In una sala semioscura, su una piattaforma rialzata interamente rivestita di zinco, venticinque vasche, anch’esse di zinco, ospitano al loro interno 100 fiori di specie diverse tenuti in vita tramite un complesso sistema di irrigazione e al tempo stesso minacciati da venti industriali e aria raffreddata al freon, in un ciclo continuo di tenace sopravvivenza e rassegnata resa alla morte, in costante bilico tra la resistenza e l’abbandono.
Che cento fiori sboccino. Questa l’installazione che l’artista cileno Alfredo Jaar ha pensato e creato appositamente, con la collaborazione dell’Assessorato all’Ambiente del Comune di Roma, per gli spazi del MACRO, in mostra dall’8 giugno al 18 settembre 2005.
L’opera richiama nel titolo il movimento promosso negli anni ’50 da Mao Tse Tung, che riprendendo i versi famosi di un’antica poesia cinese “Che cento fiori sboccino: che cento scuole di pensiero si confrontino” invitava gli intellettuali del tempo a risvegliare l’ambiente culturale dell’epoca e che si concluse invece, contrariamente ai propositi, in una tragica e feroce repressione di tutti quei movimenti che allora sorsero in opposizione al regime.
Nella sospensione oscillante della contraddizione di questo giardino ideale, dalle dimensioni ambientali e dal forte impatto scenografico, il nostro respiro si unisce così al fluttuare tentennante dei fiori, al vento che li scuote, al gelo che li sfida. E non solo. Nel mezzo della lotta, tra queste forze contrastanti, confluisce la fermezza incisiva di un soffio ancora più potente ed audace.
È lo spirito di Antonio Gramsci, presente attraverso la ripresa video della sua tomba, proiettata sullo sfondo della sala, che dal cimitero Acattolico di Roma giunge sino a noi invadendo simbolicamente l’intera stanza e i nostri pensieri. Per la necessità del suo pensiero politico radicale: “indispensabile per fronteggiare il nuovo fascismo che incombe sul XXI secolo”, secondo le parole dello stesso Jaar.
Per auspicare l’avvento dell’intellettuale “organico” in grado di fornire, attraverso l’informazione, la partecipazione e la divulgazione del proprio sapere, a coloro che non appartengono professionalmente alla classe intellettuale, i mezzi culturali basilari per combattere ogni forma di violenza, di ingiustizia sociale, di totalitarismo, di omologazione e soppressione delle differenze.
Come nei precedenti lavori di Alfredo Jaar, anche in questo caso non si tratta di un’opera a sé stante, compiuta, ma di un processo sviluppatosi nella successione di una trilogia che cominciata con l’opera fotografica Infinite Cell esposta a Milano nel dicembre 2004 dalla Galleria Lia Rumma si è conclusa a Roma l’8 giugno 2005 nello Studio Stefania Miscetti con Le ceneri di Gramsci, la foto dell’esplosione di una stella che si riflette in un gioco di specchi in movimento continuo e ripetuto.
La trilogia dedicata ad Antonio Gramsci rappresenta anche un chiaro omaggio al poeta Pier Paolo Pasolini, evidente nella ripresa, nell’ultima tappa, del titolo di un suo poemetto.
Ed è proprio attraverso il richiamo al potere evocativo dei pensieri e delle parole dei due intellettuali, presi come modelli di resistenza e moralità, che Alfredo Jaar riflettendo sul ruolo degli intellettuali pubblici, delle istituzioni culturali, sulla capacità dell’arte di entrare in un dibattito rivoluzionario, quanto mai indispensabile, giunge alla consapevolezza dell’urgenza di una rivoluzione culturale.
Ancora una volta, dunque, Alfredo Jaar porta avanti la sua critica al sistema politico ed economico vigente, denunciandone i meccanismi sempre più opprimenti di controllo dell’informazione. La sua arte, difatti, esposta in tutto il mondo [1], si basa proprio su “quelle affermazioni che la maggior parte di noi preferisce ignorare”, e quindi sull’orrore della guerra, della violenza, del genocidio, sui conflitti etnici. Parla di temi scomodi e complessi, di grande urgenza ed attualità, spesso taciuti e occultati dai mezzi d’informazione pubblica, per combattere proprio queste omissioni, questi silenzi, contro tutte quelle forze che dinnanzi alla diversità e complessità del mondo culturale oppongono la legge del controllo e della repressione, dell’omologazione forzata.
Ricorda la miseria e la precarietà che affligge milioni di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo, il dolore e l’amarezza di chi è sopravvissuto al massacro. Un’arte verità, che si fonda sull’esperienza in prima persona [2], sulla raccolta di dati e di voci, sull’incontro diretto di luoghi e persone, di geografie e parole, e dove la verità è intesa secondo la concezione brechtiana.
La verità è ciò che ci cambia, che accadendo non lascia le cose come stavano prima.
Venire a conoscenza dei fatti, a diretto contatto con gli avvenimenti che giornalmente si verificano, non può difatti esaurirsi nella conoscenza. Dopo questo primo passo è necessario compierne altri. Agire. La presa di coscienza deve indurre all’azione, alla responsabilità morale, alla libertà del pensiero.
“L’educazione, la cultura, l’organizzazione diffusa del sapere e dell’esperienza […] è essa stessa libertà, è essa stessa stimolo all’azione e condizione dell’azione” scrive Gramsci in un articolo del 1918.
Questo il senso dell’intero progetto. Della lotta che si consuma dinnanzi al cimitero all’interno del giardino, tra Mao e Gramsci, tra la terra, la luce e il forte vento, tra la dittatura e la libertà.
Fiori ondeggiano lievi al triste vento, ma per non appendere le cetre. Per continuare a cantare, informare. Il loro profumo investe i nostri sensi e li risveglia nella consapevolezza, perché malgrado il gelo che li accompagna, qualcosa scalda il cuore. La speranza della primavera delle proprie coscienze, l’impegno in prima persona e immediato per fronteggiare i fantasmi del passato e i pericoli del presente. Per un mondo migliore. Perché un mondo migliore sia possibile. Grazie a nuove fioriture e all’”urne dei forti” che “a egregie cose il forte animo accendono”.
Perché ogni fiore sia una ginestra in grado di guardare in faccia la lava dell’occultamento, per superare l’accecamento imposto da chi detiene il potere e oscura la nostra esistenza, il nostro sguardo.
“L’esistenza che Jaar vuole evocare, costruire, farci vivere, è il mondo dove i cento fiori sbocciano non per aiutare l’istituzione del regime, ma come segno di una primavera esistenziale di amicizia, creatività, convivenza, non di una pianificazione neutralizzante e rassegnata, bensì anche di competizione civile, possiamo dire” [3]
Perché ognuno pianti il suo seme della rigenerazione.

 

NOTE:
[1] Ha partecipato a numerose esposizioni internazionali, tra cui la Biennale di Parigi del 1982, la Biennale di Venezia del del 1986, quella di San Paulo del 1987, Johannesburg e Sydney (1990), Istanbul e Kwangju (1995) e due edizioni di Documenta 8 nel 1987 e Documenta 11 nel 2002.
[2] Ins tancabile viaggiatore Alfredo Jaar si è difatti recato nei luoghi ove si sono verificati tragedie e crimini contro l’umanità: Ruanda, Corea del Nord, Cile, Vietnam, Sudafrica, il confine tra Stati Uniti e Messico, le miniere d’oro in Brasile.
[3] G. Vattimo, Alla ricerca di Gramscizi, in Alfredo Jaar, cat. a cura di Dobrila Denegri, Electa, Milano, 2005