ART IN THEORY                                                                                                                                                                              Nuovi protocolli dell’arte

La comunicazione digitale ha trasformato il senso di Tempo e di Spazio, portando con sé, nel bene e nel male, una diversa dinamica del rapporto con l’Altro. The Creation Trilogy è un progetto ibrido, meticcio tra un’opera di videoarte e un film. Esplora, attraverso una rivisitazione dell’arte rinascimentale, il nostro nuovo mondo fatto da un intreccio di culture e da un sistema di comunicazione che ci obbliga a reinventare un diverso universo visivo con il quale confrontarci.

Theo Eshetu

La proiezione di Madonna di Theo Eshetu (video tape, 18 minuti, 1990), le stills che trasse (cybracrome 1:1), articolate al video della installazione, nel 1991, rappresentano per me la splendida conclusione di un ciclo (il primo, del progetto curatoriale e critico del MLAC, quello che nel 2002 è divenuto: il Centro di Ricerca Museo Laboratorio dell’Università “ La Sapienza ” di Roma), e ne aprono un altro.
Lui artista nato in Etiopia, formatosi a Londra e residente ormai in Italia, a Roma, rappresentò qualcosa per una Scuola di storia e critica dell’arte (dalla quale usciva anche la allora giovanissima studiosa Cristiana Perrella che me lo introdusse), per una scuola, la mia, che mirava al racconto senza timori della storia di un’arte dell’Italia prima colonialista e dittatoriale, e poi cosmopoliticamente integrata (troppo) nel modernismo e nel postmodernismo targato unilateralmente “occidente”.
Rappresentava (me ne accorsi subito) la figura/ponte di un nuovo protocollo dell’arte, dentro e fuori il Sistema convenzionale contemporaneo che ancora escludeva emergenze “altre” di linguaggio e semantiche. La scelta del soggetto (un classico della storia dell’arte antica e rinascimentale) l’uso di una modella scelta tra persone comuni, quasi casualmente nella quotidiana vicinanza (un sincretismo tra l’amato Pasolini ed il grande Caravaggio) il magistrale uso del mezzo video di cui potenzia, come vedremo, le peculiarità cromatiche limitative, colpiscono al cuore. Un cromatismo saturo, brillante che sottolinea la “scena” coi suoi accessori popolari, l’allestimento del personaggio, le luci insieme notturne e open air , istituisce e ci impone la sua idea di una “estetica cromatica dell’elettronica”. Mi interrogavo sul perché fossi così presa – per sempre – da quelle immagini dai colori così eccessivi e volgari. Certo il nostro inconscio culturale Pop o neo-realista ci legittimano alla accettazione, ma per gli anni novanta divenuti così “estetici” l’operazione era trasgressiva. C’è di mezzo la televisione, con tutto il suo trash globale comunicativo e pseudo transculturale. Eshetu in verità sa come sappiamo noi che fin dalle origini i colori del video erano brutti e spiacevoli, e lo sa tanto più in quanto egli, che era all’epoca già un maestro della fotografia in bianco e nero, può paragonare il modo d’uso corrente televisivo alla sua passione per le sottili e ricche qualità della fotografia, che pratica con eccellenza. In Finché morte non ci separi nel 1987 appunto aveva dichiarato l’inestricabile suo legame col fotografico, che lo aveva fatto nascere artista e uomo tra mondi. La scelta della saturazione cromatica (Intensità, Brillanza, Contrasti) portata fino all’eccesso (la “bassezza” antiestetica della cosa di plastica), vuol dire donare al quel mezzo, il video, non capace di quelle sottilità e valori raggiungibili invece appunto con la fotografia, donare al video un capacità specifica, inedita, certamente estranea e familiare insieme. La Madonna di Theo Eshetu è dunque per questo splendida: iniziamo così ad assistere al corpo a corpo con la verità. Theo Eshetu “impugna” ormai i diversi mezzi (Fotografia, Video, Film, Scrittura) e dentro le sue consapevoli procedure di attraversamento dello “specifico” mediale si dà il viaggio continuo della sua arte (del suo protocollo) che è unità di presente e memoria, di flagranza delle tracce ed inconscio culturale, lontananza ed esperienza. Theo riceve in dono una macchina fotografica all’età di otto anni da Ato Tekle Tsadik Mekouria: a lui dedica il libro Blood-Sangue , nel quale con la stessa eleganza ed essenzialità delle sue immagini del paese d’origine, L’Etiopia, (still dal video, docu-memory dal titolo Il sangue non è acqua fresca girato un paio di anni prima) , scorrono le parole, i brevi passaggi narrativi, che come con circoli concentrici segnati da un sasso nell’acqua si allargano e si increspano intrecciando la memoria di Theo Eshetu, le riflessioni critiche del suo pensiero educato in Europa, e le verità che la macchina da ripresa nel suo automatismo perfetto proietta su inconscio e ragione dell’autore, memoria e presente, sempre sincroni nella poetica di Theo Eshetu. Nel libro, un vero gioiello di scrittura e di arte, Eshetu dispiega tutto il suo candido cedimento ai segni del presente (città di Roma, obelisco di Axum, monumento ai caduti di Piazza Venezia, parole di un migrante sfigato e povero, turista, aereo, sguardo dall’alto, viaggio) ed ai risvegli tra memoria e cultura che lo accompagnano fino all’arrivo nel paese d’origine: “ora sto per rincontrare mio nonno”. Il nonno, storico nella corte dell’Imperatore Hailé Selassie, è il principio dell’idea di memoria, ed è l’istituzione della modernità “ surrealista” di Eshetu: Fotografa il bambino che gioca al bordo della strada sterrata con cerchio e bacchetta, perché è come fotografare se stesso quando giocava là, in quel paese. Inizia il gioco dell’occhio che “costruisce” la memoria attraverso le tracce nel presente, ed incorpora nella sua arte – decrittandolo – il suo paese e l’Africa che vivono “immaginati” più che veramente conosciuti nell’Europa coloniale e nella mente del “viaggiatore”. Ma è così anche nella mente di Theo, necessariamente fermo al momento della sua partenza per l’Inghilterra a cinque anni, e dunque anch’egli, come gli “estranei”, privo di realtà. Decritta dunque quest’Africa immaginata solo intrecciando le tracce e gli uomini nell’Etiopia di oggi. Come Enea con Dante, il nonno lo guida – ma veramente – nel buio nella barca di Caronte. Lungo colloquio tra loro, a più riprese (il girato è di oltre sessanta ore). Usa simultaneamente videocamera e fotografia. Occorre talvolta ricorrere alla telecapture , mentre l’automobile va: potrà scegliere le tracce più belle e potrà ricordare, come egli dice, quelle che non sono state catturate e per questo non esserci permarranno indelebili nella memoria. Dal bianco e nero, risaliamo agli splendidi colori di Il sangue non è acqua fresca (58 minuti videotape) che è il viaggio iniziatico ed il punto di arrivo di una grande ricerca. Nel progetto multimediale ideato per il MLAC (2003) – che si articola secondo una scansione complessa ed elaborata, costituita dal video Blood is not Fresh Water , da sessantadue stampe laser, da due videoinstallazioni site-specific -. I lavori condividono l’elaborazione dello stesso materiale visivo, raccolto da Theo Eshetu in quel suo recente viaggio in Etiopia e filmato durante circa sessanta ore di ripresa. La sperimentazione di molteplici linguaggi espressivi consente all’artista di analizzare e distinguere le diverse qualità estetiche e semantiche dei media, a sottolineare la loro capacità d’influenzare e orientare la nostra percezione della realtà.
La videocamera come prolungamento dello sguardo, non soltanto fisico, ma interiore: un gesto prensile, eppure codificato nell’immaterialità dell’immagine, che tenta di recuperare tracce e segnali di un’identità, al tempo stesso personale e collettiva. Il video emerge, inoltre, come filtro inevitabile della realtà, diaframma oltre il quale si profilano diverse ipotesi critiche ed ermeneutiche. Il sangue, riferimento contenuto nel titolo della mostra, allude alla sostanza liquida, impalpabile, ma non sempre innocua del video”.
“È un rovesciamento – scrive Domenico Scudero nella sua presentazione curatoriale alla mostra/installazione al MLAC nel 2003 – della consueta analogia tra la fluidità dei pixel e lo scorrere dell’acqua. Un sottile rimando al dilagante flusso d’immagini che pervade la società attuale, veicolo di un’iconografia solo apparentemente inoffensiva”.
Anche uno dei motivi di riflessione sempre presente, con altri, nel lavoro di Theo Eshetu quello della memoria, non è un semplice archivio per l’annotazione e la raccolta d’informazioni; essa si configura, piuttosto, come un continuum eclatante di suggestioni, di miti e di rituali ancestrali, resistenti, come dice Eshetu in Blood , alle pretese di aiuto, di modernizzazione, di alfabetizzazione religiosa o politica provenienti dal quel mondo occidentale avanzato che non ha ancora rivolto (o solo da poco comincia, lentamente) il proprio occhio al fondo della stessa propria storia, alla propria stessa identità fittiziamente proclamata. Così avviene in quella che Eshetu chiama l’“Africa immaginata”: una pseudorelazione dell’Occidente con le tante alterità che migrano o restano “lontane”. Ecco allora la mirabile sintesi poetica di Africanized (un film di 34 minuti, digital video, 2002 fotografia e montaggio: Theo Eshetu missaggio e suono: Keir Fraser produzione: White Light ).
Forse questa è una nuova scrittura ellittica; ma non ci ho capito nulla!
Dice una voce nel film. È una delle voci o spiriti tramite le quali Eshetu rievoca – come ha scritto nel saggio su quest’opera Lucio Saviane – temi molto cari a Theo Eshetu e ricorrenti nei suoi lavori: il rito e il simbolo, l’identità e la maschera, l’immagine, l’origine, l’anima. Anche qui Saviane vede, come noi più sopra, in Pasolini, una chiave decisiva per entrare nel mondo di Eshetu, che ci fa “viaggiare” tra occidenti e sud del mondo:
Durante un rito animista africano, le voci concitate dileguano e la camera resta ad osservare una ragazza, a terra, con le braccia aperte e con lo sguardo alterato, fisso nel vuoto. Alle voci si sostituisce, nella rara versione strumentale del coro, La Passione Secondo Matteo di Bach. L’omaggio a Pasolini (pensiamo alle potenti sequenze di Accattone , o di Mamma Roma ) interviene nella parte centrale e più intensa dell’opera; è a prima vista improvviso ma, a guardar bene, l’omaggio rappresenta la prima chiave d’ingresso nell’opera di Theo Eshetu”.
Pasolini già dagli anni cinquanta indicava l’“altro” come una condizione che è presso di noi, nei nostri paesi, nella nostra cultura fatta di appiattimento e violenza distruttrice delle tradizioni e delle appartenenze microculturali. Violenza subliminale – appunto – tramite i mezzi allora nazionali, oggi globali, come la televisione mirata a cancellare e sostituire memorie ed identità con una nuova appartenenza consumistica transnazionale e transidentitaria. Eshetu cavalca il dato di fatto del dominio (ormai di nuovo totalitario e mondiale) della informazione: cavalca, controlla, il dato di fatto di una condizione che anch’egli vive, con il suo lavoro sullo “specifico” mediale e negli interstizi tra generi e media, col suo viaggiare tra occidente e sud o orienti del mondo. Espone un mode d’emploi del dato di fatto della nostra percezione quella sì ibridata, non tra mezzi, ma in un continuo flusso di realtà e finzione, inestricabili. Solo il fatto che Eshetu faccia di quella stessa condizione il metodo, la procedura, l’occhio della sua invenzione artistica, significa “mettere in gioco” quella condizione, nei fatti: nella pratica, che può essere libera. Fortunatamente Eshetu, quando va in Africa, non vi installa un’opera, ma fa un’opera e fa un lavoro di conoscenza-creazione. È già oltre quella “arte applicata”, così stigmatizzata da Jean-Loup Amselle in L’art de l’A-friche (2003). È molto al di sopra di quella attuale, inutile, interessata, identificazione di “pan-africanismo e nuovi media-alte tecnologie”. Ad esempio modesto e negativo (quello che io chiamo “arte applicata”) valga l’intervento di un critico francese alla Biennale di Dakar del 2003. Valga ad esempio della purtroppo corrente, insulsa, neocolonialista relazione tra Europa e Africa: vengono fatti esporre artisti non africani in uno spazio abbandonato_una friche _ex-Palazzo di Giustizia di Dakar, in mezzo agli Archivi ed ai mobili rovesciati e coperti di polvere: su di essi sono presentati i video più di tendenza, “come se – dice Amselle ( p.203 sgg.) – la friche – l’ Afriche – fosse divenuta il non plus ultra dell’arte contemporanea”.
Secondo Amselle, nessuna delle tre più eclatanti varianti della azione culturale dell’occidente industriale avanzato (essendo dati i temi di Africanità, diaspora, mondo): sono accettabili e le stigmatizza duramente:
#1.artista africano_americano o euroafricano, come ad esempio David Hammonds, presentato dai due professori universitari Okwui Enwezor e Salah Hassan, con la Tombola dei montoni (finalità: raggiungere la strada e il popolare)
#2.artista locale o residente: “Gent”, la associazione per i bambini di strada, presentati da Jean-Michel Bruyère (mosso da istanza a “rigenerare o rigenerarsi”, insomma una “redenzione”, per l’Occidente) .
#3. artista europeo esportato nella Friche locale (dove friche/ luogo abbandonato sta per: Africa , e gli artisti occidentali stanno per: nuovi media global i ). Eshetu fa dell’arte un metodo per congedarci dal modo di regolarsi della cultura occidentale verso un paese “altro”.
Una ipotesi-metodo di libertà di azione di tanto maggior valore in quanto lui africano di origine e europeo di educazione, lo fa da dentro l’Occidente, ancora una volta indicando la potenzialità specifica della cultura occidentale stessa nella tolleranza e riconoscimento delle culture emergenti.

The Creation Trilogy
Un incontro tra Simonetta Lux e Theo Eshetu

Simonetta Lux: In Trilogy la nascita è intesa come nascita della fotografia.
Theo Eshetu: Direi che è più la nascita del video come mezzo che influenza le nostre percezioni, o meglio la nascita di un tipo di sguardo sul mondo dettato dalle possibilità del video. Il tema della nascita è un modo di andare all’origine delle cose. Trilogy è un risalire all’origine delle immagini, cercando di visualizzarne le esperienze. Il video, come la fotografia, sono soggetti allo sguardo dell’artista tanto quanto il quadro.

S.L.: Che vuoi dire?
T.E.: Il quadro, in quanto creazione nata dalla mano dell’artista, è ovviamente soggettivo. Con la nascita della fotografia prima e del video poi si è creduto di essere più vicini alla realtà, trascurando il fatto che l’occhio/obiettivo dell’artista è invece altrettanto soggettivo e che il mezzo stesso a suo modo crea sfasamenti drammatici rispetto alla “realtà” intesa come esperienza percettiva sensoriale

S.L.: Parlami di Blood , documentario di un viaggio in Etiopia, luogo in cui hai vissuto durante la tua infanzia.
T.E.: Blood è stato presentato nell’omonima mostra del 2003 al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea. Si tratta di un’esperienza personale in Etiopia, registrata attraverso mezzi diversi (foto, video, film) per ricostruirne il percorso vissuto e sentito proprio in quanto esperienza.

S.L.: Ti poni spesso la questione della recezione di infinite immagini, date con i più diversi media, facendo spesso delle interpolazioni tra questi.
T.E.: Questo per cercare di imitare la realtà come è da noi percepita, nell’esperienza plurisensoriale attuale. Ogni mezzo ha la sua specificità ed è attraverso il moltiplicarsi dei mezzi che più ci possiamo avvicinare al rappresentare l’esperienza vissuta.

S.L.: Di qui la tua nuova idea del soggetto, della soggettivizzazione: ovvero della tua dichiarazione che la fotografia e forse ancora di più il video, sono una nuova forma di specificità.
T.E.: Vedendo un’opera di Caravaggio, immagino che in passato qualcuno si sia chiesto: “questo imita alla perfezione i miei occhi”. Oggi possiamo affermare “è un bel quadro”, ma di certo non pensiamo che sia reale. La stessa cosa vale per il video: pur sembrando apparentemente una visione reale, spesso dimentichiamo che anche l’apparente realtà del video è altrettanto illusoria, in quanto da una parte è manipolata dall’artista nel tentativo di imitare l’ESPERIENZA che abbiamo del reale, e dall’altra il mezzo stesso è limitato nel riprodurre esperienze vissute. Anche la televisione ha questo limite ed esercita questa illusione: crediamo di vedere una realtà, dimenticando che è pura costruzione e manipolazione.

S.L.: Penso alla fictitious reality dei reality show: non credi che Illusione e Verità siano inestricabilmente intrecciati?
T.E.: Si tenta sempre di unire illusione e verità, lo fanno gli artisti e lo fa il mezzo televisivo stesso, il vero problema della televisione e che ci convince della verosimilitudine. L’illusione ci lascia ingannati.

S.L.: Hai mai avuto una esperienza accettabile in cui l’immagine fatta da altri appariva dolorosamente inaccettabile? E viceversa.
T.E.: Si viaggiare in un paese povero ed avere un’impressione positiva della gente dei luoghi.

S.L.: Quando hai girato Blood hai visto delle cose nel tuo paese d’origine …
T.E.: Più che altro ho avuto una esperienza. Né il video né l’istallazione possono restituire quella esperienza benché tentino di farlo. Infatti il video è composto da diversi frammenti montati in postproduzione che dovrebbero fare da eco a ciò che ho visto e sentito durante il viaggio.

S.L.: Nel libro Blood , pubblicato in occasione della mostra al MLAC, tuttavia c’è stato un lavoro di memoria ulteriore fatto di parole, pensieri e citazioni. Insomma, c’è qualcosa di più rispetto alla tua opera di artista o no?
T.E.: La parola è esclusa dalla pittura, ogni mezzo ha la sua capacità di trasmettere ciò che si vuole comunicare: la musica mediante le note, il libro mediante le parole … ecco il libro vuole anche mostrare ciò che nelle opere esposte non si vede.

S.L.: E tu cosa vuoi comunicare, il tuo sguardo?
T.E.: Ognuno di noi può avere un’impressione diversa del mondo anche senza viaggiare. Con i miei video offro il mio sguardo sul mondo, in contrappunto con lo sguardo televisivo. L’idea di fare Blood. Il sangue non è acqua fresca , venne all’inizio dal fatto che la tv dava (e continua dare) un certo sguardo dell’Etiopia, uno sguardo che non corrispondeva alla mie memorie di infanzia. Sono quindi andato in Etiopia per verificare se le immagini dei miei ricordi infantili erano più vere di quelle proposte dalla televisione. E ho notato che le memorie di cose dimenticate erano più forti della realtà, spesso alterata, che vedevo in televisione.

S.L.: Quest’Africa, questa visione: penso anche ad Africanized come quasi un testo teorico, non è certo “africano”. Che sguardo è?
T.E.: Non posso certo dire che esiste uno sguardo africano, come non esiste uno sguardo europeo, credo invece che esista uno sguardo individuale e che per comodità i diversi sguardi vengano classificati e raggruppati in categorie riconoscibili, ad esempio lo sguardo di un artista o lo sguardo di un italiano ecc. Nel mio caso, che sono mezzo africano e mezzo europeo, cerco di esprimere una visione delle cose in maniera ibrida, che mi appartiene di più perchè non c’è distinzione di tipo nazionalista, dove cerco di eliminare le dualità, le differenze. Penso che in questo modo si possa arrivare ad una visione più equilibrata. Ho fatto anche un video nell’Himalaya dove il pensiero tibetano della non dualità viene chiaramente illustrato come il modo più vicino di vedere la realtà, in quanto nella filosofia buddista si cerca proprio di analizzare la natura stessa della realtà. Nei libri tibetani si dice: “non farti ingannare da ciò che appare”. È un approccio di eliminazione delle dualità tra il soggetto e l’oggetto. Quando invece si unisce lo sguardo europeo e quello africano non si ha una visione di una alterità (l’Africa) contrapposta ad una identificazione o identità. E viceversa. Nel mio modo di pensare elimino questi dualismi, coincidentia oppositorum . Perché è importante questo? Se sono i mezzi di comunicazione, come la televisione, che ci danno l’informazione sul mondo, è bene che non usiamo le concezioni nazionalistiche per definirle. Non si può pensare all’Europa senza pensare all’Africa e noi siamo ben coscienti di questo.

S.L.: Noi ci collochiamo in un mondo totalitario quanto alle decisioni politiche ed economiche. Quale spazio resta all’artista?
T.E.: Il ruolo che resta all’artista è quello di combattere con lo sguardo individualistico. La popolarità e il dibattito che ha suscitato in America, de Il sangue non è acqua , e di Africanized , che tratta lo stesso argomento, deriva da questa concezione di una necessità di equilibrio tra il sé e l’immagine l’altro.

S.L.: Lo squilibrio tra quegli elementi non è la premessa della costruzione di una “immagine” del presunto “altro” come “minaccia”?
T.E.: Ho una teoria: tra gli uomini esiste da sempre una guerra fatta non (solo) di armi, ma (ancora più forte) fatta di immagini. Immagini che danno un’impressione positiva o negativa del sé e dell’altro, ed è per questo che vengono rinforzati stereotipi dell’africa povera e dell’Occidente affluente, dando così solo un valore economico alla dialettica, ma se spostiamo il discorso su un piano di umanità, l’opposto potrebbe rivelarsi essere più vero. Chi ha la tecnologia si mostra più forte, chi ha la “telecamera” controlla la “comunicazione”.

S.L.: Non sembra paradossale, ciò.
T.E.: Sia la guerra che la non-guerra si combattono con le immagini, con le impressioni e con le illusioni che le immagini ci danno. Un’altra cosa è “immaginare” la guerra (difficile per noi qui ora). E quando la si fa non si vuole far uscire quella immagine…la sua realtà viene censurata. Tra le immagini propagate da un mezzo di comunicazione e le immagini create da un individuo e dallo sguardo dell’artista, si restituisce al soggetto il suo proprio valore.

Roma, 7/03/2006

Dall’alto:

My Better Half, video still 1985, Courtesy Theo Eshetu

Till Death Us Do Part , video installation, 1987, Courtesy Theo Eshetu

Trance, stampa digitale, 100×80, 2006, Courtesy Theo Eshetu

Blood, progetto multimediale, MLAC, 2003

Man With A Movie Camera, stampa digitale su tela 150 x 120, 2003, Courtesy Theo Eshetu