera stessa compie. Quest’ultima nel suo concreto costituirsi come immagine, oggetto, manufatto, site specific, azione di relazione o connessione, costituisce un’indicazione al miglioramento del mondo, un’ipotesi che in quanto tale è necessariamente etica, pena il suo stesso fallimento”.

Gettate le premesse – che saranno sviluppate in un testo in corso di pubblicazione –, la scelta degli artisti è caduta su cinque nomi: Flavio Favelli, Piero Mottola, Valerio Rocco Orlando, Marinella Senatore, Giuseppe Stampone. A tutti loro è stato chiesto di soggiornare tre settimane a L’Avana prima dell’opening della mostra; solo Marinella Senatore non ha potuto prendere parte a quella che a conti fatti si è rivelata una mini-residenza, presentando dunque un lavoro, Noi simu, che non ha subito “contaminazioni” cubane.

Per gli altri il lavoro è stato duro ma estremamente stimolante. Basti leggere qualche riga del diario Facebook che Gavarro ha aggiornato con tenacia, quotidianamente, nonostante le difficoltà (e i costi) per l’accesso ad internet: un resoconto puntuale e divertente di tutto ciò che è successo in fase di preparazione della mostra, compresi problemi tecnici, ricerca materiali e la lunga odissea del videoproiettore che non voleva arrivare. Oltre ad essere un necessario tramite con il mondo esterno (e soprattutto con la stampa che chiedeva aggiornamenti sulla mostra in preparazione), il diario di La ética antes de la forma rende visibile la componente processuale e operativa che sottende al lavoro curatoriale e a quello artistico, inestricabili e indispensabili l’uno all’altro. Oltre infatti a seguire la realizzazione delle opere, Gavarro ha intervistato i “suoi” artisti sul rapporto arte-mondo, facendo confluire queste conversazioni nel diario e nel testo in corso di pubblicazione.

La mostra finale, per i quattro artisti che hanno lavorato a L’Avana, non poteva non tener conto dell’influenza della città; Giuseppe Stampone, partito con l’idea di presentare Saluti dall’Aquila, ha poi sviluppato un progetto parallelo sui ciclotaxi, presenza costante (a volte invadente) in ogni zona della città. Un vero e proprio esemplare del diffusissimo mezzo di trasporto è stato esposto in galleria in posizione verticale, mentre sulla parete l’artista ha congegnato una mappa fotografica che ripercorre tutti i luoghi degli scatti che hanno immortalato turisti a bordo dei ciclotaxi.

Flavio Favelli ha assemblato una serie di objets trouvés che insieme restituiscono l’atmosfera di un qualsiasi interno cubano, di quelli che puoi spiare da fuori mentre ti muovi tra i vicoli della città. Una cancellata in ferro, una sedia in metallo (che rievoca le diffusissime sedie a dondolo, simbolo per noi di un passato lontano) e una sequenza di lattine cui è stata grattata la superficie, in modo che emergessero, quasi spontaneamente, simboli collegabili a Cuba – così come sulla sedia appare la mappa dell’isola e sulla cancellata la stella rossa. Favelli ha inoltre ingaggiato un pittore di insegne e manifesti cubano, lo stesso autore dei cartelloni che annunciavano gli spettacoli nel dirimpettaio Teatro America, sempre su Avenida de Italia. Eventi reali e fittizi, presenti e passati, sono pubblicizzati con la stessa, ipnotica, grafia sulle pareti della Galleria Galiano.

Piero Mottola, nelle sue minimali Cajas sonoras, ha ripreso il lavoro basato sulle sonorità, mixate in modo da suggerire emozioni diverse, già presentato alla Fondazione Morra di Napoli; qui però i suoni già campionati sono stati “contaminati” con le sonorità locali, raccolte in diversi angoli della città cubana. Il giorno dell’inaugurazione, Mottola ha inoltre coinvolto il direttore dell’orchestra sinfonica nazionale dell’Avana, Enrique Perez Mesa, che ha diretto l’esecuzione di due composizioni sonoro-musicali dell’artista.

Se in Stampone, Favelli e Mottola l’influenza locale è ben evidente, per Valerio Rocco Orlando si dovrà aspettare che l’artista lavori e rielabori tutta la documentazione raccolta all’ISA – Instituto Superior de Arte, dove ha intervistato gli studenti sul sistema educativo cubano. Il progetto portato avanti a Cuba, infatti, si pone in linea con la ricerca già intrapresa da Rocco Orlando a Roma e confluita nel video Quale educazione per Marte?, già presentato alla Fondazione Nomas e riproposto a L’Avana, dove ad essere intervistati erano i ragazzi di un Liceo Artistico romano. La possibilità di un confronto e di un dialogo tra due sistemi tanto diversi, raccontati dagli insiders, si preannuncia ricco di stimoli per una ricerca sociale trans-nazionale, che Rocco Orlando racconta di voler allargare anche ad altri contesti. Aspettiamo fiduciosi.

Al di là del ricercato (in alcuni casi difficoltoso) rapporto con L’Avana, tutti gli artisti invitati hanno lavorato con propri media e metodologie, il che si traduce in una varietà espressiva esplicitamente ricercata dal curatore; il mettere l’etica prima della forma non è vincolato a nessun linguaggio particolare, e anzi trova la sua attuazione nelle differenti metodologie progettuali e operative. Quello che dunque è stato presentato come il Padiglione Italia – anche se in realtà è uno dei pochi “padiglioni” nazionali all’interno della Biennale cubana – si rivela una mostra svincolata dalla pura provenienza geografica degli artisti e dotata di proprie coordinate, che si presta ad essere ampliata con il coinvolgimento di altri artisti italiani e stranieri, come annunciato dallo stesso Gavarro sempre nel diario Facebook. Anche qui, non c’è che da aspettare.

 

Exposiciones colaterales

Tante e ben distribuite nel tessuto della città le mostre collaterali, riunite nell’utile numero di “Noticias de Arte Cubano”, vera e propria guida anch’essa in formato portatile. La concentrazione maggiore è alla Fortaleza San Carlos de la Cabana, già sede ufficiale delle precedenti edizioni della Biennale. Qui va in scena “la più grande mostra di arte cubana mai realizzata”, con oltre quattrocento artisti che si dividono lo spazio espositivo a disposizione utilizzando ogni modalità espressiva, dalla pittura alla scultura, dal video all’installazione.

Al centro dell’Avana Viejia, la Factoria Habana ospita la mostra Las metáforas del cambio sui tre piani dello splendido spazio espositivo; il curatore Alejandro Machado spiega come il titolo sia ispirato al saggio di Marial Iglesias Ulstet, Las metáforas del cambio en la vita cotidiana. Cuba 1898-1902 e come la mostra sia un percorso attraverso l’arte cubana degli ultimi cinquant’anni, “senza limiti di spazio e tempo”. Tra le opere esposte, le serie fotografiche di Alberto Korda, Ricardo Elías e Raúl Cañibano, con la grande installazione di Tonel País deseado, mappa dell’isola di Cuba ricostruita con oggetti in ceramica e metallo dal sapore un po’ kitsch.

Esemplificativa della volontà di sentirsi “cittadini del mondo” – nonostante le difficoltà a lasciare il Paese – è l’opera di Abel Barroso, Temporary Residence of the world, un grande passaporto con lo spazio vuoto al posto della fototessera in modo che ognuno possa metterci la propria faccia e ottenere il proprio documento come “ciudadano del mundo”.

Spostandosi al Vedado, due sono gli eventi che hanno maggiormente attirato l’attenzione di stampa e visitatori: Fotografia en vivo Havana di Crispin Gurholt, un enorme e immobile tableau vivant che si consuma tra l’interno e l’esterno di una casa coloniale semi-abbandonata suggerendo una sospensione del tempo, e la mostra Venezuela presso la Casa del Alba, con opere di Luis Salazar (un camping “in progress”), Blanca Haddad, Natalya Critchley e l’installazione con palloni da calcio di diversi colori nel cortile ad opera di Joaquin Sanchez. Al piano superiore il collettivo equadoregno Tranvia Cero presenta la documentazione di una serie di lavori per la democratizzazione degli spazi pubblici in relazione con le comunità del territorio.

Anche gli eventi collaterali insistono quindi sulla linea del rapporto tra pratiche artistiche e immaginario sociale che fa da tema principale in questa complessa, afosa, vivace, undicesima edizione della Biennale de La Habana. Un tema che, declinato nelle sue diverse sfaccettature, alle volte appare “ammorbidito”, altre più proiettato all’esterno che non alla situazione cubana, in fin dei conti tra le più interessanti e di cui vorremmo sempre sapere qualcosa di più. Ma è anche questo il fascino di Cuba, le sue contraddizioni, il suo non voler parlare di sé, il suo essere sospesa in un tempo indefinito. Forse le cose stanno per cambiare, o forse non cambieranno mai. Appuntamento alla prossima edizione per scoprirlo.

 

Pubblicato il 22 maggio 2012

 

Conferenza stampa di apertura della Oncena Bienal de La Habana. Museo de Bellas Artes, Edif. Arte Cubano, 8 maggio 2012. Photo Antonio Picascia

2,3,4 – Maria Magdalena Campos e Neil Leonard, Llegooo! FeFa, performance, Centro Wifredo Lam. Photo Antonio Picascia

Carlos Garaicoa, Fin de silencio, installazione al Centro Wifredo Lam. Photo Alessandra Troncone.

6,7 – Le opere di Gino Marotta e Marcela Armas, Casa Guayasamin. Photo Antonio Picascia

Veduta della mostra di Andrés Serrano, Fototeca, Habana Viejia. Photo Antonio Picascia

Veduta della mostra La caza del éxito, Centro de Desarrollo de las Artes Visuales. Photo Antonio Picascia

Inaugurazione dell’installazione di Ilya e Emilia Kabakov, El barco de la tolerancia, Castillo de la Fuerza, Plaza de Armas. Photo Alessandra Troncone

L’opera di Iván Navarro in mostra al Gran Teatro de La Habana. Photo Antonio Picascia

Gabriel Valansi, Babel, in mostra al Gran Teatro de La Habana. Photo Antonio Picascia

Marcel Pinas, Sanfika, nella mostra Creaciones compartidas, Pabellón Cuba. Photo Alessandra Troncone

Cuco Suárez, Suspect, nella mostra Creaciones compartidas, Pabellón Cuba. Photo Alessandra Troncone

Nury Gonzalez, Cuerpo hay hai, nella mostra Creaciones compartidas, Pabellón Cuba. Photo Alessandra Troncone

Lia Chiaia, Setamanco, nella mostra Creaciones compartidas, Pabellón Cuba. Photo Alessandra Troncone

Veduta della mostra Creaciones compartidas, Pabellón Cuba. Photo Alessandra Troncone

Inaugurazione della mostra La ética antes de la forma, Galería Galiano. Photo Antonio Picascia

Una delle opere di Flavio Favelli nella mostra La ética antes de la forma, Galería Galiano. Photo Antonio Picascia

L’intervento di Giuseppe Stampone per la mostra La ética antes de la forma, Galería Galiano. Photo Antonio Picascia

Crispin Gurholt, Fotografia en vivo Havana, performance, Vedado. Photo Alessandra Troncone

Particolare dell’installazione di Luis Salazar, Casa del Alba, Vedado. Photo Alessandra Troncone

L’installazione di Joaquin Sanchez nel cortile di Casa del Alba, Vedado. Photo Alessandra Troncone

Performance di Joelle Ferly, Vedado. Photo Antonio Picascia

Lo spazio espositivo Factoria Habana, ospitante la mostra Las metáforas del cambio en la vita cotidiana. Cuba 1898-1902. Photo Antonio Picascia

Tonel, País deseado, Factoria Habana. Photo Antonio Picascia