Oltre le azioni di corpi consapevoli. Dissolvenza, trasmutazione e misticismo hi-tech. Alcune considerazioni sulla collettiva Dansaekhwa, la personale di Lee Ufan e il Padiglione della Corea

Oltre al Padiglione Nazionale, affidato al duo di artisti Moon e Jeon, la 56sima Edizione della Biennale di Venezia dedica alla Corea del sud due importanti mostre a Palazzo Contarini-Polignac: la collettiva Dansaekhwa e la personale dell’artista Lee Ufan (1936).

Il Dansaekhwa è il più importante movimento pittorico nato in Corea, nella seconda parte del XX secolo. La mostra di Venezia presenta per la prima volta in Italia una selezione di opere degli artisti più rappresentativi di questa tendenza nata all’inizio degli anni ’70: Park Seo Bo (1931), Chung Chang Sup (1927-2011), Chung Sang Hwa (1932), Ha Chong Hyun (1935-), Kwon Young Woo (1926-2013), Lee Ufan. La mostra presenta anche i lavori di Kim Whanki (1913-1974), considerato uno dei pionieri della pittura astratta in Corea.

Il nome Dansaekhwa entra in uso solo nei primi anni 2000, per definire i lavori di quegli artisti che, all’indomani della guerra di Corea, iniziano a porsi in antagonismo con l’arte ufficiale promossa dal governo militare. Come fa notare la storica dell’arte Youngna Kim, il nome del movimento nasce dal tentativo di tradurre in coreano il termine monocromo, ma questa definizione presenta diversi limiti e risulta abbastanza fuorviante, al punto che gli stessi artisti, in un primo momento, hanno faticato a riconoscervisi. In particolare Park Seo-Bo, figura emblematica della scena artistica coreana del dopo-guerra e principale promotore del movimento, sostiene che Dansaekhwa si interessa alla questione del colore solo marginalmente, mentre si focalizza piuttosto sul come centrare e bilanciare la visione. Infatti, se nella pittura monocroma occidentale il colore, investito di un potere formale, ha un ruolo di primo piano, nel Dansaekhwa, si prediligono tutti quei toni neutri, o non-colori, che si manifestano nella maniera meno invasiva possibile. Tutta l’armonia compositiva delle opere è bilanciata attraverso l’uso del bianco e della luce, ma come fece notare negli anni ‘70 il critico Lee Yil (1932-1997), questa attitudine non è riconducibile a una volontà di sperimentazione sul colore, ma a un tentativo di assorbire – e quindi di abbracciare, accogliendo dentro di sé e fondendo nella luce – la visione del mondo, ovvero la totalità del visibile.

Più che alla pittura monocroma o ad altre tendenze nate in occidente, come il minimalismo o l’espressionismo astratto americano, volendo azzardare una comparazione, il Dansaekhwa potrebbe essere accostato a un altro importante movimento pittorico nato in estremo-oriente, il Gutai. Entrambi i movimenti condividono una speciale attenzione ai meccanismi processuali così come ai materiali utilizzati e un’attitudine ad associare il processo creativo a quello meditativo. Tuttavia, rispetto al vicino giapponese caratterizzato da una radicalità e un’imprevedibilità del gesto, dall’immediatezza dell’azione pittorica e da un uso violento del colore, Dansaekhwa manifesta invece una chiara volontà estetica di raggiungere una purezza segnica e un’essenzialità formale e cromatica, generata attraverso un uso pazientemente calibrato e perfettamente controllato del gesto pittorico e in generale di tutto il processo creativo. Secondo l’artista Lee Ufan, ogni opera riconducibile al Dansaekhwa va letta come il frutto dell’azione di un corpo consapevole e cosciente, che non viene mai usato in maniera forzata o violenta. 

Si tratta molto spesso, come nel caso della serie Ecritures di Park Seo Bo, di un gesto automatico e ripetitivo, che conduce a un lucido straniamento dal mondo. In una recente intervista, in occasione della sua personale nella galleria Perrotin di Parigi, Park Seo Bo ha dichiarato: «My work is similar to a Buddhist monk’s chanting of a Buddhist prayer, which is repeated to reach a state of nirvana». Nella stessa intervista l’artista ha anche specificato che il Dansaekhwa può essere considerato come uno strumento di educazione morale. Il che si traduce nella dichiarazione di voler andare in senso inverso rispetto a una concettualizzazione della pittura, per intraprendere piuttosto un processo di svuotamento delle costruzioni mentali intorno all’opera. 

In questo il Dansaekhwa si avvicina anche a un altro movimento che nasce sempre in Giappone negli stessi anni, il Mono-ha. Secondo l’artista Lee Ufan, che ha fatto parte di entrambi i gruppi, sebbene il Mono-ha prediliga l’installazione e la scultura, senza far mai ricorso alla pittura, condivide pienamente con il movimento coreano l’attitudine a far collimare l’intenzione dell’artista con il materiale. Ovvero, l’artista si pone nei confronti della materia – e poi dell’opera – con un atteggiamento neutrale e impersonale in cui sembra quasi aleggiare il rifiuto di una rivendicazione autoriale. 

Così ad esempio, Chung Chang Sup, il cui lavoro riflette le sue credenze taoiste, realizza opere bidimensionali, che definisce pitture senza pittura, e che realizza attraverso la sovrapposizione di numerosi strati di carta coreana impregnata d’acqua e colle. Le variazioni tonali sulle tele sono dovute ai diversi tempi di bagnatura della carta che l’artista si limita essenzialmente a porre l’uno sull’altro, quasi il suo ruolo fosse solo quello di creare il giusto equilibrio tra gli elementi naturali. Chung Sang Hwa realizza invece una spessa base di colore bianco zincato che poi bagna ripetutamente fino a produrre delle profonde spaccature. Successivamente, rimuove piccole parti di pittura, svelando gradualmente porzioni di tela che andrà di nuovo a riempire con altri strati di acrilico. Infine, Ha Chong Hyun preferisce sperimentare materiali non tradizionali come plastiche, giornali e soprattutto sacchi di iuta e canapa che, durante la guerra di Corea, erano usati per il trasporto di cibo, medicinali e altri aiuti umanitari provenienti dagli Stati Uniti. Ha Chong Hyun agisce sulla tela di canapa in diversi modi, ma in particolare impregnandola di pittura dal retro, fino a quando il colore spinto attraverso la trama del tessuto non passa dall’altro lato. L’opera è quindi il prodotto residuale dell’azione dell’artista il cui sforzo è concentrato nelle operazioni di passaggio e – per usare una definizione cara alla tradizione taoista – di trasmutazione della materia. 

Al piano terra, Palazzo Contarini-Polignac ospita anche una personale di Lee Ufan nella quale sono presenti alcuni lavori installativi riconducibili invece al Mono-ha. L’artista dichiara di aver voluto organizzare la mostra intorno al concetto di ‘allusione’ più che a quello di ‘intervento’. Nelle prime sale Lee Ufan sembra riprodurre dei piccoli giardini zen, limitandosi a disporre alcune rocce su un tappeto di ciottoli chiari. Il giardino secco (Karesansui) nasce in Giappone come luogo di meditazione nel contesto filosofico-religioso del Buddhismo zen, che si diffonde in Giappone in epoca Kamakura (1185 – 1333). La calma statica della roccia e l’isolamento ascetico permeato dal silenzio, avevano come scopo quello di facilitare l’azzeramento delle emozioni negative e positive, condizione necessaria per condurre l’individuo verso un distacco dal mondo e una liberazione dalla schiavitù dei sensi, che costituivano dei passi fondamentali nel processo di acquisizione di una totale lucidità di pensiero e di azione. 

Nell’ultima sala, al centro di una grande pedana di legno realizzata specificatamente per accoglierla, Lee Ufan pone invece una piccola tela su cui ha tracciato un unico minuscolo segno, un punto incerto e appena accennato. Nella sua azione, si può leggere il tentativo di giungere alla dissolvenza delle pulsioni ego-centrate dell’artista, attraverso l’identificazione dell’opera con l’elemento più piccolo e insignificante che si possa tracciare, il punto. Il ruolo predominante nella tela è quindi ancora una volta quello dello spazio bianco, il vuoto, che in oriente non è mai considerato come nulla, ma come totalità, in quanto racchiude all’interno di sé tutte le infinite vie del possibile. Il bianco domina la scena anche all’interno del Padiglione della Corea, dove il duo costituito da Moon Kyungwon e Jeon Joonho presenta un’installazione cinematografica multicanale, che rientra in un progetto più ampio News from Nowhere. Si tratta di un articolato lavoro interdisciplinare, che ha coinvolto esperti di diversi settori accademici e professionali, ai quali è stato chiesto di individuare nuovi possibili percorsi futuri per l’arte, nel tentativo di ridefinirne le priorità e i valori.

Il titolo dell’installazione presentata alla Biennale, che tradotto in italiano diventa I Modi per Piegare lo Spazio e Volare, fa riferimento ad alcuni miti della tradizione taoista, in particolare ai due tra i più noti poteri attribuiti agli immortali, ovvero, la levitazione (in coreano, bihaengsul) e il teletrasporto (chukjibeop). Documentato fin dall’epoca Han (206 AC – 220 DC), il credo taoista ha origine in Cina, ma presumibilmente intorno al VII secolo, si diffonde anche nella penisola Coreana, dove si mescola con folklore e credenze locali, influenzando fortemente la cultura tradizionale, l’arte e l’architettura pre-moderna. La pratica taoista prevede esercizi di meditazione che si traducono nella visualizzazione di immagini, in cui l’adepto si proietta fuori del suo corpo fisico, nell’atto del volo o del viaggio astrale, oppure dirige all’interno di sé elementi di luce, come gli astri e altri corpi celesti. Il duo Moon-Jeon attinge a questa ricca tradizione di culti e credenze popolari immaginando un futuro in cui la scienza abbia reso possibile l’avverarsi di miti millenari. 

Quello che riempie gli occhi del visitatore entrando nel Padiglione della Corea è un bianco accecante. Ambientato in un mondo ormai sommerso dalle acque in cui gli esseri umani vivono nell’isolamento e nel vago ricordo di quel che un tempo era la terra, il film pone il visitatore nella posizione di un viaggiatore nel tempo che è in ugual misura voyeur e veggente. Lo spazio in cui si è proiettati è un laboratorio iper-tecnologico, in cui tutto appare avvolto da un bianco irreale. Il luogo riprodotto sarebbe in realtà lo stesso Padiglione della Corea nella Biennale di Venezia, ma in un ipotetico futuro, dove lo spazio espositivo è stato sostituito da un’area dedicata alla scienza. Una giovane donna, sola è intenta in quelle che sembrerebbero le sue attività quotidiane: fare jogging su un tapis-roulant, che proietta allo stesso tempo immagini di boschi, così da creare l’illusione di una corsa in mezzo alla natura; immergere il viso in quella che sembra una sfera d’acqua le cui particelle sono tenute insieme artificialmente da energie misteriose; dormire all’interno di una capsula di vetro; osservare quel che accade nel mondo attraverso finestre digitali che si aprono nel vuoto su pareti invisibili, finestre che la protagonista sposta, riordina e chiude, con semplici e rapidi gesti che riempiono l’aria.

Il lavoro rimette in discussione non solo il ruolo dell’arte nel mondo futuro e la possibilità di una sua ridefinizione in chiave pratico-funzionale, ma spinge anche a un ripensamento della relazione tra arte, religione e scienza. Infatti, se nella storia occidentale le tre discipline si sono spesso trovate in conflitto, instaurando reciproci rapporti di contrapposizione o di subordinazione, in oriente hanno sempre trovato un terreno di intesa fondato sul principio del bilanciamento degli equilibri. Permeato da quello che si potrebbe definire un originale misticismo hi-tech, il progetto di Moon e Jeon individua nell’arte uno strumento per aprire riflessioni sul possibile destino del mondo, inglobando all’interno della discussione scienza, tecnologia, filosofia, religione e credenze popolari. 

Dall’alto:

MOON Kyungwon & JEON Joonho, The Ways of Folding Space & Flying, 2015, HD Film Installation, 10’30” © the artists

MOON Kyungwon & JEON Joonho, The Ways of Folding Space & Flying, 2015, HD Film Installation, 10’30” © the artists

MOON Kyungwon & JEON Joonho, The Ways of Folding Space & Flying, 2015, HD Film Installation, 10’30” © the artists

Chung Chang-Sup (1927-2011) Wandering (1965), Oil on canvas, 198 x 116.5cm. Photography by Sang-tae Kim The Rachofsky Collection

Chung Sang-Hwa (1932-) Untitled 73-7 (1973), Acrylic on canvas, 165 X 115cm. Photography by Sang-tae Kim Pending Acquisition, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden,Smithsonian Institution 

Ha Chong-Hyun (1935), Conjunction (1974), Oil on paper, 120 x 175cm. Photography by Sang-tae Kim. Collection of Leeum, Samsung museum of Art 

Lee Ufan, installation view, 2015 © Kukje Gallery