“Il pittore è allo scoperto come il poeta, con la differenza che il poeta deve avere la cultura, il pittore deve avere l’esperienza, e l’immaginazione di esperienza continua, capisci? Dieci anni fa avevo un’esperienza, come un anno fa e come avrò fra un anno. Cioè l’esperienza è anche ad esempio conoscere lei”[1] . 

“Carol Rama non è schiava dell’arte” dice con veemenza Franco Testa, (Galleria del Ponte – Torino), amico dell’artista. Ci sono artisti che, una volta famosi grazie ad un’opera, non riescono a liberarsene più, essa diventa il loro “marchio”, e si accontentano di riproporla in infiniti modi con minime variazioni, sicuri della buona accoglienza del mercato. Piuttosto che artisti finiscono per diventare “confezionatori” di opere d’arte, opere dalle quali piano si esaurisce tutta l’autenticità del prodotto di genio.
Carol Rama non presta se stessa a nessuna logica, tantomeno proveniente dal mercato.
Con ogni decennio della sua vita è stato possibile aprire e chiudere un capitolo, ogni volta particolare e diverso.
Così quest’anno, alla Biennale di Venezia, un premio (alla carriera) richiamerà all’attenzione di tutto il mondo dell’arte, questa ricerca straordinaria, questa artista ancora non completamente e in tutti i suoi aspetti conosciuta.
Il merito va tutto a lei, artista multiforme e “vitale”, impossibile da etichettare e classificare in qualche categoria. Le varie fasi della vita di Carol Rama offrono continuamente un materiale diverso d’analisi e lo fanno, come osserva giustamente Marco Meneguzzo, non in base ad una volontà eclettica che li sottende ma in virtù della particolare natura dell’artista “fedele più a un proprio modello di vita che a un modello di rappresentazione della vita”[2] .
Sarebbe un grave errore classificarla quindi, come incoerente, semplicemente eclettica.
Ogni rinnovamento prende in realtà il via dalla sua particolare attitudine alla sperimentazione, che è poi il segno più importante dell’enorme vitalità che anima l’artista. Alla domanda: “da che cosa nasce questa vitalità”, Carol Rama ha risposto in più di un’occasione in questo modo:

Questo probabilmente dipende dal fatto che so guardare, so vedere le persone, considerarle, so collocarle in un clima, in un ambiente“[3] .

La risposta conferma con quanta curiosità investe ciò che la circonda, senza bisogno di ricercare lontano per trovare ispirazione o motivazioni. Questa sua attenzione al quotidiano, al vicino, le consente infinite possibilità espressive. E’ proprio a questo che Carol Rama dà il nome di esperienza, quando dice che è un requisito fondamentale per il pittore. La sperimentazione di Carol Rama si compie per˜ soprattutto dal punto di vista dei linguaggi artistici e non tanto dei motivi di fondo, che come si vedrà, mantengono una propria continuità nel tempo. Continuità dei motivi di fondo ovviamente non sta per continuità dei soggetti. La grande capacità di Carol Rama è proprio quella di declinare in vario modo, attraverso i soggetti e, soprattutto, i linguaggi, le stesse tematiche di fondo a cui è legata.
La sperimentazione è generata da un’autentica predisposizione dell’artista a quella che è la caratteristica peculiare del suo lavoro: la creazione. Ma si può parlare ancora di creazione? Sì, se si intende creazione di sé. Quando a muovere un artista è un’effettiva esigenza interiore, una attitudine seria per i mezzi del linguaggio visivo, ogni opera diventa un’occasione per creare da capo qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. 

Carol Rama non si è mai accontenta dei risultati raggiunti, ha preferito, dopo averli ben sviluppati, continuare a interrogarsi, a mettersi in discussione con grande coraggio.
Dopo l’esordio difficile degli acquerelli e dopo i primi oli che, nel 1944, già contengono una forte connotazione informale di natura materica, per lei forse non è stato difficile imboccare una nuova strada come quella del MAC, strada di astrattismo ortodosso, in quanto ancora non erano sopraggiunti riconoscimenti importanti, tranne qualche partecipazione alla Biennale. Già con il MAC invece il nome di Carol Rama è dato incontrarlo con qualche frequenza, soprattutto a esposizioni collettive, non per questo lei rimase affezionata a questa fase. A proposito del MAC, possiamo dire che è il periodo meno originale, della carriera di Carol Rama. L’artista stessa non vi rimane particolarmente legata, come dice Giancarlo Salzano. Eppure esso riveste una posizione e un ruolo strategico. Segue il periodo più apertamente drammatico della sua produzione e si oppone ad esso proprio in virtù della sua astrazione formale.
La sua importanza non risiede nelle opere che lo contraddistinguono, ma nell’occasione che fornisce all’artista di imparare a gestire i furori che la animano. Da un estremismo all’altro, il primo foriero di opere straordinarie, il secondo scarsamente importante da questo punto di vista, entrambi convergono nelle fasi successive. Con i cosiddetti bricolage degli anni ’60, definizione data da Sanguineti, Carol Rama riesce a dosare le sue forze, senza nulla togliere all’originalità, all’espressività, alla genialità delle sue opere. Informale, espressionismo astratto e neo-dadaismo sono le molte “voci” che convergono, dall’arte e dalla storia dell’arte, e che convergono in un linguaggio unico e irripetibile.
Ogni passo segue l’altro con evidente ma inattesa consequenzialità, sviluppi di un cambiamento artistico che diventa scrittura di un cambiamento di sé. La perenne ricerca di Carol Rama dimostra insomma come le proprie inquietudini non vengano mai sopite del tutto e trovano un livello sempre maggiore di assorbimento e trasformazione:

“Il dolore ci viene inglobato dentro il nostro modo di vedere la vita e ci fa riflettere”[4] .

Come lei stessa dichiara, il segreto è imparare a convivere con il proprio dolore: l’arte le fornisce il modo di riuscirci.
Con gli anni ’70 l’artista sembra raggiungere, attraverso un personale tipo di astrazione concettuale, un periodo di distensione e forte meditazione, intuibile dalle superfici perfettamente costruite per zone piatte di colore su cui si dispongono, ordinate, le camere d’aria di bicicletta stirate, lisce ed in tensione. L’oggetto di rifiuto, se pur carico di drammaticità, sacrifica la propria violenza espressionistica e partecipa all’opera sfruttando il suo caldo pittoricismo di base. 

Masoero: “E qual è il modo per cui decidi, per esempio di fare una zona dipinta o di prendere un oggetto e di collocarlo in un contesto?” Carol Rama: “Questa è una cosa che a me è sempre piaciuta, quella di giocare con gli oggetti, cioè che sia un pezzo di carta vetrata o un pezzo di gomma, le ruote delle biciclette, che ricordano un brevetto che aveva preso mio padre, mi metto sempre nella condizione di essere più brava di quando ero giovane giovane, perché adesso sono vecchia e devo avere delle esperienze, e devo imparare a metterle come composizione se no che poesia scrivo“[5] .

Un cambiamento radicale segna la produzione del decennio successivo. Recupera la figurazione e la pittura, ma in una veste solo apparentemente tradizionale. Lasciando aperto il varco della memoria, scagiona la sua figurazione più primitiva. A differenza del passato, aleggia una atmosfera più vivace; c’è una divertita indifferenza e irriverenza verso tutte le componenti tradizionali della pittura, composizione, spazio, colore. Sui fogli planimetrici che le servono da supporto per sentirsi libera, si crea una dimensione multicentrica, multiforme, multiculturale, multietnica, multicolore, “multierotica”. La felice e tanto attesa stagione dei successi internazionali e non, sopraggiunta con l’inizio degli anni ’80 rivive negli stati d’animo dell’artista e necessariamente quindi nelle opere.
La carriera di Carol Rama consente numerosi riferimenti a vari movimenti artistici del secolo scorso. Espressionismo, con un occhio al Surrealismo, quando si parla degli acquerelli; informale per gli oli degli anni Quaranta; neo-dadaismo in riferimento ai bricolage; Arte Povera rispettivamente per gli anni ’70 e gli anni ’80. Un percorso eccezionale, attraverso il quale ha messo insieme un bagaglio di esperienze grandioso.

Ma in rapporto a questi avvenimenti Carol Rama è stata in molti casi assolutamente precorritrice. Se per un verso è sempre esistita in lei una cognizione attenta di quanto avveniva intorno, per un altro si è dimostrata notevolmente in grado di cogliere gli umori del momento, quelle agitazioni latenti che conducono alle varie trasformazioni, che sviluppano tendenze e creano nuove piste di riflessione artistica. Il suo straordinario intuito ha permesso, in opere come Presagi di Birman del 1970, di fare concettualismo con “materiali poveri” in maniera tempestiva considerando il nascente movimento Arte Povera. Lo stesso si può dire per le opere degli anni ’80, che attraverso il ritorno alla pittura e al suo personale citazionismo, possono perfettamente dirsi anticipatrici del giovane movimento della Transavanguardia.
Nei confronti di tutti i possibili accostamenti, sia di quelli ora menzionati che di tutti gli altri, la produzione di Carol Rama non è mai adatta a omologazioni. Rimane pur sempre il cammino di una grande indipendente che ha saputo cogliere del suo tempo tutti i possibili progressi senza rimanerne assoggettata.
Sperimentazione vuol dire allora per l’artista continua ricerca interiore, approfondimento delle proprie risorse immaginifiche, e continua ricerca linguistica. Ogni cambiamento reca in sé qualche rischio, ma Carol Rama, come dice Lea Vergine, è “un’artista che non teme di misurarsi con nulla” e che può permettersi tutta questa mobilità in virtù di forti punti di riferimento interiore.

Note:
[1]Carol Rama, dall’intervista rilasciatami il 24 luglio 2002, nella Galleria di Franco Masoero a Torino.
[2]Marco Meneguzzo, Occhi incantati per Carol, in “l’Avvenire”, 19 febbraio 1994.
[3]Carol Rama, dall’intervista rilasciatami, citata.
[4]Carol Rama, dall’intervista rilasciatami, citata.
[5]Carol Rama, dall’intervista rilasciatami, citata.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto:

Le Parche rosse, 1944 olio su tela, 61 x 51 cm Collezione Paola Rampone, Roma

Opera n. 15, 1939 acquerello su carta, 24 x 33 cm, Collezione privata, Torino

C’è un altro metodo per finire, 1967 Materiali vari e tecnica mista su carta, 35 x 48 cm Collezione privata, Torino