Il sistema dell’arte contemporanea e le sue contraddittorie tendenze alla specializzazione hanno di fatto decretato la netta separazione fra il lavoro specificamente critico da quello determinatamente curatoriale; fra queste due identità, il critico sostanzialmente legato ad un rapporto intellettualistico con il soggetto “arte”, ed il curatore verosimilmente proteso alla realizzazione di una motivazione logica delle sue nozioni pratiche espresse nella realizzazione di una mostra, si è instaurato un rapporto stringente, ma che negli anni si è sempre più complicato.
Il testo è il luogo in cui si sottolinea il percorso critico e d’indagine del critico, il contesto è lo spazio in cui si individua l’azione del curatore. Sino alla fine degli anni Settanta queste due anime venivano espresse da differenti approcci sostanzialmente legati ad un identico modello operativo che si poneva dialetticamente di volta in volta in posizione più o meno centrale fra cura critica e critica letteraria. In quegli stessi anni si era andata rafforzando la specificità teorica di quanti lavoravano fra cura critica ed analisi dell’arte, in quel modello noto della militanza. Dagli anni Ottanta in poi si è assistito al tramonto della posizione “teorica” ed al conseguente declino della figura del critico analitico, personaggio insieme pratico e idealista sui problemi dell’arte e della sua fruibilità, ed al suo posto si è situato il critico curatore. Proprio questa figura determina il cammino diversificato e proficuo dell’arte contemporanea sino ai nostri giorni, in un momento storico in cui la figura del critico è praticamente assente mentre risulta vincente quella del curatore; ma qualcosa cambierà in fretta. In realtà la figura critica sarebbe proponibile in svariate personalità attive nel circuito dell’arte contemporaena, ma la paura di rimanere fuori dal sistema curatoriale fa sì che nessuno di questi si pronunci al di fuori di modelli stereotipati di linguaggio e di metodo: i cosiddetti critici oggi scrivono soltanto delle meste recensioni di plauso e accettano questo ruolo subalterno per potersi esprimere sostanzialmente attraverso la cura delle loro mostre, nella speranza che gli sia riservato lo stesso trattamento, recensioni e critiche di circostanza. Chi potrebbe sperare in una recensione della sua mostra dopo aver sparato a zero su quelle degli altri se i ruoli non sono differenziati? La mancanza del discorso critico si avvale anche di questo silenzio secondo cui difficilmente la critica può essere fatta senza determinare la colpevolarizzazione dell’autore, proprio per via di un ingessamento delle dinamiche interne del sistema dell’arte. Il critico che avrebbe svolto un’azione di sostegno alla forma artistica e che avrebbe potuto dare un “giudizio” viene soppiantato dal cronista specializzato in analisi dettagliate e misurate sull’identità dell’opera ma non sul suo significato esterno al sistema propriamente detto dell’arte. Risulta così l’atteggiamento “vincente” opposto al “perdente”, per usare un linguaggio assai in uso nella categoria in questione, linguaggio atto a delimitare non tanto la qualità attraverso un discorso sulle sue caratteristiche attraverso il giudizio, ma solo ed esclusivamente attraverso la giustificazione del suo esserci in quanto metodo, prassi, sistema di analisi empirica. Il curatore allora non procede che per intuizioni connesse col suo sistema di indagine privata da qualsiasi contatto con il giudizio qualitativo ed epistemologico della sua azione cognitiva.
Una delle molteplici conseguenze di questa lacuna del giudizio, causata dalla paura di essere tagliati fuori dal percorso di cura critica dell’attualità, è che sono spesso gli artisti stessi a diventare curatori di una particolare azione di cura critica, approfittando dell’impasse critico. Si tratta a ben vedere di mega-operazioni creative che se svolte dal curatore di formazione critica danno spesso adito a polemiche circa l’effettivo ruolo e l’invadenza concreta dell’organizzatore, mentre quando svolte in prima persona da un artista concentrano sulla sua personalità ogni parvenza di autoanalisi per favorire un più spontaneo congiungimento di intuizione e prassi costruttiva. Il tema della Biennale di Bonami risulta a questo punto interessante per i suoi spunti che a me appaiono abbastanza ipocriti, proprio perché puntano falsamente sulla partecipazione del pubblico nell’analisi dell’opera mentre invece sappiamo che queste sparute avanguardie esplicite dall’arte istituzionale ne sono state sempre cacciate fuori, per via della loro allusiva complessità, e che questo pubblico in realtà altri non è che lo stesso mondo dell’arte, fatto di artisti non troppo famosi, critici un po’ male in arnese, professori e studenti, collezionisti e mondani e comunque da tutti coloro che non sono direttamente chiamati in causa da protagonisti in quella specifica sessione espositiva; questo il pubblico di volta in volta protagonista. Stiamo sempre e comunque nella posizione di condividere un “contesto” e non diamo di questo la visione da “testo” a latere, non ne possiamo comunque giudicare il significato recondito e relativo perché del “contesto” ne siamo parte ed attori e del “testo” non possiamo quindi far altro che dissentire: esso è esterno alla nostra condizione, non può dirci nulla di cui essere consapevolmente d’accordo.
Altra conferma di questa posizione ci viene data ancora una volta dalla pratica curatoriale così come viene adesso accettata; il curatore, specialmente se questi è un artista saltuariamente impegnato anche nell’ideazione di una mostra, non ha alcun interesse a rimettere la sua azione in una traslitterazione linguistica. La sua “forma” complessa è quella appunto della cura e questa non ha alcun bisogno di una traducibilità che non sia quella della sua impressione immediata nell’azione dello spettatore, di cui sappiamo, di cui abbiamo appena detto. Lo spettatore è informato dell’evento in questione e non ha alcun interesse che questi possa essere altro che se stesso, di quella specifica “essenza” di cui fa parte come pubblico protagonista, di conseguenza qualsiasi analisi critica apparirebbe frutto di invidia e di esclusione; il lamento dell’estraneo.
A questo punto occorrerebbe ricordare di come testo e contesto siano stati argomento impegnato durante il concettuale, durante l’azione diretta del concettuale, in quegli anni in cui si assisteva allo smascheramento del percorso artistico. Ancora oggi una buona lettura del contesto curatoriale porterebbe lo stesso curatore ad una più intrusiva stanzialità della sua forza e non nel nome dell’ipocritica tensione con lo spettatore, ma della sua stessa coscienza e consapevolezza del luogo dell’azione creativa di cui disporre a piacere. Si dirà che non a tutti è dato poter esprimere per mezzo letterario la consistenza e l’attualità di un percorso curatoriale, ma proprio qui sta a mio giudizio la qualità della figura e la sua estraneità ai processi induttivi, riconducibili al lavoro dell’artista, se di curatore si tratta. Il contesto del curatore, in altri termini, deve sempre condurci al testo critico, altrimenti non stiamo discutendo di pratica curatoriale ma di azione artistica indipendente, ovvero di quella specifica azione proiettata nella forma volitiva dell’autonomia dell’arte e dell’artistico attraverso le installazioni complesse.