“Es dificil leer las noticias en los poemas y no ostante, los hombres mueren miserablemente cada dia por falta de lo que se encuentra en ellos” (William Carlos Williams, 1883-1962).

È difficile che le poesie ci rechino le notizie dell’ultima ora; ciò nondimeno gli uomini continuano a morire miseramente ogni giorno perché non sanno trovare ciò che di nuovo che vi è in esse.

“Questa poesia contiene molto di ciò che io cerco di fare con il mio lavoro. Non soltanto informare, ma anche farlo poeticamente”, mi spiega Alfredo Jaar, rispondendo con sollecitudine ad una mia e-mail, lui a New York, io a Roma (4 febbraio 2004).

Quel verso lapidario apre il sito web di Jaar (www.alfredojaar.net), nonché il bellissimo libro che documenta 10 anni di attività dell’artista, pubblicato in occasione della sua mostra al centro Santa Monica di Barcellona nel 1998 (Es dificil. Diez anos, Actar, Barcelona 1998). Poi volti la pagina e scopri la terribile immagine di una piramide rovesciata, scavata nel suolo, pullulante di uomini. È la miniera d’oro a cielo aperto di Serra Pelada, Amazzonia: un girone percorso da migliaia di minatori infangati, curvi sotto il peso di sacchi di terra poggiati sulle spalle, e legati alla fronte. Nel 1986, alla Biennale di Venezia, Jaar ha presentato le immagini tratte dal suo sopralluogo in quell’inferno del mondo. Ne è nato Gold in the Morning: immagini della miniera e ritratti di gruppo dei suoi lavoratori, che apparivano – retroilluminati – nella penombra, ad altezze diverse sulle pareti. A terra cornici d’oro intagliate, circondate – e a loro volta riempite – da un tappeto di chiodi d’acciaio neri. Da quel momento, Jaar ha presentato più volte, con alcune variazioni, le immagini dei minatori affiancate a cornici d’oro: suggestivi light-boxes in spazi oscuri, che insistono sulla collisione tra la bellezza formale delle fotografie e il loro contenuto di miseria umana; installazioni anche un po’ retoriche – e su questo punto vorrei tornare – per lo studiato contrasto tra la documentazione della povertà ed oggetti che evocano il lusso.
Non descriverò l’indubbia qualità estetica di molti lavori di Jaar, che spesso ricerca ambientazioni auratiche, che invitano al raccoglimento e al coinvolgimento visivo ed emozionale. Voglio invece cavalcare lo stesso impegno politico dell’artista, prendendo una posizione ancora più rigorista della sua. Le mie osservazioni originano da una recente conferenza di Jaar al MACRO di Roma (23 gennaio 2004). Ho voluto verificare il confine tra la sincerità della sua concezione dell’arte come forma di presa di coscienza politica e il sospetto, che io intravedo sempre in questo tipo di operazioni artistiche, di una stucchevole retorica politically correct. Su questo ho interrogato l’artista.
Indubbiamente Jaar si incarica di ricordare alla coscienza dei ristretti circoli dei fruitori dell’arte contemporanea dei paesi occidentali le ingiustizie sociali, la miseria, le guerre che assillano milioni di persone in paesi in via di sviluppo. Da quasi vent’anni Jaar è un instancabile viaggiatore, che ha percorso il mondo seguendo gli eventi della politica internazionale, puntando di volta in volta il suo obiettivo su conflitti etnici (in Ruanda e in Bosnia, nel 1994), sulla migrazione verso i paesi ricchi, sulla povertà e la fame dei Nord-Coreani, e anche su meno note realtà locali (dalla miniera di Serra Pelada, nel 1985, ad un progetto del 2000 sui dormitori per i senzatetto nella ricca Montréal).
Molto scopertamente Jaar, con Gold in the Morning e i progetti ad esso collegati, ci ha riporto alla questione della scandalosa interdipendenza tra paesi poveri, che forniscono manodopera a basso costo, e i paesi del benessere. Abbinando nella stessa installazione le immagini della miniera d’oro e le cornici usate per impreziosire i quadri nei nostri salotti, Jaar porta lo spettatore a svolgere elementari collegamenti simbolici. Ma non posso non notare l’intrinseca vacuità dell’ostentare nei templi dell’arte tale messaggio politico. Esso rischia di essere svuotato della sua sincerità. La ruga di un compassionevole pensiero incresperà forse la fronte del visitatore, ma la denuncia sociale sarà immediatamente metabolizzata ed evacuata dalla mente del pubblico che presenzia al consueto rito del consumo dell’arte nelle gallerie. Quando Jaar, con le cornici d’oro, vuole contrapporre simbolicamente lo sfruttamento della manodopera al mondo del benessere e del collezionismo, trascura che spesso il pubblico dei critici, dei collezionisti, e degli investitori finanziari che traggono profitto dalla sperequazione tra Nord e Sud del mondo, appartengono allo stesso ceto.
Più efficace mi sembra l’operazione di Jaar quando essa esce dai luoghi dell’arte ed entra negli spazi urbani. Nel 1986 in Rushes Jaar affisse una serie di ristampe delle foto della miniera di Serra Pelada nella stazione della metropolitana di Spring Street a New York. Le foto contenevano riquadri rossi che indicavano le ultime quotazioni dell’oro sulle varie piazze finanziarie. Ma, di nuovo, non è semplicistico e, in fondo, farisaico puntare il dito sulla divisione del mondo tra proletari e avidi plutocrati? Oggi – come agli inizi della rivoluzione industriale – i capitalisti che sfruttano la manodopera sono spesso anche collezionisti d’arte. Per essere ancora più drastico, ricordo che, provocatoriamente, Pasolini arredò la Villa dei Gerarchi Sadici di Salò con quadri delle avanguardie del Novecento.
“Hai assolutamente ragione – Jaar risponde alla mia provocazione – La classe del mondo dell’arte è probabilmente tanto sfruttatrice quanto le altre classi. È per questo che divido il mio lavoro in tre aree: creo lavori per gallerie, musei e fondazioni, creo interventi pubblici in spazi pubblici, e insegno, dirigo seminari e laboratori. Dedico circa un terzo del mio tempo ad ognuna di queste categorie e penso che esse si completino a vicenda. In questo modo, cerco di parlare a tutti i diversi gruppi sociali: sia il mondo dell’arte, sia il pubblico più ampio, sia gli studenti delle nuove generazioni. Spero soltanto che qualcuno mi ascolterà “.
Durante la conferenza al MACRO, Jaar ha ricordato il progetto concepito nel 1995 per la biennale di Kwangju, in Corea del Sud: Offering. Il progetto sollevava la questione dell’emergenza umanitaria della popolazione della Corea del Nord, che “è stata emarginata dal resto della comunità internazionale, perché è l’ultimo Stato puro marxista del mondo”, ha detto testualmente Jaar. Mentre i giovani sud-coreani ballano nei disco-bar della ricca Seul o si gingillano con i più moderni modelli di telefoni cellulari – egli argomentava – nella Corea del Nord tra i due e i tre milioni di persone sono morte di fame negli ultimi dieci anni. Jaar ha scandito due volte i dati, aggiungendo: “e nessuno se ne preoccupa, perché essi sono comunisti, perché sono marxisti, perché sono emarginati dal resto del mondo”. Avevo trovato tale passaggio una insopportabile banalizzazione, un travisamento che allontanava dall’intelligenza piena di una questione politica e umanitaria più complessa. Qual’è la responsabilità politica e morale dei tre milioni di morti di fame? Dell’emarginazione che i paesi occidentali impongono alla Corea, come Jaar sibillinamente potrebbe suggerire? Piuttosto la responsabilità grava su un governo dittatoriale e paranoico, che soffoca il dissenso e affama, mentre spende milioni di dollari per un programma di armamenti nucleari. Nessuna parola su questo è stata spesa.
“Hai assolutamente ragione, [il discorso] sembra molto semplicistico. Quando dò una conferenza non so mai quanto dovrei dire su ogni progetto; qualche volta dico troppo, – qualche volta – come in questo caso, non ho detto abbastanza. Ciò che volevo spiegare è che la comunità internazionale non dovrebbe usare il cibo come uno strumento politico, e non è giusto lasciare che quasi tre milioni di persone muoiano di fame perché quello è un paese marxista con un folle dittatore marxista. Possiamo opporci al dittatore e allo stesso tempo aiutare il popolo. Essi sono le vittime di un regime repressivo. Ma questa non è una ragione per non aiutarli”. Il lavoro a Kwangju era una iniziativa di aiuto umanitario alla popolazione nord-coreana. Jaar ha creato per l’occasione centinaia di saponette in cui era inscritta, in lingua coreana, la parola offerta, ed ha organizzato la vendita delle saponette per raccogliere fondi (100.000 dollari sono stati raccolti e donati ad una Organizzazione non governativa attiva in Corea del Nord per distribuire cibo ai più indigenti).
In altri progetti recenti Jaar ha affrontato il tema della migrazione. Nel 1995 ha esposto al Museo d’Arte Contemporanea di Helsinki, dietro un vetro di sicurezza, una catasta di un milione di passaporti finlandesi freschi di stampa. L’installazione, che riecheggiava una scultura minimalista, fatta nell’anno in cui la Finlandia entrava nell’Unione Europea e fondeva così la propria frontiera in un contesto più ampio, chiamava a riflettere sul fenomeno dell’immigrazione, sul sogno di molti extracomunitari di una cittadinanza europea, sulla omogeneità della società finlandese e sulla tradizionale chiusura della Finlandia agli stranieri. L’ingresso di un milione di persone – Jaar suggeriva – costituisce un’occasione di arricchimento culturale per il paese.
“Il tuo lavoro mette di nuovo in luce la questione di coloro che aspirano ad una vita migliore in paesi più ricchi. Offrire un milione di passaporti è, naturalmente, una provocazione, una utopia – gli chiedo – Ma, di nuovo, la tua conferenza al MACRO su questo punto mi è sembrata demagogica. Pensi che aprire le frontiere sia una vera soluzione politica”? “L’arte è il sogno di un mondo migliore – mi risponde Jaar – e l’arte è il solo luogo libero in cui lo puoi realizzare. Pertanto, perché non sognare un mondo migliore? Naturalmente è del tutto utopico pensare che la Finlandia accoglierà un milione di immigranti in una sola volta, ma è esattamente questo il punto: fare un caso per l’impossibile. Che cosa avrei dovuto chiedere in quel lavoro? Che la Finlandia aprisse le sue frontiere per ammettere tre persone? Capisci cosa intendo? È l’atto utopico che rende il lavoro potente. Almeno in questo caso. E poiché, come ho detto, la Norvegia, la Svezia e la Danimarca avevano accolto un milione di persone negli ultimi 10 anni, è [un progetto] utopico ma pur sempre possibile”.
Il 14 ottobre 2000, oltre 600 persone si sono radunate nella Valle del Matador, nei pressi della frontiera tra Tijuana (Messico) e San Diego (Stati Uniti) per un evento (La nube), progettato da Jaar come commemorazione dei 3000 latino-americani che sono morti nel tentativo di entrare illegalmente negli Stati Uniti. Un muro divide la frontiera in quel tratto. Quel giorno una nuvola formata da 3000 palloncini bianchi – il numero dei morti – era sospesa in cielo, come una scultura aerea effimera, esattamente nel mezzo del confine, per poi essere sciolta in aria. Un dialogo di brani musicali tra un quartetto (in territorio messicano) e un violoncello (negli Stati Uniti) portava le note ad attraversare liberamente la frontiera, mentre erano lette poesie sul tema del confine. “Pensi che le autorità di immigrazione americane dovrebbero ammettere tutti i migranti?”, gli chiedo. “Dovresti sapere che ci sono state molte discussioni a livello politico per diversi anni per aprire la frontiera tra i due paesi – mi risponde l’artista – Non credo che accadrà domani, ma non siamo troppo lontani da quel giorno. In ogni caso, quel lavoro (la nube) creava uno spazio di compianto per i 3000 immigranti che sono morti semplicemente nel tentativo di attraversare la frontiera. Perché nella frontera, la morte è diventata banale e non è nemmeno menzionata. Pertanto volevo offrire ai parenti delle vittime uno spazio per ricordare i loro cari”.
Un artista non è chiamato a fornire una soluzione politica ai conflitti storici e sociali (compito semmai di governanti e diplomatici), ma, come Jaar ha sottolineato, una risposta poetica. Riflettere poeticamente, attraverso l’immaginario artistico, su una bruciante questione politica, risveglia le coscienze assopite dalla dittatoriale piattezza dei nostre consuete fonti di informazione. L’arte introduce una modalità di comunicazione diversa: ugualmente manipolativa probabilmente, ma almeno diversa dai fattoidi – per usare una formula di Dorfles – confezionati dai portavoce ufficiali e dai megafoni giornalistici. Nel nostro contesto di realtà fittizia, in cui le vere trame della politica e dell’economia si slabbrano in un teatrino di specchi, di verità parziali, di dichiarazioni e smentite, di pseudo-prove e pseudo-statistiche, un artista porta alla visione luoghi marginali del mondo, ma forse geograficamente vicinissimi a noi.
Nonostante le petulanti domande con cui ho inteso incalzare Jaar e verificarne il moralismo, apprezzo la qualità visiva e l’intrinseca moralità del suo lavoro. Egli sente sinceramente – non ho motivo di dubitarne – il senso della responsabilità sociale dell’artista. L’arte è un evento che si fa catalizzatore sociale, che costruisce un senso condiviso, che mette in comunicazione in forma simbolica facce diverse della società, che punta a rilevare problemi storici, politici e sociali aperti. L’impegno etico dell’arte pone Jaar su una linea di ricerca che, con modalità diverse, ha percorso tutta l’arte americana, fin dal pittore George Catlin (1796-1872), il primo che documentò la vita, i protagonisti e gli scenari dei nativi americani e tentò di fermarne lo sterminio, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica con l’esposizione dei suoi quadri, le conferenze, gli scritti. A differenza di molti artisti che hanno ripiegato su mitologie e narrazioni personali, su speculazioni concettuali, su orti più conclusi, o hanno con leggerezza post-ideologica dialogato con la cultura di massa, la posizione di Jaar, altamente morale, resta ferma nella fiducia che anche quel poco che l’arte può fare per migliorare il mondo vada fatto con impegno. Non poco in un’epoca di relativo cinismo.

 

Dall’alto:

Gold in the Morning, 1985, light-box (Fujiflex), 61 x 40,5 cm 

Gold in the Morning, 1985, light-box (Fujiflex), 61 x 40,5 cm

Gold in the Morning, 1985, light-box (Fujiflex), 61 x 40,5 cm

Gold in the Morning, 1985, light-box (Fujiflex), 61 x 40,5 cm

Gold in the Morning, 1985, light-box (Fujiflex), 61 x 40,5 cm

One million Finnish passports, installazione per Ars 95 (Museo d’arte contemporanea, Helsinski, 1995): opera distrutta al termine della mostra per ordine dell’autoritˆ finlandese per l’immigrazione 

La nube/the Cloud, evento, 14 ottobre 2000, Valle del Matador/Goat Canyon (frontiera Messico-Stati Uniti presso Tijuana e San Diego)

La nube/the Cloud, evento, 14 ottobre 2000, Valle del Matador/Goat Canyon (frontiera Messico-Stati Uniti presso Tijuana e San Diego)

La nube/the Cloud, evento, 14 ottobre 2000, Valle del Matador/Goat Canyon (frontiera Messico-Stati Uniti presso Tijuana e San Diego)

La nube/the Cloud, evento, 14 ottobre 2000, Valle del Matador/Goat Canyon (frontiera Messico-Stati Uniti presso Tijuana e San Diego)

Rushes, plotter ad alta risoluzione, 1986: istallazione nella stazione di Spring Street della metropolitana di New York 

Rushes, plotter ad alta risoluzione, 1986 (dettaglio)