La Biennale di Venezia è una bellissima mostra e ci si diverte sempre in compagnia. Piace sostare al sole placidamente compressi dalla folla, scambiare sudori internazionali e bisogni irrefrenabili sospinti dalle transenne in costruzione per potersi recare dentro i giardini. Noi che operosamente abbiamo sperato di evitare le code fornendoci di referenze abbiamo invece potuto beneficiare di molte ore di incontri con la stampa estera e nostrana poiché la Biennale ci sospinge a questo fraterno dialogo coi popoli e coi bisognosi e sempre in fila per due. Abbiamo a lungo cercato un bicchiere d’acqua, ma la priorità era creare dialoghi e tensioni nella dittatura dello spettatore. Bisognerà quindi pensare che questa Biennale è una vendetta contro il pubblico? Aspettando da circa mezz’ora sotto il sole a quaranta il suo ingresso nell’unico WC chimico nel raggio di molti chilometri una gentile curatrice canadese mi ha assicurato che questa Biennale assolve bene alla vendetta esercitata contro lo spettatore, il cattivo dittatore. Lo abbiamo punito, ha dichiarato il curatore, senza voler pronunciare il suo nome. “Ma noi vogliamo solo saperlo null’altro”, abbiamo insistito, ma nulla da fare. Si parlava poco per soddisfare la richiesta energetica e la disidratazione. Sui traghetti mai come quest’anno si viaggiava male, ma i veneziani, che sono dei signori e di gran classe, come al solito si sono profusi in incantevoli sortilegi per alleviare le nostre penitenze, inflitteci dagli artisti. Una coppia di sessantenni ci ha raccontato – alla troupe – che si sono divertiti molto a “guardare” l’inaugurazione del padiglione neozelandese sotto la loro finestra. Abbiamo perso quell’appuntamento e ce ne dispiace. Il problema sostanziale posto da questa Biennale è soprattutto nelle diversità curatoriali poste in antitesi. Le Corderie mi sono sembrate svilite nella loro bellezza e non certo per un problema inerente i deferenti progetti esposti. Due di questi, fra quelli che maggiormente si distanziavano – Sistemi individuali di Igor Zabel e Z.O.U. / Zone d’urgenza di Hou Hanru – erano collocati talmente vicini da interagire forse al di sopra delle volontà dei singoli curatori. Nel primo con l’allestimento di Josef Dabernig si tendeva al raffreddamento tecnologico mentre il secondo esponeva l’urgenza comunicativa asiatica e la sua mancanza di freni nei confronti dei New media art. L’allestimento un po’ troppo laboratoriale in stile Palais de Tokyo lasciava leggermente astiosi, e in taluni casi si rimpiangeva addirittura l’ipotesi avversa, di Szeemann. A mio avviso al sistema totalizzante quale quello di Szeemann non è stato sostituito un altrettanto totalizzante Francesco Bonami, semplicemente questi ha volontariamente suddiviso in parti altrettanto totalizzanti la sua mostra e ne sono venuti fuori alcuni dolori. Il padiglione Italia (U.S.A. new star) ovviamente rappresentava la summa di queste molteplici differenze istituite sotto un’unica bandiera; l’unica a disposizione tra l’altro. E tale di permettere all’ospite U.S.A. di potersi fare rappresentare da Wilson. Il quale ce la mette tutta ed a cui abbiamo dedicato un video diretto da Scialotti. Il padiglione Italia? Raderlo al suolo? Ibernarlo? Le ipotesi d’allestimento in quello spazio hanno sempre fallito, è il padiglione delle nostre disgrazie. L’incapacità di creare attraverso la Biennale uno spazio privilegiato d’incontro fra le emergenze internazionali. Quello spazio sembra essere appropriato soltanto per una vera collettiva, non una adunata di generici artisti che suddividono il loro spazio ma che attraverso il loro lavoro lo aprano ad una possibile visione collettiva. Fra i padiglioni mi è piaciuto quello di Jana Sterbak; anche se eccessivamente nostalgico se ne apprezzano l’atmosfera così distante dalla realtà dello spettatore. Anche la Francia presentava un bel padiglione, un molto riflettente Jean-Marc Bustamante con il suo tocco plastico Anni Ottanta. Molte torri e performance, quale quella di Cattelan, non facevano a tempo che di ricordarci che comunque la vera Biennale era alle Corderie, all’Arsenale. Il pupazzo in triciclo di Cattelan sottolineava l’incapacità comunicativa del dittatore/spettatore. Una dittatura, dello spettatore, che termina nel gioco, dove gli umori stabiliscono una quiete. Così incontravi cool e becool estremamente impegnati a “parlare” con il pupazzo, una sorta di specchio delle mie brame amplificato e stereo. Pupazzi fra pupazzi in chiacchiere da pupazzo ce ne siamo ritornati – traghetto 1, poi il secondo, poi sbagliato – indietro passando dalla Giudecca. C’era la mostra di Fabio Mauri, molto stanco e ispirato, e pochi metri dopo la grande adunata al padiglione dei Paesi Sudamericani dove l’ambiente era elettrificato da uno stordente d.j. musicist che spiazzava chiunque. Le reazioni dei molti era estremamente interessanti. Fra la birra e le sgomitate, un paio di trappole evitate ed un diverbio mortificante scalzato grazie ad un confetto di Happydent (oggi mio sponsor per la pubblicazione di questo testo: ringrazio), ci si è domandati se era possibile ingerire qualcosa. Sorpresa! Le scorte sono terminate, a Venezia si rischia la fame. E la sete. Unica bevanda disponibile Rhum delle colonie. Ma questo è nulla: il resto alla prossima Biennale.

Dall’alto:

Maurizio Cattelan in versione pupazzo in triciclo ai Giardini, Biennale di Venezia 2003

Jana Sterbak, Padiglione Canadese, Biennale di Venezia 2003

Stazione Utopia, particolare dell’allestimento a cura di Molly Nesbit, Hans Hulrich Obrist, Rirkrit Tiravanija, Arsenale, Biennale di Venezia 2003

Adel Abdessemed, Pass simple / Passato remoto, 1997, in Z.O.U. Zona d’urgenza, a cura di Hou Hanru, Biennale di Venezia 2003

Jean-Marc Bustamante, Padiglione Francese, Biennale di Venezia 2003