Un progetto di forte impatto critico e politico quello curato da Okwui Enwezor per la seconda Biennale di Siviglia, inaugurata il 26 ottobre nella capitale andalusa. Il tema è quello dell’incertezza, della schizofrenia e precarietà che il soggetto è costretto a vivere in una contemporaneità segnata da conflitto ingiustizia e violenza, sostenuti da un cinico progetto politico sopranazionale che punta all’omologazione, al controllo, all’annullamento delle differenze, alla spietata supremazia dei diktat economici sull’etica e sulla politica: Los Desacogedores: Phantom scenes in global society/The Unhomely Escenas Fantasmas en el era global.

Dopo la Documenta XI, la biennale di Siviglia curata da Enwezor ha costruito intorno a sé grandi aspettative, dubbi ed attese – a partire dall’elenco degli artisti partecipanti che è stato reso noto solo un paio di settimane prima dell’evento: come si configurerà quest’evento dopo l’enorme lavoro critico e teorico rappresentato dalla Documenta XI, la Documenta “politica” e “terzomondista”, e dopo il dibattito internazionale che ne è seguito? A cosa assisteremo?

Note di logistica e politica culturale

Molte delle aspettative sono state sicuramente schiacciate dalla (dis)organizzazione dell’evento. Formale ed opulento per quanto riguarda la sua facciata esterna: inaugurazione per la stampa insieme al re di Spagna Juan Carlos, con tanto di kapò/cerimoniere dei giornalisti intento a spiegarci come muoverci e soprattutto non muoverci, come e dove camminare, dove andare, cosa pensare (e poco mancava a ricevere qualche consiglio su cosa scrivere dopo); ricchi banchetti con le famiglie notabili locali; sontuosa festa di inaugurazione in uno dei cortili moresco/barocchi più antichi e suggestivi della città. Poco credibile ed approssimativo, di contro all’apparente sontuosità, nell’effettiva messa in scena dei lavori dei novanta artisti presenti: autoritarismo burocratico ed inefficienza dei responsabili della (dis)organizzazione a cui talvolta – e per fortuna – faceva da contro altare la personale disponibilità di qualche scheggia impazzita di quest’ingranaggio poco rodato; parte delle opere ancora il giorno dell’inaugurazione giacevano imballate; videoproiettori spenti; orari di apertura e chiusura aleatori e flessibili; manutenzione degli spazi affidati a studenti e volontari (non pagati) che erano costretti a girare per le sale ed avviare a mano i lettori DVD delle videoinstallazioni di cui erano andati persi i telecomandi.

A questa parentesi logistica, che riguarda essenzialmente l’organizzazione locale dell’evento e non intacca il lavoro critico che è stato alla base dell’esposizione, è necessario accompagnare una nota di politica culturale, soprattutto per evidenziare la crisi che la biennale come modello espositivo sta vivendo dal punto di vista critico e concettuale: in un periodo in cui se ne incontrano almeno cinquanta di livello internazionale, molte delle quali con aspettative globalistiche e rappresentative del mondo contemporaneo, che ruolo può assumere una nuova biennale internazionale di arte contemporanea? A un’apparente e promessa apertura e molteplicità dei punti di vista (molte di queste biennali e mostre periodiche hanno sede in megalopoli dei paesi extraoccidentali), corrisponde sempre più una forte volontà politica di sviluppo locale, che si configura con una forte pressione per sviluppare il turismo ed ottenere fondi per la realizzazione di grandi eventi culturali. Un mix esplosivo, che genera quelle che nell’ambiente dell’arte globale vengono definite le “blockbuster expositions”, in cui la presenza di curatori internazionali di chiara fama e di artisti internazionali più che quotati ed affermati nel mercato dell’arte è un mezzo con cui attivare il turismo culturale (a cui fa seguito il turismo vero e proprio) e costruire un’immagine moderna, nuova e cosmopolita di una città.

Il caso specifico della BIACS sembra aderire perfettamente all’ipotesi appena descritta. Basta leggere un pò di cronaca culturale locale per riconoscere l’operazione che sta alle spalle della Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Siviglia: in un paese come la Spagna, caratterizzato nell’ultimo decennio – e in assoluta controtendenza rispetto al resto dell’Europa occidentale – da una forte crescita economica e da una conseguente vivacità culturale diffusa, mancava una biennale di richiamo internazionale. Ci ha pensato qualche anno fa Juana de Aizpuru, potente gallerista madrilegna e fondatrice di ARCO Madrid, che ha spinto per la creazione di una mostra periodica che tenesse testa alle principali istituzioni internazionali. Secondo chi – in Spagna – ha contestato la seconda BIACS per l’enorme impegno di fondi pubblici a discapito del sostegno delle realtà artistiche locali (in particolare faccio riferimento alle attività della Plataforma de Reflexión sobre Políticas Culturales – PRPC, che ha realizzato diverse contestazioni durante i giorni di vernissage della BIACS, compresa l’esibizione di un manifesto anti-biennale dalla Giralda di cui gira un video su YouTube), la Biennale sarebbe la manifestazione di questa volontà politica di esserci da parte dello stato spagnolo, mixata con gli interessi mercantilistici della Aizpuru (che pure ha lasciato la direzione della Biennale nel 2005 ma mantiene pur sempre un posto nel comitato di direzione). Una coincidenza di elementi innestati in una città in cui le attività culturali di richiamo internazionale si susseguono a una velocità impressionante (è bastato girare qualche giorno nelle strade di Siviglia per trovare cartelli in cui si segnala un festival del Tango appena concluso, la Biennale de Flamenco, la mostra internazionale della grafica, il festival internazionale del cinema) ed in cui i lavori di ampliamento, ricostruzione, restauro, costruzione ex novo di edifici svelano un’immagine di progressivo arricchimento e avvicinamento a un modello globalizzato di città/Disneyland per turisti.

Lo smacco della modernità

La mostra ha avuto come principale teatro due spazi: el Monasterio de las Cartujas, antico e splendido monastero su un’isola del Guadalquivír poi trasformato in industria di mattoni ed ora riconvertito a museo cittadino di arte contemporanea per rispondere a una politica locale (ancora una volta di stampo molto francese) di costruzione (o riabilitazione) di musei e collezioni di arte contemporanea decentrate dalla capitale; los Reales de Atarazanas, antico edificio medievale in ricostruzione le cui navate ed il cui pavimento ricoperto di terra hanno ospitato una parte dell’esposizione.

In un’intervista concessaci in questi giorni, Enwezor parla esplicitamente ed ancora una volta – dopo Johannesburg e Kassel, The Short Century e Snap Judjments – della sua visione lucida e politica di quello che deve essere un evento del genere: “framework for discoursive practicies”, spazio di discussione e riflessione, la cui parte espositiva dovrebbe esserne un’appendice visuale più che l’anima unica. In questa forma si era infatti configurata la Documenta del 2002, in scala certamente più macroscopica, e così si sono sempre configurati i progetti curatoriali di Enwezor, a partire dalla II Biennale di Johannesburg nel 1997, accompagnata da una serie di eventi teorici che hanno riunito i critici che negli anni Novanta più si sono occupati di questioni postcoloniali. In quest’ottica si può affermare che l’evento sicuramente più denso è stato quello teorico, in cui il curatore insieme ad alcuni critici che hanno collaborato all’edizione del raffinatissimo catalogo (stampato in due lingue, spagnolo e inglese) ed alcuni artisti hanno potuto discutere insieme al pubblico di questioni in cui l’arte contemporanea entrava in forma tangente: il disequilibro economico mondiale, l’incertezza individuale, la violenza, l’egemonia culturale, le guerre, la “localizzazione della cultura” (usando un termine di Appadurai ripetuto più volte da Enwezor) e soprattutto le possibili risposte a questo stato continuo di emergenza.

Una biennale come strumento di discussione quindi, a partire però dalle opere e dagli artisti che – secondo quanto ci dice Barthelemy Toguo, artista e performer camerunense di adozione francese e aspirazione globale – “sono loro che fanno la rivoluzione”. Ma in che maniera si configura questa rivoluzione, invocata dagli artisti ed auspicata dai teorici e curatori? Innanzitutto a partire da un percorso multidisciplinare che riunisca artisti mainstream a esperienze collettive di ricerca localizzate ed operanti in aree diverse e decentrate rispetto all’Europa o gli Stati Uniti. Forse, queste ultime, le proposte realmente più interessanti viste a questa biennale. Ad esempio Depth of Field, collettivo di sei fotografi di Lagos (Nigeria), che ha partecipato installando una serie di fotografie della megalopoli africana e delle sue storie di marginalità, povertà ma anche di vibrante umanità e vivace produzione culturale. Decostruire ogni immagine preimpostata e convenzionale sulla città africane contemporanea per darne una visione vera, “dal di dentro”, partecipante e spoglia di ogni convenzionalismo ed etnicismo visuale imposto dallo sguardo esterno. O i collettivi – sempre di area africana – Huit Facettes e La source du lion, rispettivamente di Dakar e Casablanca, che hanno presentato due progetti di intervento nell’ambito sociale e urbano e di recupero delle rispettive città. Le loro installazioni hanno declinato in forme differenti un intento simile: quello di esporre in maniera didascalica un processo di intervento nello spazio urbano e sociale, la sua ideazione, il suo svolgersi e la sua realizzazione attraverso la documentazione ed il racconto. E proprio a proposito di queste partecipazioni ci si è interrogati maggiormente sull’effettivo ruolo politico di un’istituzione come la Biennale di Siviglia, divisa tra una posizione di prestigio e ufficialità da difendere a livello istituzionale, e un intento politico di rottura dall’interno (manifestamente espresso da Enwezor che durante l’evento teorico ha esplicitamente dichiarato la necessità di saltare oltre il territorio dell’arte per muoversi nel mondo con azioni forti e definitive). Che senso ha presentare come oggetti d’arte dei progetti che sono vivi e funzionali nell’ambito in cui si sono stati concepiti e realizzati? Qual’è la forma migliore di proporre al pubblico (che spesso è un pubblico di addetti ai lavori) tali proposte senza appiattirne il senso reale, quello della partecipazione e dell’intervento dell’artista – all’interno di un sistema che non ha punti di riferimento – come “mediatore sociale” (come ha ricordato uno dei componenti del gruppo La source du lion durante l’evento teorico) laddove tali figure non esistono per motivi politici o strutturali? I critici e curatori devono “occuparsi di ciò che succede nel mondo dell’arte o confrontarsi con ciò che succede nel mondo?” ci ha chiesto Terry Smith rispondendo a un intervento del pubblico che rimproverava la mancanza di “esteticità” delle opere presentate.

Le risposte sembrano ancora una volta arrivare dalla voce degli artisti, che senza barriere procedurali, tecnologice, concettuali ci raccontano lo stato di un mondo che è quello dello “smacco della modernità e della postcolonialità”, usando ancora le parole di Enwezor. E lo raccontano mostrando e decostruendo i meccanismi di esclusione (il video Illuminer di video di Steve Mcqueen) e controllo (il video di Harun Faroki sulla violenza dei “controllori dell’ordine” nelle carceri californiane e le gabbie realmente funzionanti per esseri umani di Andreas Slominski), i “discorsi”, le chiusure (quelli ancora in vigore nel Sud Africa post Apartheid di Joe Ratcliff), gli interventi di sfruttamento dell’ambiente umano e naturale a fini mercantilistici degli interessi privati transnazionali, narrando la storia non narrata, smembrando il mondo contemporaneo in brandelli di senso che starà poi allo spettatore ricostruire. Basta pensare all’installazione del fotografo Lyle Ashton Harris, che seziona e fa esplodere su un’intera parete di una sala de Las Cartujas l’immaginario occidentale e maschile sul modello maschile africano, fatto di calcio, muscoli, nudità artistiche e luoghi comuni. O il video dell’artista tedesca (e di origine turca) Hito Steyerl che analizza la questione della rappresentazione dell’ideologia attraverso la storia di Andrea Wolf, eroina di pellicole punk degli anni Settanta poi diventata martire della guerra della Turchia contro il popolo Curdo. Ma la storia vivente non si può raccontare solamente adottando lo sguardo di chi comanda: è quanto ci dice ancora Toguo, che nella sua installazione (pavimento foderato di cartoni da imballaggio di prodotti tropicali e mattoni malamente ammonticchiati per ricordare che tutto è precariamente in perenne costruzione in alcune realtà geografiche) ci presenta una serie di cartoline che si è fatto spedire dagli abitanti di diversi paesi (qui in particolare Cuba e la Nigeria). Il racconto della realtà locale passa per la voce di chi la vive e non attraverso il racconto che ne viene fatto nel mondo mainstream dell’informazione mondiale.

Dall’alto:

L’attesa dei giornalisti per l’arrivo del re di Spagna

Jo Ratcliffe, Viakplaas, 199/2000, DVD a colori, suono, 2’30”

Andreas Slominski, dalla serie Traps 1999

Installazione di Lyle Aston Harris

Huit Facettes/Reporting System, Voyages Croisés, 2006

Barthelemy Toguo, insieme dell’installazione