Saggio critico pubblicato in occasione della Mostra Collaterale alla 54 Biennale di Venezia Pino Pascali ritorno a Venezia, mostra e catalogo a cura di Rosalba Branà, direttrice della Fondazione Museo Pino Pascali, e di Giusy Garoppo, ed. DI MARSICO LIBRI.

In occasione della mostra è stata realizzata la animazione e sonorizzazione de Il Supplizio, progetto di macchina celibe dell’artista (1964), per la cura di Simonetta Lux, realizzazione animazioni Matteo Marson. Visibile in mostra.

(gli asterischi* rinviano alla fine del testo, ad Alcune note a Pascali “africano”)

Scrivere di un Pascali “africano” potrebbe voler dire che quella di tema africano è una linea dominante nell’opera di Pascali, ma non è così. Potrebbe anche voler dire che è tracciabile un filo creativo che collega i due tempi e modi diversi della creazione di Pascali, ma apparentemente non è così, poiché sia nel periodo delle creazioni per la pubblicità e la televisione (1958/1965), sia nel periodo dell’entrata in scena nel mondo dell’arte dove resta per soli tre anni (1965/1968), nel mondo immaginifico di Pascali abbiamo oltre al suo richiamo a temi dell’Africa e del “selvaggio”, anche i temi della guerra, della pubblicità, della comunicazione di massa, del mondo industriale e del mondo agricolo pastorale, del naturale e dell’artificiale.

Può – e vuole tuttavia – voler dire che Pascali, Pascali considerato come autore critico e consapevole, come uomo/artista, va considerato in un processo che dura fin dai suoi inizi nel 1958, e che la sua visione del mondo da lì cresce e attraverso i temi dell’Africa e del selvaggio si precisa e si racconta il suo posto nel mondo e nella società contemporanea, sia quella della comunicazione di massa sia quella dell’arte e della cultura.

E ciò che Pascali chiama linguaggio totale, unità di uomo e creatore, nelle diverse forme di creazione.

Decido di scrivere di un Pascali “africano”, insomma, dopo aver in altri miei scritti precedenti sottolineato il carattere colto e responsabile della azione di Pascali nell’arte (la metamorfosi da parola a sensualità a immagine o/a opera o/a azione): colpita sia dal ruolo che a Pascali è attribuito dallo studioso della cultura artistica africana contemporanea nell’era postcoloniale e postmodernista Jean-Loup Amselle*, sia colpita da una recente dichiarazione di Vittorio Rubiu*. Per entrambi i casi sottraggo così Pino Pascali alla fatua contrapposizione arte/nonarte (certo vi sono campi diversi e separati della creazione e produzione artistica), riconducendolo nella piena attualità del suo pensiero critico sul mondo contemporaneo, sottraendo legittimamente il suo pensiero dai confini delle definizioni e dalle gabbie oggettuali.

A premessa di una riedizione di un suo testo dell’83, Rubiu scrive:

“Una cosa vorrei che alla fine risultasse chiara, cioè che uno degli aspetti più significativi della personalità di Pascali consiste proprio nella oscillazione, o tensione, tra la consapevolezza della storia, del divenire storico dell’arte, e quello che la Sontag chiama il “sogno di un’arte totalmente astorica, e quindi non alienata” (p. 249).

La dichiarazione di Rubiu riapre per così dire i giochi della valutazione di Pascali, proprio di Rubiu che, insieme ai suoi amici dell’epoca Kounellis e Mattiacci in particolare, era stato il più drastico nel vedere una profonda scissione tra il lavoro di Pascali nel campo della produzione per la pubblicità e le sue opere come artista, con la sua entrata in scena nel sistema di legittimazione dell’arte, cioè con le mostre nelle gallerie e nei Musei più importanti dell’epoca. Lo scandalo era iniziato fin dalla fine del 1968, quando Sandra Pinto* pubblica ( D’Ars, gen. 1969) e parla per la prima volta di alcuni suoi lavori per la pubblicità (spot video, creati nello studio di Sandro Lodolo*, per la casa di produzione di Massimo Saraceni), cosa che era sembrata come un pericolo di arresto o diluizione o abbassamento della conferma a grande artista internazionale di Pino Pascali, che lasciava sì un straordinario patrimonio di opere eclatanti e di unanime successo internazionale, ma un patrimonio chiuso ed quindi in pericolo, ai fini della circolazione futura, stanti le regole del sistema finanziario dell’arte.

Un “sistema” di cui Pascali era stato ben consapevole, quando scrive nel suo ormai famoso taccuino e fogli sparsi (Lux*in D’Amico,1987, foglio 6; Pinto, 1969): ”Oliman Linguaggio oggetto linguaggio galleria linguaggio totale le opere sono esposte” e “Arte- test psicologici- libertà”.

Molto si è chiarito da allora, e certo la creazione di docufictions (gli spot tv, da Carosello alle diverse pubblicità per la rai, in bianco e nero) è cosa diversa dalla creazione dell’arte, risponde a criteri ben diversi di valutazione e lettura, ed è merito di Marco Giusti aver messo i puntini sulle i. Identifica certo il carattere collettivo del lavoro filmico e di animazione, ma di Pascali identifica le peculiarità, in ognuno dei settori (pubblicità per il cinema, per la tv, sigle tv, scenografia), e dice: “Pascali, a dispetto di quel che si pensava allora, soprattutto negli ambienti artistici, si distingue come un innovatore creativo e fondamentale”. E cioè le sue sigle hanno fatto scuola, sono un modello di creatività degli anni ’60, le sue forme animate erano diverse da “quelle che ci proponeva la tv del tempo”, e pone come indubbio che Pascali adoperasse (o avrebbe adoperato) nel suo lavoro di artista idee che provava nella grafica pubblicitaria.

Dunque due ambiti di creazione diversa, certo, ma connessi: da che cosa? Che cosa a che fare la lettura e l’apprezzamento delle carte e opere di Pascali degli anni della collaborazione con Lodolo e con la casa di produzione cinematografica di Massimo Saraceni (1958/1965), tra le quali vi sono quelle aventi a soggetto l’Africa ed il selvaggio o il cosiddetto primitivo, e le opere d’arte che Pascali stesso riconosce come arte, a partire dalla mostra del gennaio 1965 alla galleria La Tartaruga, fino alla ultima, la Biennale di Venezia del 1968? Che significa dire “Pascali africano”? Che cosa era “primitivo” o “africano” o “selvaggio” per Pascali? (Calvesi*).

Intanto, per queste opere disegni, carte create da Pascali per la pubblicità, emerge un elemento interessante: tutti i suoi personaggi sono disegnati come dei totem: se nelle loro parole o movimenti vengono ironicamente individuati nei loro tic e ruoli automatici, proprio per questo automatismo il disegno, la struttura della immagine, è totemico. Dunque l’africanità (il totem) si fa in Pascali sempre “linguaggio”, sistema di segno, adeguato alla sua osservazione del mondo e dei soggetti contemporanei.

Ma dicevo, che ha a che fare quella frase oggi di Rubiu, proprio lui, con tale indicazione di poetica, che è anche etica? Eppure sappiamo che Pascali, perfino nell’immagine ultima che ci ha lasciato – il rifiuto di aderire al boicottaggio della Biennale di Venezia del ’68 – è una immagine di estraneità dal “politico”. Il Totem = l’uomo tipizzato. L’animale dell’Africa (vedi il disegno astrattizzato del leone) viene disegnato o con il codice essenzializzato adeguato alla comunicazione visiva, o con il codice stilistico della sua sperimentazione polimaterica (l’elefante, la giraffa, il rinoceronte) che è anche di un naturalismo modificato e adeguato alla memoria dell’infanzia (i libri di racconti illustrati), risalimento alla sua identità originaria, che è sempre la questione sottostante alla sua opera creativa, che la “giustifica” e che gli consente la sua identificazione non alienata, nel mondo in cui opera e in cui si sente “estraneo”. Come ci chiarirà nel 1967.

La verità è che Pascali era, viveva, una estraneità sia rispetto alla società industriale e metropolitana (in cui pure si immergeva: risposta alla intervista della Volpi) ed agli attori di quella scena (la gente comune, i ruoli, i personaggi totem) sia rispetto alla “storia dell’arte” contemporanea o antica che fosse. Allora – quando lavora nel mondo della pubblicità e della comunicazione alla massa, la sua domanda a stesso doveva essere: che mondo è questo che sto illustrando e con cui sto comunicando? Dopo, quando entra nel mondo dell’arte con l’arte, la sua domanda a se stesso è: che cosa amo? Che cosa sento? Che cosa sono, se in questa attualità mi sento disperso o soffocato? Che fare? La risposta che matura nel tempo (e che risalta nel documento manoscritto autobiografico ora di Anna D’Elia* e nella intervista a Carla Lonzi* del 1967, di cui forse quel documento è preparatorio) è: devo tornare alle mie origini al fondamento della mia personalità. Da qui scaturisce quella sua posizione di poetica/etico-politica, che intuitivamente oggi Rubiu coglie, contro ogni evidenza “storica” del modo di darsi e di porsi di Pascali, a cui assistemmo, oltre alle immagini e agli oggetti stessi. La sua estraneità e la sua astoricità è un suo “giudizio” sulla condizione dell’uomo nella società contemporanea industriale avanzata (Argan). Astorica e quindi “non alienata” è la sua azione nell’arte, ma storica è la azione di cui egli dice “arte è trovare un sistema per cambiare”.

(cit. in Lux-D’Amico, dalla intervista su “Marcatré”, n.37/38/39/40/, maggio 1968, a Marisa Volpi* su Tecniche e materiali).

Ma io che, ventiduenne negli anni 65-68, avevo accolto con passione tutta la uscita di Pascali come artista (non conoscevo le sue creazioni per la pubblicità), che ero giunta a capire questo giudizio di Pascali sul mondo, mi sono chiarita del carattere originale e processuale di dare forma a una azione di contrasto a tale contesto inaccettabile, quando ho studiato i suoi disegni e appunti in parte inediti, nel 1983.

Ma si tratta pur sempre di appunti del pensiero di Pascali dell’ultimo anno e mezzo della sua vita. La azione di contrasto di Pascali al mondo in cui – come Carlo Magno*, “si immerge e non si bagna”, vale anche per le opere prima della sua scesa in campo nell’arte e con l’arte? Quando potrebbe apparire perfettamente integrato nel sistema della comunicazione di massa e della committenza pubblicitaria: il massimo di sistema?

Arrivo oggi a condividere questa intuizione critica di Rubiu per altra via, che è una via che attesta anche la labilità e anacronicità dell’atto critico (che però poi in quanto tale, in quanto anacronistico, è sempre vero), tanto quanto dell’atto artistico.

Dopo tanti modi della apparizione, nell’ambito della nostra attività critica ed espositiva, delle creazioni di Pascali che hanno in special modo a che fare con l’Africa (e che si danno proprio degli anni delle sue creazioni tra 1958 e 1965 di spot e docufictions e che originalmente hanno che fare con esse e tra esse, e che poi ritornano in modi e linguaggi diversi i tre anni della creazione artistica), mi aveva colpito nel 2005, la citazione da parte di Jean-Loup Amselle di una dichiarazione, di un pensiero, di Pascali, in apice al capitolo 3 intitolato L’arte africana dev’essere esposta?, del suo libro L’art de la friche. Essai sur l’art africain contemporain (tradotto nel 2007 da Bollati Boringhieri col titolo L’arte africana contemporanea):*

“Quando i neri creano un oggetto, ne nasce una civiltà. Lo creano in quel momento preciso, con l’alacrità dell’uomo che scopre i meccanismi, la scienza dell’uomo che scopre tutto”.

Sono le parole che Pascali dice a Carla Lonzi, Amselle le trae (p. 38) dal Catalogue du Musée d’art moderne della Ville de Paris, per la mostra di Pascali che vi si tiene nel 1991.

In quello stesso apice c’è una citazione dell’artista africano Frédéric Bruly Bouabré, significativa del modo in cui sente un artista delle culture emergenti, che vuole essere un artista-uomo, all’inizio del nuovo millennio (è il 2000): “Volevo essere Victor Hugo, mi prendono per Delacroix”.

Il libro di Amselle, che (come dice in una parte avanzata del suo saggio) vuole essere uno “studio posto sotto l’egida dell’estetica politica” (p. 88), si interroga su che cosa si sia inteso anticamente (a partire dal XVIII secolo) e si intenda oggi quando si parla di “arte africana” e di “artista africano”, partendo da tutti luoghi comuni e pregiudizi originari, fino alle interpretazioni primitivistiche dell’inizio novecento, giù oltre fino agli attuali conformismi della trasmissione e della percezione dell’Africa e dei suoi processi creativi, di livello più o meno popolare e con il persistere o scomparire dei pregiudizi – attraverso simulacri e divi della comunicazione di massa. Uno studio che si dispiega nella cornice del postcolonialismo e del postmodernismo.

Non è qui il luogo di andare oltre sul seguito dello studio di Amselle, che si colloca in un più ampio dibattito internazionale su che cosa possa e debba intendersi per arte e per artista oggi, nel mondo globalizzato, ancora (per poco) diviso tra società industriali avanzate e secondo o terzo mondo, tra culture dominanti e culture emergenti, tra centri e periferie: un dibattito nel quale i termini stessi si stanno dissolvendo e che quindi va riscritto in termini totalmente diversi.

Certo è che per Amselle – il cui titolo originario che ho appositamente riportato (e che è diverso dalla traduzione) parla dell’ “arte della friche” che è l’arte propria del luogo abbandonato, del luogo/scarto, è lo scarto stesso, il feticcio e il kitsch della trasmissione popolare, pregiudizialmente degradata di senso, l’oggetto “parziale” dal senso dimezzato.

Ciò di cui parla Pascali in quella parte scelta da Amselle della importante intervista a Carla Lonzi (c’è da chiedersi perché Carla Lonzi non vi ha inscritto le domande: proprio per la consapevolezza della inadeguatezza della “parole” e anche lei per non inficiare ed intuendo la originalità di Pascali), è il ritrovamento del senso autentico dei valori di una volta. Ma non è solo questo (sarebbe semplicemente un luddismo culturale quello di Amselle-Pascali). Amselle – Io ipotizzo – vedendo le opere “africane” di Pascali nella mostra di Parigi del 1991, sia le creazioni per la pubblicità, sia le straordinarie sculture, sia centinate (la decapitazione delle giraffe; il rinoceronte), sia realizzate con materiali bassi e d’uso popolare e comuni (le trappole, le liane i ponte fatte con materiali industriali -la retina di ferro, generalmente d’uso di cucina per pulire le pentole di alluminio- o artigianali come la rafia) e leggendo altri scritti di Pascali, ha individuato il credo metodico di Pascali non solo nell’arte, ma in tutto un processo creativo che trapassa da una fase all’altra della sua vita.

“Ho orrore della tecnica come ricerca… – dice a Marisa Volpi – l’industria? Certo importante, io sono molto attento a quello che vedo per utilizzarlo (ad esempio il colore innaturale di quei tappetini pelosi, meraviglioso), la cultura, quello che fanno gli altri, gli oggetti della rinascente e della Upim, tutto si può utilizzare, trasformare. Il realismo e l’astrazione mi spaventano ugualmente perché non cambiano, costringono nella loro identità, il cubo col cubo, il paesaggio col paesaggio, ecc. L’arte è trovare un sistema per cambiare: come l’uomo che ha inventato la scodella per prendere l’acqua la prima volta. Così nasce la civiltà, la voglia di cambiare. Dopo la prima volta la scodella è accademia. Fare un ponte di corde, fare un dio di legno, vincere la fatalità, una condizione, una paura. Quello che faccio è l’opposto della tecnica come ricerca, l’opposto della logica e della scienza”.

“Senti – dice a Carla Lonzi nel luglio 1967 (Discorsi, in Marcatré, n. 30,31,32,33, luglio 1967), dopo aver parlato della sua estraneità al mondo e all’arte stessa anche grandissima, di cui vorrebbe solo capire come l’altro ha fatto a “far uscire da sé quel fenomeno potente” come il non finito di Michelangelo o le sculture di Claes Oldenburg – quello che mi colpisce più di tutto a me sono le sculture dei negri, veramente, i loro oggetti hanno una tale evidenza, una tale forza che mi prendono, mi posseggono. I libri che compro adesso sono questi qui. A me ogni oggetto, anche artigianale, qualsiasi cosa che facciano che sia autentico, mi fa impazzire molto più di un designer moderno, ti giuro. C’è un abisso spaventoso tra un cucchiaio loro intagliato con l’accetta e in quella maniera con quella decorazione e uno nostro. Io trovo che siano troppo eleganti queste cose industriali, vedi c’è questo fatto che il disegno è sempre schiavo di un gusto, cioè sul piano del consumo, gli oggetti che si fanno non sono inventati, sono costruiti a seconda del gusto, medio oppure alto, ma sempre del gusto……………………………………. E ci vuole l’intensità di chi non ha niente per potersi veramente creare qualcosa”.

Pascali è dunque passato da un uso delle immagini stereotipe dell’Africa e dei suoi animali, sia rielaborandole con tecnica postinformale (Gorilla, Aborigeno, Rinoceronte, Giraffa, Elefante) sia traducendole in segni, in cifra identificativa anche dei personaggi delle aree e delle periferie metropolitane (Homo Sapiens, Postero’s, Minotauri, per la Rai_sigla Intermezzo del 1962-63 d.f., Totem, 1963 d.f., Leoni del 1962-63 d.f., Stregone della coll. Lodolo datato 1964, ToTEM della coll. Berardi, Tre Mascheroni per Radiotelefortuna quindi del 1964, i Killers e il Tenente O’Clock per Algida d.f. 1964-65, il Moschettiere per Rai-Intermezzo d.f. Il Soldato del 1963 per le Sigarette Amadis d.f.,) riversandole nella comunicazione di massa della prima televisione italiana (sublimandone in ironia e scherzo gli ordini di contenuto e di tono), talvolta realizzando con il riuso anche delle sculture/totemini di personaggi tipici (Lo Scozzese; il Viveur; Il Selvaggio) all’uso delle materie basse o di scarto e degli oggetti trovati, per quelle opere d’arte – che egli chiama “sculture finte” (Labbra rosse-Omaggio a Billy Holiday, Torso di Negra al bagno, Negra al bagno, Decapitazione della scultura, Decapitazione del rinoceronte, Decapitazione delle giraffe, trofei di caccia, Grande rettile, Scogliera, Cascate, Mare, Bambù, Serpente, Trappola, Ponte, Pelle conciata, Le penne di Esopo, Coda, Ponte levatoio) nelle quali è usato come trash persino talvolta il procedimento originario: costruire oggetti centinati, come farebbe un costruttore di barche o un aereomodellista, enunciando tra memoria dell’infanzia e la bassa lega della trasmissione dell’imagerie afro/selvaggia la scoperta della “grotta primordiale” delle idee dell’arte.

Che come dice Amselle, è ricerca delle forme estreme di vita, o, il che poi è la stessa cosa, delle forme primarie, anzi primali, rispetto all’esistenza. Un primitivismo che si è “tentato di tenere sotto controllo” ma che non è più da cercare nelle giungle remote della foresta amazzonica o della nuova Guinea, ma nelle giungle delle città africane o europee, là dove si può scoprire la grotta primordiale delle idee dell’arte, che sono in attesa e chiedono solo di essere rivelate da un inventore”.

Tra i due tempi della creazione di Pascali, tra la fine del 1964 e gli inizi del 1965, c’è un’opera/metafora, un’opera cerniera, che chiude (e comprende elementi) la prima fase (quella degli ordini della committenza televisiva) e anticipa temi e sculture (ma non il linguaggio) di quella dell’arte (1965-1968): il progetto di macchina celibe “Il Supplizio”, auto commissionata, destinata io credo ad una “animazione” (come si evince dalla legenda/racconto che la descrive), nella quale tutte le arti dell’ironia pascaliana propria dei suoi lavori per la pubblicità e per gli spot televisivi, la ricerca stessa delle armi favolistiche della letteratura medievale cavalleresca per l’infanzia (insomma il suo scavo nelle proprie origini), la spettacolarizzazione degli oggetti (il teatrino, anticipato nel vassoio di frutta sospeso), il gorilla affamato che salta fuori dalla gabbia (che qui non appare, ma è solo raccontato: l’animale africano, non ancora disegnato, che poi, nella fase dell’arte sarà messo in scena nelle foto di Pascali, come “Alé Cita”, ricordo della scimmia che aveva allevato in casa quando era bambino), tutte quelle arti pascaliane vengono messe in moto dall’ordine del “Grande Maestro del Supplizio”, musicate dal “Batterista boja” che batte col tamburo il “ritmo infernale”.

La Vergine denominata con una M (Madre?), verrà suppliziata alla fine del movimento assurdo, kafkiano, impresso da una serie circostanze ridicole ma anche pericolose (la leva della grancassa che il batterista suona, che tira una corda, che apre la gabbia del gorilla, che mangia la frutta, che fa cadere le palle di piombo, che fanno trasbordare l’acqua da una vasca, che allaga le tubature, che fanno scattare la scure, che mette in moto il sistema dei giavellotti e delle balestre che trafiggono la (invisibile) Vergine, che precipita in mezzo alle lame che la triturano. Lasciandola cadere in un “atro averno”.

REQUIESCAT IN PACEM l’immonda creatura. Frase che conclude l’evento celibe di messa a morte. La cui “ideologicità” non trasparirebbe (puro evento crudele e sghignazzante di un meccanismo precostituito e incontrollabile o immodificabile), se non sapessimo che nell’anno della sua uscita come artista nel mondo dell’arte, a Torre Astura, per la galleria La Salita di Giantomaso Liverani, nel luglio 1965, realizza la nota performance su “Corradino di Svevia”, il giovane Imperatore tradito e messo a morte nel 1268 a 26 anni, inserendo nella installazione una scultura/finta (una finta lapide fatta di legno, panno felpato e tela dipinti a smalto) su cui iscrive: ”REQUIESCAT IN PACE CORRADINUS” (REX SUEDORUM-SAECULA SAECULORUM- DE CAPITE OBTRUNCUS ALICUIUS OPERA PRODITUS-JOSEPH PASCALI FECIT ANNO). Della quale performance forse “Il Supplizio” è una prima idea.

Pascali è stato nella grotta primordiale delle idee dell’arte, nella giungla africana/metropolitana, attingendovi la sua integrità originaria..

 

*Alcune note a Pascali “africano”.

Il testo di Jean-Loup Amselle (L’art de la friche. Essai sur l’art africain contemporain, Flammarion, Parigi, 2005) lo ho incontrato appunto nel 2005, leggendolo nella edizione francese. Questa lettura, che si collocava nella miei studi sulle culture transizionali, (su che cosa è l’arte e che cosa fanno gli artisti dell’ultimo ventennio, nell’epoca postcolonialismo e del postcomunismo, misurandosi con la loro perifericità e con la loro ricerca di autonomia dalle prescrizioni del sistema dominante dell’arte occidentale) mi ha dato la spinta a scrivere di un Pascali africano, come di un artista/uomo che intravedevo non più solo come artista produttore di opere d’arte, ma come un artista/critico alla ricerca di una propria identità originale rispetto al sistema occidentale dell’arte nel quale pure si situava, negli anni sessanta, e che era il solo sistema di legittimazione .

Jean-Loup Amselle scopre Pascali nel 2005, attraverso il Catalogue du Musée d’Arte Moderne de la Ville de Paris del 1991. In quel catalogo – relativo alla mostra lì realizzata di Pascali di quell’anno, preceduta dalla mostra per pubblicità di Roberto Peccolo di Livorno del 1990 e di Daniela Ferraria all’Arco d’Alibert di Roma dello stesso 1991 – è riportata la Intervista a Carla Lonzi Discorsi, uscita su “Marcatré” (luglio 1967, n.30,31,32,33). Forse, o quasi certamente, Amselle poteva aver visto nel 2001 la mostra alla Galleria Durand Dessert, nel cui catalogo sono pubblicati i disegni “africani”, tra gli altri a committenza Radio televisione. Ed il saggio di Lodolo Pascali et “son” Afrique.

Il testo di Vittorio Rubiu si trova nella riedizione del 2010 del volume di Anna D’Elia del 1983.

Anna D’Elia, insieme alla Galleria Peccolo, era stata la prima riaprire – dopo Sandra Pinto nel 1969, ad occuparsi anche del Pascali creativo docufictionist e comunque di tutto un patrimonio di immagini che risalivano agli anni appunto tra il 1958 e il 1964, tra cui anche le tre piccole sculture/totemini polimaterici (Lo Scozzese, Il Viveur, Il Selvaggio).

Sandro Lodolo, l’amico nel cui studio Pino Pascali creò disegni da animare o scenografie per una committenza televisiva o cinematografica, che veniva prodotta dalla casa di produzione di Massimo Saraceni, scrive il primo testo specifico su Pascali africano: dal titolo Pino Pascali e la sua Africa (8 gennaio 2001), in occasione della mostra tenutasi prima a Livorno alla Galleria Peccolo e poi a Parigi alla Galleria Durand Dessert nello stesso anno. Lodolo si concentra in particolare sulla realizzazione – nell’autunno inoltrato del 1964 di 15 filmati dedicati a popoli esotici, e mentre lui individua riprese che fa su paesaggi da foto pubblicitarie dei diversi paesi, a Pino viene affidato il lavoro su vario materiale iconografico, su Giappone e Africa, “che in camera oscura riproduceva in numerose copie sulle quali interveniva sbiancando a ritoccando le parti superflue per poi ingrandirle e riprodurle con del bitume su acetato […] Dopo vari orientamenti scelse la tecnica più efficace: l’alto contrasto su acetato”. Lodolo parla di una specie di “delirio nippo-africano, in cui convivevano samurai, graffiti primordiali, maschere tribali, indigeni armati e tanti animali”. Il film realizzato ha il titolo “AFRICA”, e la fiche tecnica (pubblicata nel catalogo della galleria Durand Dessert ) è la seguente:

Committenza: RAI. TV; Emissione: Radiotelefortuna 65”; Produzione: Lodolo & Saraceni Cinematografica; Durata: 60 secondi; Girata in: 35 mm.; Scenario: Sandro Lodolo e Pino Pascali; Ricerche: Nicola Attanasi; Scenografia e disegno: Pino Pascali; Operatore: Gianfranco Modestini; Voce: Gigi Ortuso; Musica: ”Percussioni” (repertorio RAI); Montaggio e messa in scena: Pino Pascali.

“Pino – aggiunge Lodolo – restò sempre affezionato al materiale “africano”, soprattutto gli animali, che rividi in seguito appesi nel suo studio privato, come si può osservare in una foto sul catalogo edito da De Luca nel 1982 in occasione della retrospettiva dedicata a Pascali al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano”.

Il testo di Lodolo, senza fiche tecnica, viene ripubblicato in Buon Compleanno Pino!70 anni dalla nascita di Pino Pascali, a cura di Rosalba Branà, Palazzo Pino Pascali, Polignano a Mare, 16 dicembre 2005-12 febbraio 2006.

Nel 2008 Lodolo rilascia una ultima intervista pubblicata nel catalogo della mostra alla galleria EMMEOTTO di Roma.

Due sono le interviste date da Pascali, su “Marcatré”: la prima nel n. 30/31/32/33 del luglio 1967, è quella a Carla Lonzi, la quale sceglie di intitolarla Discorsi e di porre al posto delle domande dei puntini di sospensione, per lasciar fluire il discorso/flusso di Pino Pascali.

La seconda nel n.37/38/39/40 del maggio 1968 è quella data a Marisa Volpi, nell’ambito di una larga inchiesta su “Tecniche e materiali”. Anche qui (e diversamente da tutti gli altri artisti intervistati) non c’è il ritmo domanda/risposta, ma una specie di racconto della Volpi stessa di come è andata la intervista telefonica, dall’inizio con la filastrocca “Evviva Carlo Magne / Ch va-n dall’acqua e non s’abbagne”, ed il seguito in cui si alternano i pensieri di Pascali ed i commenti della Volpi.

Marco Giusti, che vide la prima mostra di Pascali per la pubblicità nel 1991 alla galleria Arco d’Alibert di Daniela Ferraria, iniziò allora a fare ricerche negli archivi RAI e interviste ulteriori allo stesso Lodolo e a Roberto Manili. Integrò nel 1993, per la Biennale di Venezia, il filmato con i caroselli fatti da Pascali già realizzato da Lodolo nel 1991 (mostra Arco d’Alibert). Porta poi il filmato ulteriormente integrato alla mostra di Napoli, a Castel dell’Ovo ed infine nel 2003 a Polignano per il Premio Pascali. Racconta tutto questo nella sua intervista pubblicata nel catalogo della mostra “Pascali disegni per la pubblicità” tenutasi nel 2008 alla galleria EMMEOTTO, a cura di Daniela Ferraria, con un saggio introduttivo di Maurizio Calvesi e con Il saggio Per una filmografia di Pino Pascali e Filmografia di Marco Giusti.

Maurizio Calvesi, che insieme a Marco Giusti ha messo i puntini sulle i quanto al valore dell’opera di Pascali su commissione, nel 2010 in La vita che risorge, ritrova il “risalimento alle radici del primario”, ai motivi archetipici individualizzanti, confermando quella sua osservazione critica per cui per Pascali, anche nella strutturalità delle sculture “africane”, non si deve parlare di strutture primarie,nel senso americano, ma di una strutturalità del “primario”, dell’archetipico, e del primitivo in tal senso.

Simonetta Lux scrive di Pino Pascali, di cui era stata molto amica, solo, la prima volta, nel 1987, quando in occasione della mostra al Pac di Milano, Fabrizio D’Amico le affida lo studio e la analisi di un taccuino inedito (che tra l’altro l’autrice riconosce per averlo visto anche tra le mani di Pascali e farvi alcuni dei disegni) e di alcuni altri fogli sparsi in parte editi da altri.

Si tratta di del saggio Tutta la storia è da creare, in cui Lux spiega il processo creativo di Pascali e la sua idea di creare un mondo altro, con un processo creativo associativo che va da parola, a immagine, a oggetto, attraversandosi nello svolgimento dei sensi, della percezione e della memoria.

E del saggio Parole e disegni di Pino Pascali – Ragioni di un catalogo.

Ricordo che appena usciti ricevetti una telefonata da Emilio Prini, che lì per lì mi sorprese (chi conosce Emilio Prini può capirlo) e poi mi emozionò tantissimo. Mi disse che aveva letto il mio scritto, che lo trovava straordinario, e che pensava che fosse proprio come ogni artista vorrebbe che si scrivesse di lui.

Il saggio Tutta la storia da creare è stato poi riscritto integrato al più ampio contesto culturale dell’epoca, di cui Pascali appare ben consapevole e giudice nello stesso tempo, nel volume di Anna D’Elia, Pino Pascali, (Electa, Milano, 2010) con il nuovo titolo Un taccuino di disegni di Pino Pascali per opere future 1967-1968.

Simonetta Lux scrive poi sull’opera inedita e mai vista di Pascali intitolata “Il Supplizio”, che oggi qui si indico come opera/cerniera di congedo dalla fase creativa di Pascali docufictionist (per la pubblicità) alla fase propriamente della creazione dell’arte, di cui quella contiene una serie di anticipazioni.

È una stampa cianografica su carta, da un originale disegno a inchiostro su acetato mai ritrovato (cm.37x 117). Ne scrive sulla rivista on line luxflux.net (“LuxFlux-Prototype Arte Contemporanea”), n.1, 2003, “CENSURA D’IDENTITA’. 1.”Il Supplizio”, con una prima animazione realizzata su sue indicazione da Stefano Bruni.

Rosalba Branà espone tale opera, che oggi appare una specie di cerniera da una fase all’altra della vita artistica di Pascali, per la prima volta, al Museo Palazzo Pino Pascali di Polignano in occasione della mostra Buon Compleanno Pino! 70 anni dalla nascita di Pino Pascali, a cura di Rosalba Branà (Palazzo Pino Pascali, Polignano a Mare,16 dicembre 2005- 12 febbraio 2006), con una nuova analisi.

Lux riprende la questione del contesto culturale di Pascali anche in un importante contributo agli studi sullo scrittore Tommaso Landolfi, pubblicato in Cento anni di Landolfi, Atti del Convegno per il centenario della nascita 1908-2008 (Bulzoni, Roma, 2010), e della conoscenza da parte dell’artista di uno dei più importanti scrittori del Novecento.

Dall’alto:

Pino Pascali, Figura di donna, china e tempera su acetato applicato su carta, cm.24×29. Registrata presso l’archivio Pino Pascali. Christie’s vendita n.2415, 18 dic. 2002, Roma, Palazzo Massimo Lancellotti

Pino Pascali, Stregone, tecnica mista su cartoncino, cm. 35×24,8, realizzazione 1964, Registrata presso l’archivio Pino Pascali a cura di Sandro Lodolo. Christie’s vendita n.2415, 18 dic. 2002, Roma, Palazzo Massimo Lancellotti.

Pino Pascali, Rinoceronte, tecnica mista su acetato e cartoncino, cm.25×36, Coll. Privata

Pino Pascali, Decapitazione della scultura 1966, tela bianca su centine di legno, due elementi, cm.103x380x85 e cm.82x58x45, Asta Sotheby’s Parigi, 6 ottobre 2005.

Pino Pascali, Il Supplizio (particolare), (1964), stampa cianografica (matrice china su lucido dispersa), cm.37×117, Coll.privata, Roma.

Pino Pascali, Gorilla, 1964; pittura su acetato e carta.