Si può procedere, in una riflessione sulla storia o su un aspetto specifico di essa (l’arte, la poesia, la musica, etc.), partendo da un paradigma della differenza piuttosto che da un paradigma dell’identità? Se il postmoderno ci ha abituati a vedere mescolati e confusi, a-criticamente, i generi e la storia, in un’eterogeneità che lasciava convergere il diverso e le specificità, si può invece tentare di ripartire dalla “differenza” come criterio posto alla base di una lettura/analisi di alcune modalità e procedure artistiche contemporanee. C’è una linea che corre nella storia dell’arte e del pensiero dalla fine del XIX e lungo tutto il secolo XX che ha contribuito ad aprire questa ipotesi: da Nietzsche a Bataille a Deleuze, da Lautreamont e da Mallarmé, fino a Foucault, a Derrida, a J. L. Nancy, passando anche per le ipotesi che Brandi negli anni ’70 e, da un altro ancora punto di vista, Pareyson già dagli anni ’40 e ’50 avevano avanzato.
Per rintracciare un senso, quello della differenza, si tenta perciò di interrompere la linearità che costituisce un processo: artistico ma anche non. Non si intende la differenza come una fase in cui la novità si impone alla tradizione. Nè come “diversità” storiche o teoriche appartenenti ad una stesso contesto. La differenza può invece essere rintracciata dall’interno stesso delle fasi che fanno la storia, osservando cosa le caratterizzi ma anche cosa di esse venga posto ai margini, al di fuori. La differenza emerge allora come alterità di un tempo storico, sua lateralità, latente o esplicita, tuttavia lasciata ai bordi e non compresa nella ricostruzione che la storia (la sua metodologia) pone come disegno del tempo, dei suoi avvicendamenti.
Chiedersi cosa sia e dove si manifesti oggi la differenza è pensare l’arte non soltanto all’interno dei modi e delle funzioni che la costituiscono, ma dal di fuori: l’arte uscita fuori dal suo corpo storico ed estesa a pratiche che fino a pochi decenni fa si stentava a definire addirittura arte. Moda, design, architetture come riprogettazione di precisi contesti sociali ma anche allestimento di parchi e giardini, progetti per il territorio, nuovi rituali all’interno dei quali fasce di giovani sperimentano l’interruzione di legami con gli standard sociali della vita e della sopravvivenza (rave, pratiche collettive, incursioni/operazioni e ridefinizioni artistiche nella città). La differenza non è semplicemente la novità, il nuovo.
I margini della storia e delle processualità, attraverso i quali l’arte ha costruito i propri percorsi, si interrompono, aprendosi a lateralità che spingono dal di fuori modi e ipotesi che cambiano irreversibilmente la risposta alla domanda che cosa è l’arte. L’arte assume una fisionomia complessa, non soltanto perchè al suo interno convergono geografie e tempi eterogenei, con radici e basi culturali assai lontane. Pratiche artistiche attuali sfidano le mode consolidate dove la “tendenza” raccoglie il simile, escludendo il diverso. Ciò poteva avvenire (e ancora avviene) perchè i saperi sono stati rinchiusi in ambiti sempre più ristretti e specialistici, al punto da poter esibire e difendere una loro, preclusa ad altri, esclusività. Quando il sapere rimette però in moto non tanto gli esiti quanto le modalità di azione, le discipline infrangono i limiti ed una geografia dei bordi si rende esplicita. Per saperi ci si riferisce qui a quanto Michel Foucault dice (in Le parole e le cose) emerga a partire dal XIX secolo quando “il campo epistemologico si frammenta” e l’episteme moderna inizia ad organizzarsi secondo misure, che separano e specificano, assegnando a singole specificità la comprensione di una “unità” assunta solo come pre-condizione della storia. Ciò in un senso critico, in quanto la rottura e la frammentazione dei saperi conduce alla “invenzione recente” dell’uomo (all’inizio del XIX secolo), di cui, sempre Foucault, alla fine di Le parole e le cose, annuncia “forse la fine prossima”.

Proprio dall’arte, assumendo dunque l’arte all’interno di questi saperi, arrivano i segnali di un mutamento in corso, rintracciato all’interno del suo sistema (dell’arte) ma come eco o pratica diffusa di un mutamento più radicale, di una trasformazione in atto. Le differenze spingono dai confini. Le culture di un “terzo” o di un “quarto” mondo”, premono verso il loro fuori, per insinuarsi in consolidati equilibri che non riescono perciò ad inglobarle. Un sistema di “frontiere fluide infra e sovranazionali” (M. Hardt e A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002) disegna il volto di una geografia non più solo rintracciabile sulle carte. Le regioni mescolano le identità. Le differenze non si propongono solo come identità nazionale che cerca di entrare in relazione con altre identità.
Quanto fino agli anni ’70 si voleva nominare (ad esempio “Terzo Mondo”) per riconoscere in una definizione unitaria le profonde differenze economiche e culturali di paesi e regioni destinati a costituire gli spazi potenziali di strategie del Primo o Secondo Mondo (vedi ancora M. Hardt e A. Negri, Impero, p. 310), oggi appare sotto altri aspetti: la frammentazione, la parcellizzazione di medesime leggi economiche e sociali, rende le differenze non più rintracciabili o quantomeno, disseminate in dinamiche più complesse. Le differenze si assimilano alle identità, spingono dall’interno, si intrecciano a quanto rappresentava un centro. Il sistema che ci si presenta è diffuso e stenta a conservare la vecchia immagine, il tradizionale ordine, perchè qualcosa sta mutando una vecchia configurazione di equilibrio e di organizzazione politica e culturale.
Quanto Georges Bataille già dal 1928 e poi subito dopo, dal 1929 al 1930, con il progetto e la realizzazione della rivista “Documents” ipotizzava, torna a porsi come attualità. La differenza (quadri di Picasso, Masson, Mirò, insomma arte contemporanea e fotografie dei selvaggi d’America, immagini di riti tribali e di frammenti del corpo umano riprodotti a grandezza naturale) non si poneva per Bataille come metafora. Era la premessa concettuale con cui si intendeva riconsiderare l’identico e il diverso, spostando i termini tradizionali della loro definizione: non come semplice polarità all’interno di medesime dialettiche che pongono termini diversi l’uno contro l’altro, ma come aspetti complementari di una riconfigurazione culturale che si fonda sul confronto, lo scambio, la compartecipazione.La posizione della marginalità.

La centralità è in crisi. La crisi non è una fase, un momento particolare, delimitato nel tempo o nello spazio. La crisi è nell’instaurarsi di una pratica critica che interviene dall’interno, implicitamente a quanto si manifesta in superficie. L’arte contemporanea insiste sulla perdita di questa centralità ma senza voler divenire o porsi come un’altra avanguardia. Piuttosto si delinea una pratica concettuale, che si dispiega lentamente, avvolgendo la teoria e la prassi dell’arte in una medesima direzione. Nell’informe di G. Bataille, nel mimetismo di R. Caillois, nel tableau di J. Lacan era già stato annunciato che la differenza è quanto rovescia la prospettiva dello sguardo lineare (dal soggetto all’oggetto ma anche il suo contrario), portando all’origine della sua azione il fuori stesso e i margini.
G. Bataille considera le marginalità delle storia (ad esempio i rituali aztechi, in cui il coraggio straordinario e il gusto per la morte appartengono a una condizione oramai remota dell’uomo) come la differenza che mette in crisi l’identità della storia a lui contemporanea. Bataille considera l’identità come il risultato di una pratica epistemologica di costruzione del sapere e della soggettività (dell’individuo ma anche culturale, artistica, etc.) che mira ad unificare e a emarginare, a sistematizzare e ad escludere, a centralizzare in unità chiuse piuttosto che a far esplodere in diversità disseminate. L’al di là dell’identità, la sua differenza e marginalità, si poneva con Bataille, all’inizio del XX secolo, come ipotesi sul “nulla” edificante, come ricerca dell’informe oltre la forma con la quale vita e pensiero si manifestano. E l’informe non era, come è stato più volte sostenuto (Krauss, Bois, Didi-Huberman, etc.), ciò che è poi divenuto, nell’arte, l’informale e le pratiche di nuovo espressionismo emerse tra la fine degli anni 40′ e gli anni 50′.
Ora, l’arte del XX secolo, attraverso movimenti che hanno fondato il loro progetto sul corpo e sull’azione, sul gesto e il progetto più che sui particolari risultati raggiunti, (body art, happening, performance), sulla perdita (riproducibilità o essenzializzazione estrema delle esperienze minimalizzanti, di azzeramento del colore e dell’oggetto, concettuali come ad esempio Allan McCollum o Marcel Broodthaers o Christian Boltanski, ma anche Ad Reinhardt o Rotkho o il “monocromo” dei primi anni 60′ in Italia), ha visto l’opera d’arte mutare radicalmente il proprio statuto: le sue fasi di concezione e realizzazione. L’opera si è posta negli interstizi di un pensiero dell’arte che non si materializza in oggetti specifici. Si è identificata con una pratica performativa connessa alla quotidianità. Ha anche sospeso la sua riconoscibilità perchè è divenuta indagine linguistica e ipotesi aperta sul senso che mette in atto. L’opera si è posta al di fuori della sua definizione materiale e si è diffusa in una pratica, in una “forma di vita” da verificare. Tale estensione e dispersione di centralità ha invaso il contesto, non soltanto nel senso di una misura fisica, ma concettualmente.
I luoghi e i non-luoghi dell’arte possono essere, dagli anni ’60 in particolare, piccoli o grandi spazi, città e giardini, stanze o pagine di riviste (R. Barry, R. Long, L. Patella, G. Baruchello, F. Mauri). Quello che si riconosce è la indefinibilità di un luogo dell’arte e il verificarsi di una pratica che invece cambia, trasforma il luogo, qualsiasi esso sia. L’arte diviene una pratica di intervento in un luogo, o si pone al di fuori dei luoghi specifici dell’arte (musei, gallerie). L’arte è arrivata a modificare i luoghi, contesti sociali o geografici o si è anche posta come supplemento rispetto ad uno spazio dato. Si pensino (oltre alle operazioni dei primissimi anni’90 di Marco Formento e Ivano Sossella dal titolo Supplemento) ma anche e soprattutto ai progetti di Vito Acconci, dalla fine degli anni ’70, di arte pubblica, dove più che pensare un’opera per uno spazio, l’artista progetta qualcosa da “aggiungere” ad un determinato spazio, per costruire una modificazione del senso già appartenente ad un luogo o una differenza ma dall’interno dello stesso spazio. Dalla marginalità, dalla “nota marginale” (Acconci) si produce la differenza, un qualcosa in più che assume la valenza di mutare la funzione della cosa/luogo preesistente.
Nelle opere di artisti degli ultimi due decenni si assiste ora ad un ulteriore mutamento, che radicalizza ancora queste ipotesi già emerse, conducendole verso altri esiti. L’arte si pone sempre di più come punto di vista critico: il luogo stesso in cui il sistema dell’arte tradizionale rivela la sua crisi. Tale pratica può essere assai minimale nei modi e nelle procedure attraverso le quali si presenta. Il minimalismo esce dai confini del movimento che la storia dell’arte ha definito negli anni ’60 -’70 e diventa una concezione implicita (ovvero assimilata) ad una pratica dell’arte. Gesti, operazioni, azioni ridotti ad una fisionomia apparentemente quasi indefinibile, tuttavia accresciuti nella potenzialità teorica del progetto attraverso il quale si realizzano, sono oramai ricorrenti nelle opere/progetti artistici più recenti. La differenza in questo senso si identifica con un vuoto, con una “mancanza”: una riduzione che coincide con un niente dell’arte non più allarmante ma divenuto ipotesi e progetto.
La differenza nell’arte assume però anche un altro aspetto. Pensiamo al proposito al grande interesse che oggi (ma già da qualche anno) esercita l’arte e la cultura di paesi la cui arretratezza economica e sociale, (storicamente e economicamente d’altro canto stabilite – vedi l’accenno nel paragrafo precedente) aveva frenato la loro penetrazione nel mondo cosiddetto occidentale/europeo. Il 1989, anno che segna un radicale e globale cambiamento nell’economia mondiale, è anche l’anno della fine “storica” dell’apartheid in Sud-Africa. Questi eventi coincidono con un mutamento sostanziale della posizione dell’arte e degli artisti africani (i quali vivono e lavorano sia dentro che fuori il continente), che da allora si vedono protagonisti e partecipi di un mercato e sistema artistico internazionale. Un gran numero di nomi di artisti contemporanei si intrecciano a quelli già noti del panorama occidentale. Tra di essi Romauld Hazoume, Oladélé Bamgboyé, Moshekwa Langa, Kay Hassan, Kendell Geers, Tracey Rose, Barthelemy Toguo, Georges Adeagbo, Mary Evans, Fatimah Tuggar, Wangechi Mutu, Mona Marzouk, Pascale Marthine Tayou, Donald Odita. Inoltre curatori, storici dell’arte, studiosi, dipartimenti universitari indirizzati verso lo studio dell’arte di questo paese, sono emersi nel panorama internazionale. Biennali (Dakar, Cairo, Johannesburg), festival, forum sono inoltre oramai rassegne di imprescindibile interesse per misurare lo stato dell’arte contemporanea da un punto di vista non più soltanto centrato sui tradizionali panorami. Il problema che si pone è allora di doppia natura. Da una parte ci si interroga su come e perché si è verificato (e si sta verificando) uno spostamento di centralità e identità culturali e artistiche. Non soltanto si assiste ad un’emergenza ma al mescolamento e all’intreccio di modalità e procedimenti artistici. Dall’altra parte, ci si chiede in quali modi avviene la ricezione di tali opere e artisti. Una internazionalizzazione dei modi e delle tecniche, delle concezioni a livello progettuale, appare come grande segnale, che dunque trasforma qualsiasi presunta o cercata definizione da un punto di vista dei luoghi o dell’identità nazionale in una più complessa visione internazionale dell’arte contemporanea. Linguaggi e esperienze si mescolano. L’emergenza è quella di una cultura estesa, in cui più elementi convergono. Resta da capire se vecchi ordini della cultura e del sapere continuino a convivere al di sotto delle differenze e quanto questa differenza sia divenuta una misura diffusa, all’interno della quale si può stabilire un grado ma non i confini di una o un’altra esperienza culturale. La marginalità che “avanza” e con essa la differenza, indica uno stato in atto di trasformazione, le cui coordinate sono da rintracciare mutando il punto di vista critico e ponendosi nell’ottica non della definizione di una novità ma di un cambiamento radicale al quale stiamo assistendo.
La relazione allarga il campo d’azione.

Culture e linguaggi si intrecciano venendo a formare una rete di relazioni che muta ogni singolarità. Alla periferia del sistema dell’arte premono energie autonome che vivono e si nutrono di questa lateralità. Raves, feste, incontri, manifestazioni che potrebbero essere comprese in una rinascita di neo-tribalismi diffusi, si spargono sul territorio in maniera nomade, senza riferimenti certi, se non nelle comunità che li popolano, che si ritrova, mutando anch’essa ogni volta, espandendosi o restringendosi, animata dagli stessi interessi, obiettivi, desideri. Come potrà ricomprendere tutto questo il sistema/arte? O è il sistema stesso che, già in crisi, non riesce a definire, a nominare e dunque a ricomprendere in un medesimo ordine l’identico e il diverso, il centro e la marginalità, i nord e i sud del mondo? Il sistema di relazioni che si costituiscono al di fuori del sistema (dell’arte, ma anche sociale, economico, etc.) sfidano il sistema stesso. Non c’è soltanto un fuori che si pone come antitesi, come diversità in conflitto con quanto diverso non è. La diversità si diffonde, si insinua negli interstizi del sistema (da lì era anche nata) e spinge. Ne dissolve i confini, ma dall’interno, come Bataille, riprendendo una metafora già usata da Karl Marx, diceva si esprimesse la tensione dell’informe: una talpa che scava nelle viscere della terra.
Tale rete di relazioni, che uniscono il diverso proprio dove alloggiavano soltanto il simile e l’identico, costituisce a sua volta una differenza: spaesamento invece di ancoramento al luogo, perdita di identitˆ e confini non più disegnabili. Si sono invertite le figure “classiche” di una ontologia della differenza: per cui non è il non luogo che aspetta di essere rinominato (luogo) e definito ma è lo stesso non-luogo ad aver occupato, concettualmente e nella sua specificità di funzione, il territorio, lo spazio ed anche la mente. Allo stesso modo la misura (del valore dell’arte, del piacere, dell’immaginazione, dei poteri dell’immagine) si allinea alla dis-misura dove è dunque l’incommensurabile a recuperare spazio dopo la quasi definitiva esclusione a cui l’aveva relegata la tradizione metafisica. Tutto non è soltanto misurabile. Anche l’incommensurabile si fa avanti per connotare una indefinibilità che è mutamento di un orizzonte esistenziale/mentale/politico. Le relazioni non sono soltanto tra quanto è definibile e riconoscibile. La relazionalità è anch’essa un concetto, un paradigma che articola e diffonde una pratica del pensiero e dell’arte, del pensiero/arte.
Non è l’opera soltanto ad essere costituita nel gioco (attraverso il gioco) di relazioni che a sua volta dispiega. L’arte stessa, il suo contesto ovvero le figure che lo compongono (artisti, critici, curatori, agenti e committenti, mercato) è un sistema, un “campo” diremmo nell’accezione data a questo termine da Pierre Bourdieu, in cui le parti interagiscono in una trama indissolubile, le cui “regole” (come ancora dice Bourdieu) fissano le funzioni di ognuna. L’opera è soltanto uno dei passaggi e ciò che invece è da individuare è la circolarità che si articola nei passaggi tra queste figure.
Se il postmoderno aveva teorizzato l’eteroclito e il diverso, la commistione dei generi e aveva fatto di tale caoticità il baluardo del proprio sistema culturale, ora la differenza torna a riproporsi ma con un predominante risvolto critico. Consapevoli del fatto che non è soltanto nel proporre l’adiacenza (di tutto con il tutto senza distinzione) che si produce un paradigma critico e teorico per la contemporaneità (anche se questa sembra ancora la formula per progettare esposizioni o eventi artistici d’ogni tipo), è necessario riappropriarsi di un pensiero critico, nella convergenza di quanto proveniente, in questo senso, da direzioni diverse, apparentemente disseminate: in realtà condivise perché nate in un medesimo orientamento, tuttavia disperse. La dispersione segnala una estensione e una smaterializzazione non più facilmente identificabili dei confini in cui si racchiudevano valori e categorie. Le relazioni sono allora tra quanto è condivisibile e non semplicemente nel porre accanto. Resta da compiere un’azione critica consapevole, (una nuova etica?) che permetta di rintracciare il diverso, laddove esiste, e di porre in sintonia quanto, nonostante la diversità, si rintraccia comune.

Artista vs opera

Il volto si ripropone in primo piano. L’artista coglie un’espressione: racconta una storia partendo da un ritratto. Fotografie, film in 16 mm, video proiettati su tre schermi (identità decentrate come nei film e video di Eija-Liisa Astila), manipolazione di volti, ricerca di motivazioni, di pensieri non esibiti (i Signs that say what you want them to say and not signs that say what someone else wants you to say di Gillian Wearing, del 1992/93 o ). Le espressioni dei volti presentano degli individui che si scoprono in cerca di una identità, che prendono atto di una mancanza (storicamente legata alla famiglia, alla società, agli ambienti in cui vivono e lavorano), di una crisi: di valori, di identità. Tuttavia non cercano una nuova fisionomia, non inseguono modelli o mitologie per ritrovare se stessi. Assumono questa crisi come peculiarità di una condizione: quella dell’epoca in cui vivono. Incertezza, dubbio, depressione, solitudine, mancanza di affetti, di gratificazione, di dialogo, di comunicazione. L’artista si sofferma su questo stato di fatti. Sono i dati di una condizione. Gli ambienti si offrono nella loro più squallida realtà, le presenze che li occupano anche. L’ironia a volte interviene ma come elemento critico, dissacratorio di una morale che sembra irreversibile. L’artista si impegna in progetti che all’inizio si limitano a documentare, raccogliere dati, informazioni. Tali progetti poi si modificano, cambiano quando la partecipazione del pubblico (non più spettatore ma parte attiva del lavoro) interviene per porre delle varianti, che tuttavia non cambiano il progetto di partenza. Concettualmente il progetto poggia su una griglia sufficientemente rigida che non muta nel corso della realizzazione. Questa processualità dell’arte assimila quindi quanto proviene dall’esterno: esperienza, procedure e modi di vivere, pensare, raccontare. Il processo è dunque l’opera e l’artista si fa egli stesso mediatore, agente, conduttore di un’operazione che è indicazione di una modalità del fare l’arte ma anche del fare in termini più ampi. La produzione di opere lascia spazio alla messa in atto di processi artistici che, per il loro carattere performativo, arrivano solo poche volte a lasciare oggetti compiuti: E. Fantin, M. Folci, C. Pietroiusti, A. Zanazzo, Cesare Viel, Bruna Esposito, F. Gonzales-Torres, R. Tiravanija, P. Huyghe, tra molti altri. L’artista si introduce in ambienti familiari, cerca di parlare con gente incontrata casualmente, mette in atto situazioni in cui nascono relazioni tra vari individui. Si mescolano le identità e si cerca nella differenza (tra sé -tra l’artista- e gli altri, tra gli stessi altri) quanto è comune ed è condivisibile rispetto a questioni accessibili o alla portata di tutti.
L’accento che si pone su tale processualità sposta l’attenzione sull’artista, sul suo modo di pensare e progettare il lavoro. Chi è l’artista? diventa la domanda. L’opera si configura come operatività: pratica concettuale in formazione.
A questo punto l’opera non è immagine di un luogo, di una regione, di un paese particolare. La mappa del mondo, la geografia dei luoghi appare, attraverso le opere d’arte più recenti, una diffusa unica terra in cui tutte le identità sono disperse in una pratica critica sul mondo stesso: economia, mercato, società, moda, costume, sesso, famiglia, storia personale, politica. Se da una parte questo potrebbe far pensare ad una diffusione di modi e procedure artistiche comunque nate in paesi che conservano o vogliono conservare l’egemonia e il controllo di una sistema dell’arte internazionale, dall’altro si preannuncia la possibilità di una condivisione di un pensiero e di una prassi artistici che, nonostante le differenze dei luoghi e dei contesti in cui si producono, lasciano intravedere la riappropriazione di un comune punto di vista critico sul mondo.

Dall’alto:

Tiravanija, Atlas 1,1995

Cesare Pietroiusti, The other’s gaze, 2002

Luca Maria Patella, Mut-Tum

Gianfranco Baruchello, La verifica incerta, (fotogramma dal film) 1964

Mauro Folci, Effetto Kanban, 2002

Felix-Gonzales-Torres, Senza titolo, 1991, installazione

Emilio Fantin, By air, 1992

Bruna Esposito, Aquarell,1998

Alberto Zanazzo, Quattro venti, 2002

Allan-McCollum, 5 Surrogates

Cesare Viel, Operazione bufera, 2003