NOTE:
(1) Bettina Vismann e Jurgen Mayer H., Perspiration, or the new National Gallery between cold fronts, in When things cast no shadows, catalogo della V Biennale di Arte Contemporanea di Berlino, 2008.
(2) Pelin Tann, Can “spaces” be fully capitalized? Art and the gentrification of non-places, in When things cast no shadows, catalogo della V Biennale di Arte Contemporanea di Berlino, 2008.
(3) Intervista rilasciata da Adam Szymczyk ed Elena Filipovic ad Axel Lapp, Berlin Biennal: ‘This is Berlin, and it’s the Centre of the Artworld – Apparently’, in <<ArtReview Magazine>>, n° 21, aprile 2008.
(4) Fredric Jameson, Postmodernismo ovvero la logica del tardo capitalismo, Fazi Editore, 2007, Pavona.

“La piattaforma astrae l’edificio dal suo contesto immediato per ottenere una relazione su un piano più elevato: la relazione con la luce. Nella fase del progetto, durante la quale vengono normalmente portati avanti gli studi urbanistici, Mies richiese invece studi sulla posizione del sole. (…) Le condizioni di luce nello spazio di Berlino divennero l’unico criterio adottato per l’edificio di inserirsi nel sito specifico e rappresentarono il suo reale contesto. Non la luce, ma le ombre furono esaminate.” (1)

Interessante scoprire l’importanza dell’analisi degli effetti delle ombre nel progetto della Neue NationalGalerie, rintracciare in Mies van der Rohe un moderno pittore impressionista, intento, in tre differenti momenti della giornata, a valutare l’inclinazione dei raggi solari in relazione al tetto dell’odierno museo. Credo però sia ancora più interessante apprendere che la Biennale di Arte Contemporanea di Berlino giunge alla sua V edizione sotto l’accattivante titolo When things cast no shadows ovvero “quando le cose non imprimono ombre”.
A questo punto è indispensabile provare ad avere un dialogo con i curatori, Adam Szymczyk ed Elena Filipovic: oltre alle interviste rilasciate, abbiamo la possibilità allettante di sfogliare il catalogo e di leggere con attenzione il loro piccolo saggio che compare in chiusura.
Sembra di trovarsi di fronte ad un rebus in cui gli indizi sono dati da alcune parole presenti in corsivo: before, to come, bulding, site, things, as an exhibition. Siamo costretti ad intraprendere il gioco e a seguire delle tracce, il testo è saturo di allusioni, di cauti riferimenti e soprattutto di dichiarazioni al negativo. La Biennale non sarà un “un ricettacolo di presenze fisse di opere d’arte in un luogo durante un periodo specifico”, non avrà “un inizio ed una fine spettacolari”, lo stesso catalogo, lungi dal documentare l’esposizione, si focalizza su ciò che viene prima delle opere (le fonti degli artisti, il materiale che ha segnato la loro poetica) e, nel caso degli eventi notturni, su ciò che dovrà avvenire. La grande innovazione, rispetto ad un concetto classico di Biennale, sembra dunque giocarsi su tre fronti, direi alquanto ambiziosi: la questione temporale, il concetto di luogo espositivo e la definizione stessa di opera d’arte.

Iniziamo il gioco, basta seguire ed accorpare le parole in corsivo. Before e to come sono riferiti al tempo. La Biennale non si sottomette ad una concezione classica di evento con un inizio ed una fine ben precisi grazie a due trovate geniali: il susseguirsi, dopo l’inaugurazione dell’esposizione, di 63 eventi notturni, rassegna intitolata Mes nuits sont plus belles que vos jours, (performance, presentazioni di video, letture critiche tenute da artisti, da filosofi, da fisici, etc. etc.) e lo strano destino dello Schinkel Pavillon (una delle sedi dell’esposizione), in cui si presentano cinque mostre curate da artisti; il primo evento era già visitabile prima dell’inaugurazione della Biennale e l’ultimo rimarrà aperto per due settimane dopo la chiusura. Andiamo oltre, senza porci necessari interrogativi. La coppia bulding – site si riferisce alle sedi: il KW Institute for Contemporary Art, antica fabbrica di margarina situata nella Berlino Est e sede storica della Biennale, lo Schinkel Pavillon, edificio eretto nel 1969 nella Repubblica Democratica Tedesca unendo uno stile modernista ad un gusto neo-classico, la Neue Nationalgalerie, il famoso museo di Mies Van der Rohe costruito nel 1968 e scelto, a detta dei curatori, per il suo essere un “cubo di vetro”, aperto verso l’esterno e lontano dall’idea di museo isolato e chiuso, e infine lo Skulpturenpark Berlin Zentrum, uno spazio all’aperto in cui prima sorgeva una parte del Muro di Berlino. Com’è ovvio, quest’ultima sede – che in seguito analizzeremo con attenzione – scardina il concetto di luogo espositivo inteso come edificio chiuso e si presenta come un sito senza confini… tranne quelli dei lotti che segnano una nuova ed intensa speculazione, ma questo ora non conta.

Siamo giunti all’ultimo binomio: things – as an exhibition. Mi vengono in mente i tanti convegni in cui si trattava lo statuto ontologico dell’opera d’arte contemporanea, il suo essere “oggetto”, “processo”, “operazione mentale”. I riferimenti a Duchamp, il confronto con le nuove tecnologie, ma soprattutto i volti dei critici, degli storici, dei filosofi intenti a discutere, a scambiarsi opinioni, ad ammettere l’esistenza di molte questioni irrisolte. Apprendo ora con gioia che è tutto molto più semplice e che questi scenari non appartengono al “mondo in cui le cose non gettano ombre”: le opere intese come oggetti saranno presenti nell’esposizione diurna, ma la serie di eventi notturni che abbiamo già citato saranno in grado di scardinare la fissità di queste “cose”, di offrire “esperienze transitorie”, “atti performativi fuggevoli che estendano o complichino la loro regolare fruizione diurna”. I critici e i filosofi che abbiamo lasciato intenti a dibattere possono ancora far parte della Biennale (di una cosa siamo assolutamente certi, non esiste un principio di scelta e quindi di esclusione), ma ad una condizione: che diventino attori sonnambuli degli “spettacoli” presenti in calendario, spiegando film di Eisenstein, interpretando il potere dei mass-media alla luce dell’unica intervista televisiva di Jacques Lacan, avventurandosi nella presentazione di nuovi modelli di robots e di “tutte le cose segrete che ci rivelano sull’esistenza”. Non deve sorprendere la metafora teatrale: la Biennale è definita una “struttura aperta in cinque movimenti senza una trama”, mentre il catalogo ci era stato presentato come un “fondale” dell’esposizione.
Del resto il nostro rebus aveva messo in chiaro da subito un concetto: la Biennale di Arte Contemporanea di Berlino è diversa ed innovativa grazie al suo mettere in questione le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo, di azione.

La soluzione è vicina, tutto sta diventando più chiaro, forse eccessivamente chiaro: i riflettori si sono sostituiti alla luce del sole, le ombre sono sparite. Sto assistendo ad un grande spettacolo permanente che non ammette fine, né separazione tra giorno e notte.
Un flusso continuo senza pause: il giro veloce delle navette, la ricerca delle opere nello Skulpturenpark, e poi, di nuovo, la notte, farsi strada sotto la pioggia per assistere al video di Cyprien Gaillards o alla performance di Ahmet Ogut (un taglio di capelli in diretta che non può non farci tornare in mente le serate dadaiste parigine) .

Non devo stupirmi, nella chiosa dello scritto era tutto indicato: non esiste un’agenda curatoriale, ma la volontà di rendere la Biennale “un incontro fortuito mentre si viaggia senza una direzione prestabilita”. Perché ostinarsi a chiedere una lettura critica, una mappa che orienti il soggetto nel confrontarsi con se stesso, con la storia, con la società odierna, non serve. Lo spettacolo è diffuso, uguale in ogni parte del mondo. Berlino, città dalle molte anime in contrasto, città che deve ricordare e nello stesso tempo cercare di guardare al futuro, anche se spesso sembra di vederla come l’angelo di Benjamin, sguardo rivolto indietro, un vento inesorabile che la sospinge e cumuli di macerie che si sommano. Bene, questa città nella Biennale non esiste, anzi a volte diventa solo un pretesto per animare ancor di più lo spettacolo, per renderlo più “toccante”, direi “sentimentale” come nel caso dello Skulpturenpark. Il fantasma del muro, una landa desolata ricca di fango e di qualche albero: ambientazione perfetta. Peccato apprendere, tramite uno scritto del catalogo firmato da Pelin Tann (2), che gli spazi lasciati vuoti nelle città posseggono una forte valenza politica ed economica: sono “zone cuscinetto” che daranno vita a fasi di speculazione edilizia, l’arte stessa potrebbe essere un catalizzatore in questo processo, divenire un fattore che incrementi la lottizzazione. Gli artisti presenti nella Biennale hanno deciso di trattare questa questione, di svelarne i meccanismi, o hanno preferito rivolgere uno sguardo malinconico al muro seguendo i dettami dei curatori? Se dovessimo considerare il video di Lars Laumann, dedicato al rapporto “amoroso” esistente dagli anni Sessanta tra una donna ed il muro di Berlino, o la stazione del bus di Pedro Barateiro, di cui esiste una controparte nella sede della Neue Nationalgalerie per dimostrare la differenza tra Est ed Ovest, non avremmo dubbi. Mi dispiace molto non poter dedicare un giusto spazio alle opere presenti, ma non si tratta ora di presentare un riassunto: è facile lasciarsi tentare dal tragitto percorso dai curatori e scegliere di fare un racconto distaccato e il più possibile oggettivo, piuttosto che addentrarsi in critiche tacciabili di essere sommarie. Ciò che vorrei fosse chiaro è l’assoluta mancanza, tranne rare eccezioni, di opere in grado di attivare una relazione critica reale con l’esterno, con la storia, con la società contemporanea, con la città di Berlino.
La maggior parte delle opere sono state incentrate sul rapporto con le architetture delle sedi, soprattutto nel caso della Neue Nationalgalerie, o con un concetto stereotipato e comodo di storia, ideale, come dicevo prima, come ambientazione posticcia del grande evento-spettacolo.
In un’intervista rilasciata ad Axel Lapp il 31 marzo 2008, Adam Szymczyk dichiara “La Biennale è semplicemente una delle tante mostre che si tengono qui. È una mostra abbastanza importante e molto presente, ma non vedo realmente la possibilità di collegarla alla città poiché la questione è ‘quale città?’, ci sono così tanti modi di parlare della città che non voglio fissare un tipo di relazione che la Biennale istaura o si propone di istaurare con essa.” (3)

Il messaggio è fin troppo chiaro: nella complessità di qualsiasi scelta, è bene non farne e dichiararne l’inutilità a priori. In questo “nuovo mondo” che mi piace pensare come la scena del film di Crialese in cui tutti i personaggi sono immersi nel latte, non c’è spazio per la dialettica, per la tesi e l’antitesi, per i dubbi, per le esitazioni, perfino le ombre devono scomparire perché viene meno ogni volontà di essere nel reale. Il tempo è un eterno presente, in cui la luce, artificiale, è sempre accesa: l’inferno sartiano di A porte chiuse.

È il momento di spiegare la presenza di Mies Van der Rohe, che avevamo lasciato intento a studiare gli effetti delle ombre: nel catalogo, esempio egregio di pastiche in cui sono presenti scritti dalle nature più disparate, si celebra, con aria smaliziata e divertita, la fine dell’utopia modernista. Assistiamo al fallimento del progetto di Eisenstein di fare un film dal titolo “La casa di vetro” dedicato alla natura stessa del cinema, per poi constatare che il museo di Mies Van der Rohe, che doveva essere del tutto immune dai condizionamenti ambientali per ricongiungersi ad un’unità superiore del cosmo, presenta ancor oggi il fenomeno della condensa, segno della relazione tra le condizioni climatiche interne e quelle esterne. Diventa emblematica l’opera di Daniel Knorr: una serie di bandiere poste sul tetto della Nationalgalerie la rendono simile ad un baraccone da circo o ad una pompa di benzina. L’ironia è duplice: l’architetto in realtà aveva fatto un progetto simile a quello del museo per una pompa di benzina di Montreal.

Nel regno del postmoderno tutto è lecito, del resto siamo all’interno di uno spettacolo: si può ridere della fine del modernismo e delle ombre di Mies van der Rohe, si può affermare liberamente di non avere un agenda curatoriale, si può ignorare la città in cui ha sede l’esposizione, e, soprattutto, si può tralasciare il valore dell’arte in relazione al mondo. Ma questo è lo scenario parziale di una Biennale che sceglie di porsi “un incontro fortuito mentre si viaggia senza una direzione prestabilita”. Esiste un’altra storia, che si concede il lusso di tracciare una mappa, una “cartografia cognitiva globale” in cui “sia possa ricominciare ad intendere la nostra posizione in quanto soggetti individuali e collettivi e a riconquistare una capacità di agire e di lottare”(4). È il tragitto di un’arte immersa nel reale, nel finito, nel tempo, che saluta con gioia la sua ombra perché sa di essere viva.

Dall’alto:

1. David Knorr, NationalGalerie, 2008
Veduta dell’installazione alla V Biennale di Arte Contemporanea di Berlino, Neue NationalGalerie,
58 bandiere, 360 x 250 cm ciascuna
Courtesy Veronica Gaia di Orio

2. Bandiere con il logo della Neue NationalGalerie e della V Biennale di Arte Contemporanea di Berlino.
Courtesy Veronica Gaia di Orio

3. Veduta dello Skulpturenpark Berlin_Zentrum
Courtesy Veronica Gaia di Orio

4. Lars Laumann, Berlinmuren, 2008, video still
Video 28 Min., Englisch/Deutsch, Loop, Farbe, Ton /
video 28 min, English/German, loop, color, sound
Courtesy Veronica Gaia di Orio
Copyright Lars Laumann

5. Pedro Barateiro, The Naked City, 2008
Veduta dell’installazione alla V Biennale di Arte Contemporanea di Berlino, Skulpturenpark Berlin_Zentrum. Replica scultorea di una stazione del bus, opuscoli, materiali misti.
600x 400x 350 cm
Courtesy Veronica Gaia di Orio

6. Cyprien Gaillard, Koudlam, Crazy Horse, 2008
Veduta della proiezione del film di Cyprien Gallard (musiche di Koudlam), evento della rassegna Mes Nuits Son Plus Belles Que Vos Jours,
V Biennale di Arte Contemporanea di Berlino
Courtesy Veronica Gaia di Orio