Lino Strangis, Segnali dal pianeta terra
A cura di Veronica D’Auria
Dal 22 maggio al 25 maggio 2008, ore 16.00-20.00
Gottardo Occupato – Viale Gottardo, 181 – Roma
Ufficio stampa: Veronica D’Auria
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Giovedì 22 maggio al Gottardo occupato, ex commissariato (ora occupazione abitativa), proprio nel cuore della città giardino a Montesacro, ho assistito all’inaugurazione del primo evento speciale del working progress Segnali viandanti, di Lino Strangis.
L’aspetto particolare che mi ha portato a parteciparvi è stata la forza della tematica in questione: nulla di aureo, nessuna metafisica: la noce dell’opera nasce da un bisogno concreto e basilare, il diritto alla casa.
Al mio arrivo vengo accolto da un ambiente festoso e conviviale, dagli odori delle spezie della cucina araba che bandiva la tavola del rinfresco. Sono presenti perlopiù gli occupanti stessi del posto; probabilmente il luogo è risultato un po’ ostile alla maggior parte dei curatori e degli studiosi di arte contemporanea invitati all’evento, data la loro assenza. Ammetto che al primo impatto anche io ho avuto un certo imbarazzo ad entrare ma, oltrepassata la soglia e superati i primi ostacoli (vi sono sempre dei picchettatori alla porta che controllano l’eventuale entrata di gente poco desiderata), il mio animo si è tranquillizzato e, tra un dattero e l’altro, ho deliziato dell’installazione video propostami dall’artista.
Il lavoro di Strangis è esposto all’interno dell’atrio comune dello spazio occupato, una volta adibito alla convalida di passaporti e permessi di soggiorno e ora – paradossalmente curioso – pieno di bambini e adulti di tutte le etnie, probabilmente privi dei documenti citati.
Al centro di tutto questo l’installazione Segnali dal pianeta terra, composta da due elementi: La voce degli inascoltabili, video monocanale proiettato sulla parete laterale dell’ambiente; La voce del Gottardo, installazione audio composta da lettore cd e cuffie.
La parte visiva è articolata attraverso un video in cui si susseguono una serie di persone per lo più riprese a mezzo busto che sembrano parlare di fronte ad una telecamera, stile intervista tête à tête.
Un susseguirsi di corpi svanenti “simili a fantasmi, tendenti all’invisibilità ma per lunghi tratti uniti in un corpo collettivo che lotta per l’esistenza”, leggo nel comunicato stampa in riferimento alla gente filmata.
Mi colpisce l’umanità dei volti dei protagonisti, la passione e la vitalità trasmessa dai loro sguardi, mentre raccontano le storie più disparate ma impossibili da comprendere, perchè una sovrapposta all’altra.
Il senso di questa scelta è da ricondurre all’intenzione di porre in evidenza il travisamento delle motivazioni basilari dei mass media e dell’opinione pubblica riguardo la lotta per la casa, che coinvolge una buona parte della popolazione e che l’autore intende come prepolitica, precedente dunque a qualsiasi atto ideologico.
Le voci si confondono, l’una non riesce a prevalere sull’altra, ma unite esprimono un unico concetto: una voglia di affermazione della propria esistenza che viene negata dalla loro condizione sociale. In effetti, le persone riprese sono quasi tutte immigrate o comunque con un percorso di vita singolare e difficile, sicuramente diverso l’uno dall’altro, accomunato dal desiderio di poter accedere un giorno ad una qualità di vita più dignitosa.
Un altro aspetto che mi ha incuriosito e fatto riflettere sulla originalità della messa in opera è sicuramente lo sfondo immateriale, dai colori fluorescenti, che contorna ed avvolge le persone filmate. Questo elemento tende a portare la tematica toccata al di fuori dell’area probabilmente più consona ad essa, il documentario sociale, e a trasportarla nell’ambito di una ricerca estetica che apparentemente potrebbe non appartenergli.
È così che il connubio tra arte e vita prende forma. L’intervista si dissocia dal conformismo della domanda e della risposta e diventa vociferare di parole e rumori di strada, che in un certo modo mi hanno anche ricordato l’introduzione di un bellissimo brano musicale del cantautore Fabrizio De Andrè, Princesa, che non a caso condivide con l’opera in questione il partire da una tematica sociale veritiera per trasformarla in una toccante poesia musicata. L’immagine, la ripresa del film, viene modificata e alterata da effetti visivi in post produzione, tecnica cui l’artista non è estraneo ormai da tempo, come si può ben notare in diverse opere precedenti.
Strangis parte dunque da un fatto sociale per trasformarlo in qualcosa di altro, evitando di marcare gli aspetti più denotativi ed evidenti della situazione in questione (ciò che viene enunciato dagli attori sociali non si fa comprendere; il luogo dell’intervista, fulcro sociale del tema, viene cancellato e ripensato), cogliendo sfumature e muovendosi su canali meno scontati che sfuggono alla nostra riflessione riguardo questo genere di tematiche.
Il video non si focalizza in effetti sui problemi del singolo individuo, ma si proietta al di fuori, esattamente nella posizione di noi che guardiamo verso di loro, quella di una massa che guarda i fatti in maniera travisata ed alterata, non potendo captare la realtà delle cose così com’è a causa dell’intermediazione demagogica e strumentale di chi ha interesse ad alterarla. L’artista non vuole riscattare quella gente, la sua operazione è di critica verso coloro che bloccano l’accesso alla comprensione reale e non lascia gli altri parlare.
L’alterazione sonora e visiva diventa dunque non solo elemento estetizzante e caratterizzante di un manufatto artistico, ma strumento carico di potere critico-concettuale.
La voce del Gottardo, l’altra parte dell’installazione, composta da lettore cd e cuffie, è la parte più documentativa, dove tutti i discorsi incomprensibili del video vengono resi fruibili.
Ho avuto difficoltà ad interpretare la scelta di installare un secondo elemento. La mia prima sensazione, trovandomi lì, nel luogo dell’esposizione, è stata quella di considerare quest’ulteriore prova inutile: tutto quel chiasso, accompagnato alla realtà che mi circondava, diventava estremamente lucido e chiarificante, perché probabilmente riuscivo a vivere in prima persona un qui e un ora. L’epifania dell’opera era raggiunta senza bisogno di ulteriori accessori, poiché si completava con il contesto che avevo intorno ma, in un secondo momento, riflettendo bene su come alcune opere, impregnate del luogo che ha dato loro forma, possano essere esposte al di fuori dei contesti che non siano quelli dove nascono e acquisiscono senso e significato, mi sono ricreduto ed ho riflettuto. L’utilità di questa registrazione puramente documentativa – nelle eventuali trasferte che, mi auguro, l’opera possa avere – diventa essenziale e complementare al tutto. È d’altronde inimmaginabile, per chi non abbia partecipato alla messa in scena nel luogo natio del video, pensare di poter cogliere molte delle sensazioni che mi hanno spinto a scrivere questo articolo. La registrazione diventa l’unica prova effettiva del riscontro con la realtà così com’è, data e raccontata da chi la vive sulla propria pelle.
La ricerca di Strangis prende dunque – dopo un percorso per lo più impegnato nella ricerca estetica sull’alterazione delle forme attraverso strumenti digitali e un’indagine più filosofica sul mutare del senso attraverso l’alterazione – una diramazione, una scelta maturata di indirizzare la propria esperienza e abilità tecnica degli effetti per creare delle metafore fortemente critiche sulla manipolazione del reale, approdando sulle spiagge inquinate del disagio umano che, mai come in questo momento storico, meritano attenzione e sostegno da parte della potenza riflessiva dell’arte.