Agognare al grado zero dell’immagine, ad una rastremazione di quell’eccesso ingarbugliato di senso che pervade il messaggio visivo, per una sua nuova immediatezza. Non è il manifesto programmatico di una nuova tendenza ma è il sottile filo rosso che lega molte delle esperienze artistiche più recenti e che riordina su schemi desueti l’originalità dell’essenza e la sua icastica trasmissibilità. L’ultimo decennio è costellato di tentativi di ritorno alla purezza, all’innocenza dell’atto creativo, vagheggiato in modo tale che risulti quasi epurato da qualsivoglia responsabilità, nel tentativo di rifondarne le basi. A parziale riscatto ed esorcismo dal male che nell’era dei globalismi pervade le certezze delle nostre civiltà, ecco affiorare messaggi chiari, colti nella loro flagrante naturalezza, esposti nella loro eterea assiomalità, a tratti connotati fabulisticamente, espunti da circostanze che ne giustifichino lo straniamento, correnti, in ultima istanza, un grosso rischio: quello di essere imputati di banalità.
E’ la linea opposta all’eccesso, all’urlo straziante e disperante del troppo mutante che senza cedere il passo a logiche neoprimitiviste o d’impronta naif avanza ipotesi che si distaccano dallo strazio lacerante della complessità cercando la strada di una palese e diretta locuzione non alterata o alterabile di senso. Si vedano, per esemplificare l’assunto, le giganti immagini di Paola Pivi, recentemente oggetto di una mostra al MACRO di Roma: alcuni (pochi) meravigliosi esemplari di zebra con il loro candido caratteristico manto bicromo, quel nero e bianco che tanto ha affascinato gli optical, sottratti al loro contesto ambientale originario ed abbinati alle cime innevate di nostrane catene montuose. Il gioco non è tanto sottolinearne le coincidenze ed il coordinamento binario tanto forse lo spaesamento – spiazzamento a cui l’animale zebra è stato sottoposto, con buona pace degli ambientalisti (trattasi di licenza artistica), interessano qui le interrelazioni e gli scambi che possono istituirsi tra differenti elementi paesistici e faunistici ricomposti seguendo la vena immaginativa dell’artista. L’efficace suggestione ammaliatrice ripristina una necessità percettiva a tratti latitante nell’arte contemporanea, coinvolgendo lo spettatore “dilettante”(colui che ha scarse frequentazioni d’arte contemporanea) in un divertissement affascinante. Si potrà obiettare che l’esempio è capzioso, accattivante, teso com’è in primo luogo all’esercizio della seduzione. Ma tant’è, chi ne ha fruito difficilmente potrà negarne il fascino. Fascino non discreto ma ostentato.
Altrove, ma non tanto lontano, per trovare un altro esempio, rimanendo a Roma, caratterizzata ultimamente dalla sindrome del mega – dal MACRO al MAXXI, il nuovo spazio per l’arte del XXI secolo – la personale di un’artista apparentemente all’opposto. Fari puntati su Margherita Manzelli, una delle ultime promesse dell’arte giovane italiana. Qui, non c’è posto per le favole: estromesso il disincanto, il corpo si fa testimone muto della dilaniante angoscia identitaria contemporanea. Corpi corrosi di adolescenti senza nome, immobilizzati in freddi e lividi bagliori rivolgono sguardi sgranati ed interrogativi allo spettatore impedendogli di non assumersi anche lui le sue responsabilità rispetto a quell’inquietudine così universale di cui si fanno portavoce. Nessuno è più innocente, pesa sulla coscienza di ognuno la compromissione con la vita, con tutto quanto ne corrode la purezza. E’ l’altra faccia di un percorso che interroga l’etica in qualità di estetica contemporanea e ne sciorina una silente e drammatica possibilità. Un confronto di opposti quasi didascalico che investe prioritariamente la manifesta volontà da un lato di farsi carico del peso delle responsabilità, una responsabilità diffusa, non esauribile in riferimenti precisi a questo o a quell’evento ma estendibile alla condizione umana in senso lato appena circostanziata da coordinate che la attualizzano in questo presente; dall’altro di liquidare i conti con il passato mettendosi nello stato d’animo prensile e vergine di chi apre gli occhi sul mondo e lo ricompone a suo piacimento ignorando volutamente la questione della compromissione.
Avulse le responsabilità progettuali, posti i codici espressivi fuori da attributi necessitanti, azzerati gli specialismi di maniera, si fa strada un imperativo ancora più categorico: recuperare un’innocenza altrimenti irrimediabilmente perduta. In una babele linguistica che stratifica e disorienta si vuol dire forse che solo nella sottrazione e rastremazione del senso nei suoi fondamenti i linguaggi torneranno a significare.

Dall’alto:

Paola Pivi, installazione al MACRO di Roma, 2003

Paola Pivi, installazione al MACRO di Roma, 2003