Un intenso desiderio di partecipare al farsi di un’esperienza ha spinto Serafino Amato a girare un video il giorno del funerale di papa Giovanni Paolo II. A raccogliere non la solenne pomposità della cerimonia ma la ritualità dei pellegrini convenuti dal basso , a registrarne gli spostamenti , i gesti passivi, i rumori convogliati e sovrapposti in quelli della città. La videocamera incorporata all’artista risponde a un bisogno di far proprio un evento epocale fuori dal monumentalismo scenografico della cerimonia. Materia del rito che sembra voler testardamente rinunciare all’effetto spettacolare per concentrarsi sui margini, sullo scorrere lento e sempre trascurato del tempo ordinario, il video di Amato si sofferma sui particolari, sul discreto scivolare del tempo nello spazio di una città nel giorno di una commemorazione.

Patrizia Mania: Ore 10:00 di una bella giornata di aprile dell’anno 2005: un’affollattissima piazza San Pietro e vie limitrofe ospitano una folla immensa, una quantità davvero oceanica di pellegrini convenuti per l’estremo addio a papa Giovanni Paolo II. Tra essi forse anche un “abusivo”, Serafino Amato che ha deciso di documentare questa cerimonia partendo potremmo dire dal basso, dai piedi, dalla terra , da un’inquadratura a volo d’uccello radente il suolo che plana a veloce passo su quell’immensa anonima folla di astanti. La videocamera come una protesi del proprio corpo registra a inquadratura fissa e in posizione predeterminata tutto quanto rientra in questo suo raggio d’azione. È il registro di quell’esperienza fisica di percorrimento, è la testimonianza di un’esistenza e del suo hic et nunc . Accessorio e prolungamento di se’, della propria stessa esistenza.                                                                                                                                                                                         Serafino Amato: Io arrivo con il tram a piazzale Flaminio. Piano piano mi avvio verso piazza del Popolo, uno dei luoghi con maxi schermo adibito alla raccolta dei fedeli che vogliono partecipare alla cerimonia ma che non possono per ovvi motivi di spazio arrivare a Piazza S. Pietro. Una chiesa a cielo aperto. Vago per la piazza per tutta la cerimonia, scatto qualche foto e lascio la videocamera accesa.  Tutti i giorni precedenti le televisioni di tutto il mondo non avevano fatto che mostrare volti. Il volto del papa sofferente, il volto della gente in attesa in piazza San Pietro, i volti della gente alla notizia della morte, i volti delle persone in fila, i volti dei politici, i volti della gente in fila, i volti, i volti i volti. E gli stessi santi invocati nella cerimonia in latino, Sancto ………. ORA PRO EO. Tutta la cristianità è fatta di volti, i volti dei santi, i volti di Cristo, i volti della Madonna. È come se tutto questo vedere avesse poi oscurato il verbo, la parola. La videocamera ha però registrato più i suoni che altro, e quello che ha inquadrato era quello che accadeva in basso, sui san pietrini… Su  questa pietra…

P.M.: Il calpestare la città, costruirne un percorso, registrarne i suoni, in un itinerario tracciato dalla ritualità cadenzata di una cerimonia funebre nell’era postmoderna e postsocialista in una preghiera di massa consumata e intercettata nelle strade. In una prospettiva ribaltata, radente la scacchiera dei sanpietrini che coglie il sommerso, l’interstizio, ma anche il gioco dei bambini…                                                                                                                                                                                          S.A.: I bambini sono di poco più alti dei cani e solo le bottigliette di plastica disseminate sono più basse di tutte e due. Chi va verso l’alto non può andare verso il basso? Eppure, seppelliti i nostri cari, guardiamo in alto, in cielo.  In basso e in alto, a congiungere, a congiungerci. Una volta, tanti anni fa, guardando la luna con una potente lente avevo trovato sulla sua superficie i tratti del volto di mio padre. Riconoscevo il profilo di mio padre fra la luce e l’ombra dei crateri della luna. Padre luna.  L’identità: più ci conosciamo, più sappiamo di noi e più ci preoccupiamo della nostra identità. Sarebbe sensato che una volta sulla strada della conoscenza di noi stessi, ci distraessimo dalla nostra identità… Leggi  i libri di anziani scrittori e finisce che a pagina 12 o 40 ti raccontano del padre, ti raccontano della madre, per raccontare se stessi vanno ad un secolo prima, a cinquanta anni prima… e invece giovani raccontano se stessi mostrandoti il loro compagno di stanza, di banco, di viaggio. Siamo o non siamo , la radice è la stessa della famosa frase, ma cambia ogni cosa. Ho quindi visto il padre nella luna, e l’ho rivisto nel volto del papa. Mio padre ha contratto la malattia del papa a poco più di quarant’anni. Si è fatto più di trent’anni di malattia e alla fine era il sosia del papa. Mio padre è morto prima. Voglio dire che il papa mostrava la malattia non come può essere la malattia, quella malattia, il Parkinson, sul volto del papa; mostrava la malattia esattamente come mio padre. Per questo alla fine mi era pure simpatico. Tutto il mio lavoro si è mosso nella direzione dell’identità, della presenza, e della  consapevolezza, seppure spesso raggiunti con un mezzo tenuto in mano  da un braccio debole, indebolito o in via di indebolimento. Proprio  come l’immagine del papa, e di mio padre. Al suo funerale, dopo una  cerimonia frettolosa, fatta da un vecchio antipatico prete che voleva  liberarsi al più presto della cassa, dissi qualche parola in suo  ricordo. E dissi proprio che la sua paralisi lo aveva portato a  concentrare le azioni in gesti minimi, mi ricordo come beveva il  caffè e come in quei gesti minimi era concentrato il piacere del  bere, a risalire, fino al piacere di essere vivo. Insomma c’è  qualcosa che nell’indebolimento amplifica il gesto. Penso alle  foto di “pallido pallido”, fatte nel momento in cui la luce spariva  assieme alle mie forze, utilizzate al raggiungimento di  quel luogo. Albinati lo descrive nell’introduzione del volume.

P.M.: Il “padre” è anche più esplicitamente in altri tuoi lavori anche e soprattutto “tuo” padre dunque, del quale hai tentato di ricomporre le tracce visive del “suo” vissuto. In questo il tuo lavoro diventa quasi il lavoro di raccolta dati, di indagine, di esplorazione sul campo, in presa diretta, al vivo, senza alcuna intercettazione da parte del benché minimo canovaccio; ciò che avviene, avviene direttamente nella realtà e c’è un sottrarsi alla scelta di questa o quell’altra inquadratura come se ciò potesse in qualche misura inficiare la raccolta stessa dei dati. La presa diretta diventa così accessorialità senza intermediari della propria stessa esistenza, una sorta come dicevo di prolungamento del sé. Il tono fiabesco del titolo di questo video “C’era una volta un papa…” sembra volerci introdurre dentro ad un racconto, farci conoscere il protagonista , ciò che ha fatto e quel che se ne sa di lui. Ma una tale aspettativa è di fatto subito disattesa dall’inquadratura involontaria della videocamera che obbedisce ai movimenti di chi la indossa e che per quanto si sforzi di indirizzarla su quanto di più curioso o forse significativo si imbatta , spesso manca l’intendimento per via delle difficoltà fisiche a orientarsi dove vuole, vista l’assenza dell’ausilio di una mano che l’orienti. Chissà se poi ha un senso che proprio quel papa che aveva attraversato il disfacimento, prima del muro poi dell’impero dell’unione sovietica, poi ancora delle torri gemelle, abbia proprio lui affermato che sarebbe stata la bellezza a salvare il mondo.                                                                                                                                                                                               S.A.: C’è un testo che ho scritto in Spagna, durante la costruzione di “Pallido Pallido”, una frase che ancora non ho capito, che qualche volta vorrei ricordare a memoria ma che non ricordo mai, che dice:

Alla fine, dopo tanto viaggiare, non ci sarà montagna, né collina, che non assomigli: Né fiore né pietra che non sembri quello che avevi già visto. Quella sera, qualche capello bianco ti coprirà e per beffa sarai pure un po’ più uguale. Per un destino che ci vuole sempre diversi, non sarai più lo stesso, finendo però per assomigliare sempre di più a tuo padre e tua madre. Penserai allora che il tuo indirizzo è il primo indirizzo obbligatorio verso la fine della terra.

Vorrei tanto riuscire a comprendere il vero senso di questa ultima frase. Chi mi può aiutare? 

P.M.: Questa considerazione crea un ulteriore collegamento con tutto il tuo lavoro fatto, per così dire, di “segmenti” che sono differenti ma che sono simili, assomigliandosi nella predisposizione al vissuto, a non dimenticare, all’attenzione da riservare all’esperienza quotidiana per non farsi sopraffare da ritmi troppo incalzanti, per non farsi divorare dall’inquieta frenesia di un esistere indifferente. La stessa scelta del “fermo-immagine” mi sembra rispondere a questa necessità, rallentare per guardarsi e guardare…