Il titolo è ironico, e amaro al tempo stesso, con il suo richiamo ad una certa frivolezza quasi giornalistica. Come se fosse possibile chiamare “notizie” l’insistita ricerca di Boltanski sulla memoria e sul tempo, come se la parola ultime potesse non caricarsi di significati funerei. Eppure è bella l’immagine evocata: come di un uomo che viva in un luogo lontano e isolato e a tratti si affacci al mondo, per trasmettere i suoi pensieri più recenti, le sue “ultime novità”, appunto…
Verrebbe da dire “più proustiano di Proust”, e stupisce che nei testi che accompagnano l’esposizione né l’autore della Recherche né la sua opera vengano citati: eppure il lavoro di Boltanski, come la Recherche, altro non è che il tentativo continuo di rintracciare un’identità continua e unica nel fluire continuo dell’esistenza affidandosi al potere della memoria. Ma, a differenza dello scrittore, Boltanski usa il ricordo per la ricostruzione “visiva e fisica” dell’esperienza, non ha bisogno di ricorrere alla narrazione verbale, ma ricrea ambienti e situazioni, affianca volti e immagini, oggetti e fotografie.
Il lavoro di Boltanski è, qui, tutto incentrato sulla molteplicità, molteplicità di luoghi e persone innanzitutto, ma anche molteplicità delle identità, varie e cangianti nello scorrere del tempo e delle esperienze. Ed il percorso della mostra non è altro che un percorso attraverso questa molteplicità, un perdersi ed un ritrovarsi continuo, in cui unica guida è il filo d’Arianna del ricordo.
Già all’ingresso si esperisce il primo “incontro” con la moltitudine ed il senso di sperdimento che ne consegue: sugli scaffali addossati alle pareti della stanza, come in una biblioteca, sono stipati migliaia di elenchi telefonici di tutto il mondo, in libera consultazione (Les abonnées du telephone, 2000). Ed è forte l’esperienza di chi, cercando nell’elenco della propria città, ritrovi il proprio nome, magari ad un indirizzo vecchio: un senso di sperdimento, di annullamento improvviso nella molteplicità dell’esistente, ma anche il confronto immediato con un altro sé stesso, con quello che si era fino a poco tempo fa.
A sottolineare il continuo trascorrere del tempo, un orologio parlante, collegato ad un sistema di altoparlanti distribuiti in tutte le stanze, scandisce le ore e i minuti ed accompagna tutta l’esposizione.
Con l’opera successiva si effettua già il passaggio da una dimensione generale, collettiva, ad una più intima e personale: in Entre temps (2003) Boltanski affianca in dissolvenza incrociata una serie di fotografie che lo ritraggono in diversi momenti della propria vita, dai 7 ai 58 anni. È di nuovo l’immagine più evidente dei cambiamenti che il tempo apporta al nostro essere, la dimostrazione visiva della mutabilità dell’io, ed allo stesso tempo della sua sostanziale continuità. Ma il rintracciamento dell’io non può non passare attraverso la registrazione della memoria, il succedersi degli avvenimenti nell’incontro fra Storia e cronaca, fra Storia universale e storia personale: perciò Boltanski si concentra su un giorno in particolare, il 6 settembre, sua data di nascita, e raccoglie e proietta a velocità elevata le immagini trasmesse dai telegiornali in tutti i 6 settembre degli ultimi 60 anni, invitando poi lo spettatore a fermare un solo fotogramma in questo fluire rapidissimo, regalando l’illusione di poter fermare il tempo, spingendolo ad effettuare una selezione, per quanto involontaria, nella miriade di avvenimenti che hanno accompagnato la vita di Boltanski (6 Septembres, 2005).
Con Contacts (2002) l’indagine si fa ancora più intima, il confronto non è più verso l’esterno, ma direttamente con sé stesso e con il proprio passato: Boltanski ci guida alla ricerca della propria memoria attraverso un collage di fotografie (anzi, di provini a contatto) che rappresentano l’artista stesso o persone e luoghi e oggetti conosciuti o amati nel corso della vita.
La modalità stessa dell’esposizione delle fotografie è particolarmente straniante, sono affiancate le une alle altre come nella bacheca di un museo, in una sorta di ostensione della propria memoria, della propria vita. È qui più che mai evidente come la fotografia sia, nell’opera di Boltanski, soggetta ad un utilizzo ambiguo: da un lato è il testimone del passare del tempo, l’evidenza incancellabile del momento, dall’altra l’unico legame che ancora ci tramanda, in maniera oggettuale, quel tempo, quel passato, quella identità.
Con l’installazione Les images noires, creata appositamente per il Pac di Milano, L’esperienza della moltiplicazione viene sperimentata anche dallo spettatore: alle pareti di una stanza fiocamente illuminata sono appesi riquadri neri specchianti di varie dimensioni, come in una galleria di fotografie, ma le uniche immagini ritratte sono i volti dei visitatori stessi, fugacemente riflessi sulla superficie scura dei quadri. Lo spettatore vede così il proprio volto riprodotto e mescolato ai volti degli altri astanti e dei molti che vi si sono specchiati prima di lui, mentre in sottofondo delle voci pronunciano, come in un rosario di fantasmi, nomi propri di persona: si ha così la strana ed inquietante sensazione di sentirsi chiamare per nome, ed essere allo stesso tempo completamente anonimi.
È questo forse uno dei punti culminanti del percorso dell’esposizione, il momento in cui l’esperienza dello spettatore si inserisce nella traccia che dalla molteplicità delle esperienze e degli avvenimenti arriva fino alla memoria personale di Boltanski. Qui il senso di sperdimento viene generalizzato, non si distingue più tra noto e ignoto, tra sé e gli altri o, come nell’opera Les Portants (1988), tra vittima ed assassino.
La mostra prosegue poi con Mes morts, 16 placche di metallo che portano incise le date di nascita e morte di altrettante persone care all’artista, come in uno scarno e sconcertante memoriale, nel quale lo spazio della vita si riduce al trattino che separa le due date, quasi a sottolineare l’ineffabilità dell’assenza, ed il resto è lasciato, di nuovo, alla memoria personale
L’ultima tappa della mostra è forse “il ritrovamento”, con Le coeur (2004): nel corridoio interno della balconata, isolato dal resto dell’esposizione, è amplificato il rumore del battito cardiaco di Boltanski, accompagnato dalla fioca luce di una lampadina che pulsa al suo stesso ritmo. Proprio il battito cardiaco, forse la più sintetica e scarna espressione dell’io, dell’istinto vitale, assume qui il senso di un ritorno al sé più intimo e più profondo, che, come in un ultimo disvelamento, viene esposto e messo in pubblico. Ma il battito del cuore è anche il punto di tangenza tra tutti gli esseri, un richiamo al minimo comun denominatore dell’umanità, che invita il visitatore ad una mutua sincronizzazione/in un mutuo invito alla sincronizzazione con il visitatore.

Christian Boltanski. Ultime notizie
a cura di Jean-Hubert Martin
18 marzo – 12 giugno 2005 (prorogata al 19 giugno 2005)
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Via Palestro 14 – Milano

Dall’alto:

Les Abonnées du telephone, 2000;

Entre temps, 2003;

Contacts, 2002