Gioia Pica: Padre Tito, le andrebbe di ripercorrere brevemente insieme il suo percorso artistico?
Tito Amodei: Dunque, ho cominciato con i nudi: la mia prima scultura è un grande nudo nato da un grande albero che ho trovato nella Feniglia di Orbetello. L’ho lavorata, l’ho portata a Firenze e l’ho finita lì nel mio studio, poi è andata a Torino ed ha ispirato il titolo di un libro di Giorgio Saviane La donna di legno. È un’opera legata ad un figurativo piuttosto libero, ma sempre figurativo.
Il concettuale è invece presente in una certa produzione della mia opera, in particolare nell’arte religiosa negli anni Sessanta legata soprattutto al tema della Deposizione; in seguito il mio percorso è stato spinto da esigenze di carattere formale, tant’è vero che ho tralasciato la figura e i riferimenti ai concetti, realizzando un tipo di scultura che si pone nello spazio come forma e come sostanza contenibile. Ci tengo a sottolinearlo perché per me la scultura è peso e volume, sono gli elementi qualificanti, l’aggettivazione del mio lavoro. Infatti faccio poche mostre, perché trasportare le mie opere diventa un’impresa folle.

G.P.: Quindi ci troviamo in presenza di opere dalla forte valenza spaziale?
T.A.: Sì decisamente, tant’è che inizialmente io ero particolarmente attratto dall’architettura, però poi di fronte a certi esami… Siccome, per altro, mi sento più poeta che costruttore, ho ripiegato prima sulla pittura, infatti artisticamente nasco come pittore, e poi autonomamente, da autodidatta, sono diventato scultore. Evidentemente, analizzandomi a posteriori, posso dire che, attraverso la scultura, rispondo all’esigenza che avverto di afferrare le cose, di sollevarle e di collocarle in un certo spazio. Per cui, per rispondere alla domanda, la propensione verso la dimensione spaziale c’è sempre stata: esser fasciato dallo spazio, poterlo orientare, che è proprio dell’architettura; non solo, in me è altrettanto forte il bisogno di un inserimento panico nella natura. Tutto ciò è evidentemente collegato al fare una scultura che sia volume e peso, è un corollario di questo stato d’animo, di questa mia originaria tendenza a vivere le cose.
Durante quasi tutti gli anni Ottanta, ho cercato di inserire la mia scultura in uno spazio architettonico, di animare le mie strutture minimali in un ambiente, espanse: grandi pareti, forme circolari, euclidee, grandi sculture. Poi ho progressivamente ridotto questa espansione nello spazio in forme sempre più chiuse fino ad arrivare al Cilindro di Piero, ovviamente Piero della Francesca, un artista che mi ha sempre affascinato. In questo caso ho fatto un cilindro di legno vuoto dentro il quale ho messo altri cilindri. Tuttavia i cilindri di legno che sono nel grande contenitore, fuoriescono da un lato del cilindro, tradendo l’assolutezza della forma, che potrebbe definirsi un cilindro “trasgressivo”. Omaggio a Piero quindi, però inserito in un contesto di cultura contemporanea.

G.P.: Che rapporto ha con i modelli del passato?
T.A.: Effettivamente, soprattutto nelle mie ultime sculture, è venuto meno questo carattere, diciamo, letterario o di memoria storica. C’è semplicemente la forma assoluta, pura che interferisce e dialoga con lo spazio.
La Colonna di tre elementi segna l’eliminazione, all’interno del mio percorso, di certi concetti che potevano avere un aspetto quasi sentimentale e romantico: non più un “Cilindro di Piero” trasgressivo, ma assoluto. Ho pensato ad un cilindro puro, chiuso che fosse al tempo stesso matematica e poesia e che, per altro, è sempre esistito in tutte le epoche. Ne ho fatto quindi un piccolo modello e l’ho ingrandito e, siccome avevo un grosso pezzo di ciliegio delle dimensioni del cilindro in terracotta, ne ho fatto uno uguale in ciliegio, mi sono fatto fare la base, che poi in realtà non è una base, ma un elemento della colonna, in ferro scuro satinato. Non può essere una colonna perché è talmente piccola di dimensioni, è talmente bassa, però, è il principio che, a mio parere, conta: l’unione di questi elementi circolari e verticali insieme, che, moltiplicati all’infinito, possono arrivare dove si vuole senza per questo perdere la forza espressiva del cilindro, unito, ma nello stesso tempo separato da questi tagli. Non vi sono né riferimenti concettuali, né sentimenti extra-scultorei.

G.P.: Quindi ci siamo allontanati in direzione opposta alla forma simbolica? Si potrebbe forse ricorrere alla distinzione gilsoniana tra forma e immagine?
T.A.: A questo punto credo proprio di sì, anzi a pensarci bene, forse non ho mai fatto arte simbolica. Credo di aver fatto “arte fantastica” prima delle forme nello spazio degli anni Ottanta, ovvero una combinazione tra un figurativo evocato e un’astrazione dallo stesso. Prendiamo ad esempio l’ Albero di melo, qui di fronte a noi: ha l’aspetto di un albero, però non è un albero, ha delle mele che però sono parte di un contesto fortemente architettonico, è un’astrazione dell’albero, pur essendo un albero. Così come i segni del Paesaggio urbano, sono i segni dell’impatto con una segnaletica stradale. Non è la rappresentazione di un paesaggio urbano, è l’impatto emotivo che deriva da un paesaggio artificiale creato dalle convenzioni sociali, ma al tempo stesso diventa scultura, né astratta, né figurativa. E’ un paesaggio strutturale con fantasia poetica che rievoca una memoria, però è scultura, perché si tiene con le mani, ha plasticità, ha le tre dimensioni, ha una sua consistenza propria. Non esprime concetti, esprime se stessa.

G.P.: Potremmo definirla scultura tautologica?
T.A.: Assolutamente sì. Tant’è vero che quando mi chiedono cosa rappresentino le mie sculture, rispondo: “Non rappresentano, sono”.
Cos’è l’albero, cosa rappresenta? L’albero non rappresenta, è. E così qualunque oggetto, non rappresenta, è.
Il concetto lo abbiamo aggiunto noi, ma considerate come presenze nello spazio, le opere sono e basta. Lo scultore, almeno per quanto mi riguarda, arriva a questa conclusione, che non fa un’immagine carica di significato, ma l’immagine stessa, pittura o scultura che sia, si giustifica autonomamente, cioè non ha bisogno di definizioni o di attributi. L’importante è che in questo loro modo di essere, le opere comunichino poesia o comunque comunichino. La comunicazione poi dipende dalla qualità del prodotto e dalla capacità dell’artista oltreché dall’interlocutore, che dovrebbe possedere una determinata preparazione. Ritorniamo qui al problema dell’ “alfabetizzazione”, per cui non si può parlare una lingua della quale si ignora persino l’alfabeto, e questo vale in tutte le forme di comunicazione.

G.P.: La scelta della materia obbedisce a precise esigenze di ordine formale?
T.A.: Nel corso degli anni ho portato avanti varie esperienze: già con i Semi della forma (1992-1994) avevo sperimentato la terracotta, che prima di allora consideravo non rispondente ad una personale esigenza di lottare contro una materia dura, quale il legno, la pietra, il gesso stesso. A seguito della riconciliazione con la creta e quindi la terracotta, sempre nell’ambito delle forme chiuse, sono arrivato alla elaborazione del “Cilindro di Piero”.
Pur avendo sempre aggredito la materia con l’accetta o con altri strumenti per ottenere una lievitazione della superficie, ad un certo punto, ho sentito il bisogno di infrangere un tabù, quello della superficie liscia. Ho messo da parte il culto esasperato della materia trattata in maniera vibrata e ho tentato la superficie levigatissima di un metallo e poi il colore, da me mai sperimentato in precedenza. Così sono nati i “Dioscuri” (foto 4). Si tratta di un recupero di elementi preesistenti che io ho trasformato. Erano dei boyler che ho rielaborato con l’aiuto di un operaio specializzato, cui ho dato relative istruzioni, in un secondo momento li ho fatti cromare da un carrozziere. Diciamo che sono ricorso a tutti i mezzi che le tecniche moderne mi offrivano, senza però contraddire, almeno mi piace crederlo, tutto il mio precedente percorso.
Una superficie dipinta annulla la materia e quindi il volume, annulla gli effetti materici che concorrono all’esito stesso della scultura. Dipingendo si abbattono i profili o le caratteristiche proprie di una superficie mossa e brulicante, dal momento che il colore omogeneizza tutto. Pertanto mi ero sempre astenuto dal procedere in questa direzione, anche se molto attratto dalla scultura dipinta, sia medievale che arcaica. Finalmente ho fatto questo salto e lo considero un approdo per ulteriori esplorazioni.
Adesso che sono arrivato al colore, so che devo ancora procedere, ma non so come, perché per mia fortuna, questo lo devo dire a voce alta, ogni opera che faccio non è mai scontata. Ogni opera si definisce da sé, non può farla l’artista, l’artista si impegna, poi l’opera porta e trascina ad essere finita come vuole essere finita. Quindi dove approderò non lo so, ma comunque ogni mia esperienza è conseguente: l’immagine nello spazio, volume e peso e adesso anche luce e colore.
E’ un percorso che adesso potrei definire di pulizia anche formale. Guardando l’ultima opera, che è addirittura dorata e argentata, la superficie non ha la sua rilevanza nell’essere vibrata in virtù del mio intervento manuale, come accadeva per le altre superfici, ma è vibrata con un supplemento in più di materie che di per sé fanno parte di una cultura, ma anche di un riconoscimento sociale: l’oro e l’argento.
Non per civetteria, ma per esigenza, una volta orientato verso il colore, della superficie stessa: lo spazio e l’immagine si compenetrano in maniera più preziosa. Infatti l’ho chiamata immagine-spazio, non immagine nello spazio, come erano le mie sculture degli anni Ottanta. Questa è spazio e scultura insieme, poiché lo spazio, che è tra gli elementi della scultura, diviene esso stesso scultura. Ho messo da parte l’aggressione diretta sulla materia, per far ricorso ad elementi socialmente accattivanti che divengono necessari in virtù del nuovo modo di vivere la superficie.

G.P.: Un’ultima domanda, Padre Tito, che sicuramente le avranno rivolto una miriade di volte: quanto Dio c’è nelle sue sculture?
T.A.: Sì, me l’hanno rivolta spesso, ma mai in forma così diretta. La risposta è semplice: Dio non c’è come rappresentazione dei misteri e delle liturgie, ma c’è come presenza di una consistenza spirituale che io rivendico. In questo senso le mie opere sono realmente sacre. La presenza di Dio nelle opere è di rimbalzo, perché se le sculture che faccio sono una promanazione della mia vita religiosa, allora Dio non può non esservi.