Ogi:no Knauss è un collettivo di artisti attivo a Firenze dal 1995. Dalle prime sperimentazioni come “laboratorio di cinema mutante”, orientate alla ricerca sul cinema classico, attraverso una costante deriva tra i diversi linguaggi e nelle pratiche della comunicazione sono giunti alla sperimentazione sulla performance audio-video. La ricerca di una sintesi tra la narratività del montaggio e l’ipnoticità del rave produce sperimentazioni sul ritmo e sulla scrittura, ed una esplorazione costante di nuovi contesti e spazi di azione: centri culturali o occupazioni temporanee di spazi dismessi, musei, spazi pubblici e festivals. Il percorso di Oginoknauss si sviluppa all’incrocio tra l’esplorazione di spazi eterotopici e l’esibizione di pratiche disvelatorie del dispositivo audiovisivo. www.oginoknauss.org/

 

Triplicity. Tra spazio di rappresentazione e rappresentazione dello spazio è un progetto di performance audiovisiva ed un “processo conoscitivo dinamico” che Ogi:no Knauss ha programmaticamente dedicato a Henri Lefebvre.
Il progetto esplora lo spazio della metropoli globale, attraverso il confronto tra la produzione incessante, irriducibile e interrelata della spazialità umana e della testualità urbana. Una rapsodia audiovisiva che nel live set tre vj narrano con due mixer, un proiettore, una amplificazione sonora, e che nel il DVD rom interattivo viene costruito dallo spettatore che può montare secondo l’ordine chepreferisce le 36 clip filmate nelle grandi metropoli mondiali.

 

Il sito di Ogi:no Knauss e di AV Records è www.oginoknauss.org

Lucrezia Cippitelli: Questi ultimi mesi sono stati cruciali per Ogi:no Knauss: la pubblicazione del vostro progetto Triplicity e la nascita dell’etichetta AVRec. Vorrei quindi iniziare parlando di questi due progetti.

Primo Triplicity, che è tra l’altro una delle due prime pubblicazioni della novella label. È un lavoro bellissimo e che sembra una sorta di sunto delle vostre esperienze di esploratori urbani (tra l’altro la matrice di studiosi della rappresentazione dello spazio urbano è lampante vista la dedica a Henri Lefebvre). Ho visto da qualche parte che il progetto è nato come live performance. Vorrei sapere qualcosa di più sulla sua genesi e sul successivo passaggio che vi ha portato a farne un DVD rom interattivo?

Ogino Knauss: Siamo conosciuti soprattutto come gruppo di vj e live media performers, ma il percorso di Ogino Knauss fonde l’esperienza di filmakers irrequieti e la formazione come architetti di alcuni di noi. Nel corso degli anni questi due campi di ricerca si sono sovrapposti e influenzati sempre di più, ed allo stesso tempo da parte nostra si è consolidata la consapevolezza che i processi di produzione spaziale e di produzione di immagine sono sempre più coincidenti e correlati nella evoluzione dell’ambiente urbano. Per questo motivo la pratica di “suonare la città” che ci è sempre stata naturale, di attingere al serbatoio di immagini in movimento che l’ambiente urbano ci forniva è diventata sempre più oggetto di una attenzione analitica. Così, mentre tanto le esperienze personali di ricerca e azione quanto il percorso di Ogi:no Knauss come collettivo di performers ci portavano in giro ad esplorare nuove configurazioni dello spazio pubblico globalizzato, abbiamo cominciato ad organizzare una sorta di diario di viaggio, un “travelogue” per immagini e suoni che raccontasse le ispirazioni, gli spunti, le inquietudini, le sorprese che il nostro viaggio nel paesaggio urbano in evoluzione ci riservava. È quella che abbiamo chiamato una collezione di sguardi, una serie di cartoline audiovisive, che le elementari tecnologie mediali attuali ci danno la possibilità di organizzare e ricombinare. Siamo sempre stati attratti dal processo creativo più che dalla produzione di opere, e quindi tanto il DVD.rom, quanto il live set si basano sulla possibilità di riassemblare, confrontare, contrapporre e sovrapporre paesaggi visuali e sonori diversi. 
L.C. A cosa fate riferimento in particolare riferendovi a tre binari paralleli (TRIPLIcity) nella narrazione degli spazi urbani?
O.K. Lavorando su un campo tematico così vasto e potenzialmente inclusivo come il paesaggio urbano globale ed il rapporto con la produzione di immagine, ci serviva una chiave, una procedura, un metodo che ancorasse la nostra pratica a un qualche tipo di puntello solido. L’ispirazione ce l’ha offerta Henri Lefebvre con la sua monumentale, affascinante (e talvolta criptica) analisi della produzione spaziale. 
In particolare dove lui individua il processo di produzione spaziale come risultato dell’intrecciarsi e dell’indissolubile interdipendenza di tre spazialità differenti, il vissuto, il concepito ed il percepito. 
Concetto altrimenti espresso come distinzione tra spazio fisico, spazio sociale e spazio mentale. 
Per nostra natura abbiamo sviluppato una sincera insofferenza per le categorie strettamente dicotomiche, ed improvvisamente il “gioco del tre” è diventato il principio su cui impostare tutto il lavoro… da quel momento in poi tutto ha cominciato a comporsi con una stupefacente coerenza numerologica nel processo creativo. Noi siamo tre persone, con differenti e complementari attitudini verso le cose che facciamo; in Triplicity trattiamo con uguale importanza, e con analoghe tecniche, immagine, suono e testo; il live set si sviluppa su tre schermi paralleli, la descrizione dei fenomeni urbani si affida a tre modi di leggere la città: come sistema di superfici, come sistema di flussi e come sistema di segni… potrei continuare così, non abbiano fatto altro che scoprire, articolare ed inventare “triplette” di ogni tipo…
L.C. Parliamo ora della label AVRec. Cito testualmente “AVRec è una etichetta di pubblicazione audio video, dedita ad esplorare il potenziale dei supporti DVD.Rom e DVD.video nello sviluppo di formati innovativi di narrazione”. È quasi un manifesto programmatico. Che potenzialità intravedete nello sviluppo di questo supporto?
O.K. Ci ha sempre interessato il tema dell’ipernarrativa e dell’opera aperta a processi ricombinatori. Il DVD introduce una profonda differenza rispetto alla pellicola ed al videotape, ed è quella di rendere potenzialmente possibile l’intervento attivo dello spettatore (se possiamo ancora definirlo così). Come ad esempio abbiamo cercato di fare con Triplicity, dove l’utente può rimontare le 36 sequenze che compongono il “documentario” secondo le sue esigenze, creando collegamenti, contrapposizioni o ritmi narrativi diversi.
Quanto si tratti di un processo di customizzazione che non incide sull’autorialità dell’opera e quanto di una vera rivoluzione è difficile dirlo… certamente però il nuovo supporto e il salto tecnologico che ne derivano rendono possibile pensare nuovi formati di narrazione ancora da esplorare.
L.C. Che legame ha l’uso del DVD con l’evoluzione della vostra ricerca come performer audio/video? Vi faccio questa domanda perché in generale credo che la questione del supporto (o della documentazione o della “vendita” dell’oggetto artistico performance) sia una problematica nodale e non risolta per l’arte contemporanea. Lo sviluppo delle pratiche artistiche che coinvolgono i nuovi media (e quindi le audio video performances) ha in qualche modo riattualizzato il problema. 
O.K. Non particolarmente forte direi. Di fatto non utilizziamo quasi mai dal vivo i DVD perchè ancora non li sentiamo affidabili e perchè non rinunciamo alla piena qualità del video rispetto all’M-peg… preferiamo eseguire da Hard Disk o ricorrere alla cara mini-DV. In realtà la questione dei supporti nell’esecuzione e nella riproduzione di performance audiovisive non dovrebbe avere nessuna attinenza con la sostanza dell’opera, che a nostro avviso risiede nella capacità del performer di dare un senso all’essere lì e ora, di usare la propria sensibilità per costruire una situazione specifica. Molta della noia che avvolge il mondo delle arti digitali attualmente riguarda proprio il fatto che non riusciamo a percepire dove sarebbe la differenza se il performer avesse mandato suo cugino a mettere in play una traccia, o per quale motivo una tiratura limitata in pochi esemplari di un cd debba costare un sacco di soldi quando potrebbe essere duplicato a costo quasi zero e diffuso… 
L.C. Vedo dal vostro sito che le due collane principali su cui si sviluppa AVRec vertono una proprio sulla documentazione e registrazione di performance e vj-set (va detto a questo proposito che il secondo lavoro che ha inaugurato l’etichetta è proprio la registrazione di un vostro vj-set, Equilibratura elettronica)
L’altro filone di produzione l’avete invece battezzato “toolkit”: come se si trattasse di una scatola degli attrezzi dell’artista che lavora nell’ambito del live media. Era questa la vostra intenzione?
O.K. ..ma non solo dell’artista, concetto che d’altra parte ci è sempre più ineffabile ed estraneo.
Riprendendo proprio l’esempio di Triplicity, che è il prototipo dei Toolkit, è un oggetto che potrebbe essere usato per fare una lezione universitaria di urbanistica o di antropologia per mostrare in che modo la produzione mediatica sta cambiando il modo di percepire e vivere l’ambiente umano e le relazioni interpersonali… e potrebbe anche essere ascoltato come una collezione di field recordings senza guardare le immagini…
I prossimi progetti, qualora riuscissimo a continuare il progetto di pubblicazione – e dobbiamo dire che in questo momento le prospettive economiche per una simile impresa ci appaiono durissime – riguarderebbero anche ambiti molto diversi dal contesto della produzione puramente artistica: forme di autonarrazione sulla creazione di spazi pubblici e comunitari dal basso, ad esempio, o archivi di memorie visive familiari registrate in super 8… tutti progetti in cui la partecipazione attiva nel dare significato al materiale ci appare assai importante. D’altra parte ci sembra che in questo momento anche il mondo dell’arte stia riservando una grossa attenzione alla ridefinizione del ruolo dell’artista come catalizzatore di azione di consapevolezza e coinvolgimento fattivo del pubblico nella creazione di processi condivisi.
L.C. Ultima domanda su AVRec, mi piace sottolineare la vostra scelta di parlare di licenze e di farlo ribadendo la decisione di adottare la licenza Creative Commons. Me ne volete parlare?
O.K. Sono anni che andiamo in giro per i marciapiedi di mezzo mondo “rubando” immagini. Segni, storie, conflitti, emozioni che derivano dal vissuto di chi quei luoghi li ha battuti, levigati, modificati, demoliti, odiati o amati. Saremmo presuntuosi a voler vendere questa roba come fosse nostra. Noi rivendichiamo il diritto al riconoscimento del processo che svolgiamo nel far risuonare flussi sotterranei ed elementi spontanei, non certo il possesso o la paternità delle nostre opere, che sono il prodotto di una costante ascolto e confronto di stimoli, idee, voci, suoni, emozioni, conflitti che ci attraversano e ci modificano. In un momento in cui tutti su questo pianeta sembrano affannarsi a rivendicare la privatizzazione di qualcosa da vendere agli altri, siamo fermamente convinti della necessità di rifondare e difendere il concetto di “common good”. Siamo commonisti…
L.C. Parliamo ora un po’ di voi.
Vorrei saperne di più su come è nato il progetto Ogi:no Knauss, su quali sono i vostri principali filoni di ricerca e sui possibili punti di riferimento comuni a tutti e tre.
O.K. Eravamo studenti fuori sede a Firenze, volevamo fare un film insieme, ci siamo ritrovati in un Centro Sociale Occupato Autogestito a creare il Laboratorio di Cinema Mutante, poco a poco ci siamo resi conto che in quel contesto non aveva senso pensare di limitarsi a tirare su il nostro orticello… eravamo in un zona che attestava e rivendicava una sua autonomia, e starci dentro significava fare delle scelte di vita politiche che influenzavano anche il nostro modo di fare cinema e produzione artistica… da qui il vj-ing come pratica di surfing emozionale, l’apertura e lo scambio con altri linguaggi ed altri collettivi, l’attenzione al contesto spaziale ed ai conflitti per l’autonomia degli spazi, la partecipazione a network di comunicazione indipendente… e poi la tehcno culture, e il fenomeno apparentemente fatuo dei rave, a cui ancora secondo noi non è stata restituita sufficiente credito come media sub-culturale.
L.C. Qual’è stato il passaggio che vi ha portato ad indagare sull’idea di Hyperfilm e sui paesaggi urbani?
O.K. Proprio quello di cui parlavamo ora: una volta fatto il nostro cortometraggio in pellicola, avendo ripercorso una produzione cinematografica tradizionale in tutti i suoi passaggi ed i suoi ruoli gerarchici rigidamente impostati, dalla scrittura di una sceneggiatura alla costruzione di un teatro di posa in cui girare (e perfino la costruzione materiale di un cinema in cui proiettarlo), ci è venuto spontaneo smantellare il tutto, smembrare il processo e negare l’opera conclusa, aprire un processo ipernarrativo che seguisse le possibili derive in senso collettivo, processuale e situazionista del nostro lavoro… ne sono seguiti dieci anni di sperimentazioni, a volte totalmente fallimentari, eccessive, improduttive ma mai inutili, a volte fertili, riuscite, comunque formative… dobbiamo dire che dopo questa parabola, ora ci è tornata una gran voglia di fare un film, proprio uno di quelli che ti siedi in poltrona e te lo guardi con gusto.
L.C. Come si sviluppa, come funziona e che idea avete del lavoro collettivo?
O.K. Fatica, frustrazione, l’impressione deprimente di dissipare gran parte della propria energia cercando di spiegare quello che potresti semplicemente fare, dubbi, rabbia, stanchezza. Poi realizzare ad un tratto che ne vale comunque la pena e che ci sono delle cose che miracolosamente scaturiscono e danno senso e soddisfazione al tutto…
L.C. Che rapporto avete con le macchine? Ovvero: in che modo vi rapportate agli strumenti tecnologici che usate per costruire i vostri progetti?
O.K. Piuttosto difficile, non abbiamo un rapporto molto fluido con le macchine, non siamo dei techies, siamo rispettosi ed affascinati dalle possibilità tecnologiche, ma siamo lenti e generalmente ci dilunghiamo a sviluppare un nostro uso di tecnologie che tutti stanno abbandonando per saltare su qualcosa di più nuovo… 
L.C. Che rapporto costruite (se ne volete costruire uno) con gli spazi in cui lavorate e con gli spettatori/fruitori/osservatori delle vostre performance?
O.K. Difficile questione, ogni caso è un discorso a parte. Assolutamente gli spazi ci interessano come parte integrante del nostro lavoro. Non pensiamo alle nostre performance come a sé stanti, slegate dal contesto in cui avvengono, ma come specifico tentativo di costruire una situazione, in cui collocazione e momento siano una componente fondamentale ed irripetibile. 
Preferiamo sempre luoghi stimolanti e particolari, che ci consentano di interagire, di costruire una relazione, un dialogo, magari una collaborazione prolungata. Ci sentiamo meno coinvolti nella galleria, nel museo o nella situazione istituzionale che in qualche modo cerca di mettere una cornice intorno al tuo lavoro e di mantenere la sua distaccata neutralità.
L.C. Musica: come guardate alle ricerche elettroniche più sperimentali? Chi vi interessa?
O.K. Ci ha sempre interessato delle musiche sperimentali la capacità di sviluppare pratiche innovative ed il nostro lavoro sul video ha spesso attinto al range delle tecniche della musica elettronica, e non solo, per verificarle nel dominio della produzione di immagine: loops, campionamento, scratch, uso di multiple tracce, il concetto stesso di live set. Anche il discorso sull’autorialità e sulla proprietà intellettuale è stato dapprima messo in crisi ed espanso nel dominio della musica elettronica e di ricerca, dal plagiarismo alla pratica del remix… senza dimenticare la rave culture, con tutte le sue implicazioni… e tutto ciò ha molto influenzato il nostro lavoro.
La lista di chi ci interessa potrebbe essere infinita, siamo abbastanza onnivori, senza contare che dei tre Miki Semascus ha anche una formazione da DJ. Ma al di là degli esiti puramente musicali, estetici direi, quelli che veramente ci interessano sono musicisti che infondono una attitudine particolare al loro lavoro sul piano della consapevolezza politica o filosofica… pensiamo a collettivi come Ultra-red, al ventennale e vulcanico lavoro al campionatore di Bob Ostertag e la sintesi estrema di Rioji Ikeda, alla scena Hip Hop più radicale, italiana e straniera…
L.C. Infine vorrei un vostro sguardo sul panorama del live media italiano e straniero: a chi guardate? Cosa vi piace e cosa non vi piace di quanto succede in questi anni?
O.K. Risposta delicata… massimo rispetto per alcuni collettivi che anche producendo cose molto distanti dalle nostre dimostrano quell’attitudine che condividiamo verso la produzione… storicamente Cane Capovolto, Opificio Ciclope, e poi Otolab, Santi & Saule, tra i più giovani ci sembrano molto bravi OKNO. Ma stiamo lasciando fuori tanta di quella gente che stimiamo… In generale per quanto riguarda la scena internazionale ci sembra che ci siano tante cose estremamente interessanti, ma anche piuttosto fatue. Una espansione dinamica del dominio del graphic design estremamente elegante ma che alle volte non riesce a superare l’effetto della videotappezzeria, a cui ci sentiamo piuttosto estranei, preferendo ricerche che mantengono una discendenza diretta con le pratiche del cinema radicale.



Dall’alto:

Triplicity, 2004, still dal video
Alcune immagini dal video Quantize this, realizzato e presentato a Milano, Stadio San Siro, nell’aprile 2005