Il fascino di una città come New York, con i suoi spazi dilatati, i suoi rumori incessanti e la vita frenetica di chi vi abita, è difficile da riportare. Per ciò che concerne l’arte poi, l’offerta è infinita; ci si può spostare dalle collezioni di arte indiana e cinese del MET fino alle nuove promesse del PS1, passando per la raccolta più completa di Modern Art (come si legge sui cartelloni pubblicitari della Grande Mela), che è appunto il MOMA. Ma sono le gallerie a costituire l’aspetto più frizzante e dinamico per quanto riguarda il contemporaneo; nel quartiere di Chelsea, dalla 25esima alla 19esima strada, è possibile muoversi tra numerosissime rassegne di arte contemporanea, tra retrospettive e nuove proposte. Una volta entrati ci si rende subito conto se ci si è imbattuti in una galleria dedita alla vendita o solo all’esposizione: nel primo caso qualcuno si affanna a venire incontro ai visitatori, per raccontare tutta la storia delle opere in mostra (e per dare una panoramica sui prezzi di mercato). Nel secondo invece, coloro che lavorano in galleria alzano a stento la testa dai computer, e alla prima domanda indicano il press release, come fosse la risposta a tutti i dubbi. L’accoglienza è il più delle volte poco friendly, per dirla all’americana. White cubes spaziali, dai particolari curatissimi, fanno da contenitori alle opere in mostra. Spesso gli spazi sono enormi, e l’impressione è più quella di trovarsi all’interno di un’istituzione museale che non in uno spazio privato. Gigantismo americano versus piccole gallerie dei nostri centri storici, verrebbe da dire. Ma il dato più interessante è questa vicinanza tra gli spazi espositivi, che fa di Chelsea un quartiere vivace, dove all’attività dello shopping si sostituisce quella della passeggiata culturale, e dove anche chi non è avvezzo all’arte contemporanea, a furia di guardare, trova qualcosa su cui concentrare la propria attenzione. Il mio giro comincia sulla 22esima, sulla strada del New Museum of Contemporary Art che poi scoprirò essere stato chiuso in attesa di una riapertura sulla Bowery nel 2007. Il primo incontro è con la Andrew Kreps Gallery, che presenta una mostra di Juan Céspedes, cileno, classe ’72. Installazioni di oggetti quotidiani occupano gli spazi della galleria, cui fanno eco scritte colorate di matrice neoconcettuale. Poco più avanti D’Amelio Terras espone Johanne Greenbaum, giovane pittrice neworkese che si dedica ad un astrattismo dai colori forti, fosforescenti, in netto contrasto con le pareti sempre bianchissime dello spazio espositivo. Susan Inglett Gallery presenta Greg Smith (Illinois 1970, vive e lavora a New York), con le sue particolari installazioni a muro e sul pavimento fatte di fibbie e cinture, accompagnate da una struttura di cartone che ospita la proiezione di un video in cui l’artista scioglie e incastra di nuovo le proprie cinture. La galleria Sikkema Jenkins & Co. espone i lavori del venezuelano Arturo Herrera (Caracas, 1959). Una serie di fogli di grandi dimensioni sono appesi al muro, senza cornice, a distanza cadenzata l’uno dall’altro. Su di questi regna una pittura da Action Painting, fatta di dripping ma anche di collage, che concorre a creare una dimensione pittorica ambientale, seppur bloccata dalle estremità stesse del supporto. In una piccola sala Valérie Belin (francese, 1964) espone i suoi ritratti fotografici tra cui spicca la figura di Michael Jackson. Mostra più “storica” è quella di Fiona Rae (inglese, 1965) alla Pacewildenstein Gallery, in uno spazio arioso. Figure astratte campeggiano in grandi tele caratterizzate da un caleidoscopio di colori, in un rapporto tra pieni e vuoti che ricorda il grafismo delle stampe orientali. Alcune opere sono in vendita ed è possibile sfogliare il catalogo con i prezzi (presente anche sul sito. Sonnabend Gallery, galleria storica, presenta l’artista giapponese Hiroshi Sugimoto (Tokyo, 1948). Foto di angoli e spigoli con luce diversa creano una sorta di effetto “quadro nel quadro”, “spazio nello spazio”. È una serie del 2006 che si caratterizza per una grande raffinatezza, reiterata dall’uso di cartellini su carta velina attaccati al muro, che contribuiscono a creare un gioco di trasparenze in tutto lo spazio espositivo. È presente in una sala della galleria anche un’installazione di Robert Morris Untitled (1963-1970). Spostandomi sulla 20th trovo la Spike gallery, con una personale di Philippe Pasqua (francese, 1965) e il suo ciclo Women, caratterizzato da una pittura espressionista alla Francis Bacon e dalle molte affinità con la pittrice inglese Jenny Saville, senza grandi novità di rilievo. Basta farsi un giro sul sito della galleria per scoprire che la linea preferita è proprio questa, da Basquiat a David Salle. Nel comunicato stampa della mostra viene richiamato Lucien Freud, che ha scritto “The role of the artist is to disturb the human being”. Ancora più avanti, sulla 19th, Klemens Gasser & Tanja Grunert espongono Ann Craven, 400 dipinti en plein air della luna con diverse tonalità e giochi di luce. Purtroppo non mi è stato possibile vedere l’allestimento definitivo, di cui ho intuito una copertura quasi totale della parete, con i piccoli dipinti messi uno accanto all’altro, secondo una forma espositiva che ricorda l’affollamento dei Salons parigini di fine Ottocento. La Craven è già stata presente anche in Italia presso la galleria milanese Paolo Curti/Annamaria Gambuzzi nel 2004. Alla Gagosian Gallery, in entrambe le sedi, è in corso una mostra sull’ultimo periodo di Andy Warhol. Gli spazi sono enormi, la retrospettiva imponente, con tanto di guardie nelle sale e divieto assoluto di fotografare. Di rilievo la serialità del volto di Cristo, estrapolato dal Cenacolo leonardesco, e le immagini di coltelli, croci e pistole, realizzate dopo il tragico episodio del ferimento con arma da fuoco. Tornando sui miei passi mi affaccio nel giardino della Jim Kempner Fine Art, abitato dalle sculture minimaliste di Päl Svensson (svedese, 1950). Blocchi monolitici specchianti trovano spazio tra fontane e vegetazione, estendendosi poi anche negli spazi interni della galleria. Ultime tappe sulla 24th; Mike Weiss Gallery espone le ultime opere pittoriche di Hermann Nitsch (Vienna, 1938), accompagnate da 3 video proiettati contemporaneamente su tre schermi diversi, uno affianco all’altro (6-Day-Play (1998), 2-Day-Play (2004), 122, Action, Burgtheater (2005). Un cartello fuori la galleria invita a non entrare se si è facilmente impressionabili. E il dolore messo in scena da Nitsch non è certo “facilmente digeribile”, presentandosi come cerimonia orgiastica, dove la sofferenza diventa una sorta di percorso iniziatico verso il sublime. Il sangue dipinge le tuniche bianche dei personaggi del video e in un breve frammento è utilizzato dall’artista per una “classica” stesura su tela, che col passare del tempo si trasforma da rossa a bruna. I dipinti della serie Schüttbilder (2006) sono invece un’esplosione di colore, dove non c’è forma ma solo l’accento sulla gestualità del fare artistico. Infine Fright and Volume presenta le sculture Chris Gilmour (Manchester, 1973), vincitore del Premio Cairo 2006 e già approdato in Italia con una personale alla Perugi Arte Contemporanea di Padova. La sua produzione artistica è fatta di sculture in cartone, tra cui spicca una macchina definita nei minimi dettagli, le chitarre appese al muro e le Churchs realizzate con scatole dei prodotti più diversi. Leggendo qualche commento, in occasione proprio del premio egiziano, ricorre l’accusa di un’arte vuota, mera riproduzione del dato reale senza alcun messaggio di fondo. Ma il risultato è indubbiamente originale e divertente, e la perizia nella realizzazione vale da sola un applauso. Come si evince da questa breve panoramica, l’offerta è ampia; occorre sottolineare che questa mia visita ha carattere molto parziale, dovuto a ragioni di tempo e alla chiusura di molte gallerie, in corso di allestimento. Le mostre cambiano in continuazione, e a distanza di pochi giorni il colpo d’occhio generale può apparire profondamente diverso. Tuttavia, a mio parere, il giro per le gallerie di Chelsea rimane un’esperienza da fare assolutamente, anche a scapito della visita a qualche museo più famoso e pubblicizzato.

Dall’alto:

Chris Gilmour – Aston Martin DB8 – 2006 (Fright and Volume Gallery)

Robert Morris – Untitled – 1963-1970 (Sonnabend Gallery)

Sikkema Jenkins & Co. Gallery – Mostra di Arturo Herrera

Chris Gilmour – Churchs – 2006 (Fright and Volume Gallery

Hiroshi Sugimoto – Colors of Shadow – 2006 (Sonnabend Gallery)